L’idea di architettura

UCTAT Newsletter n.71 – ottobre 2024

di Marino Ferrari

Capita ogni tanto di parlare dell’architettura con un amico, il quale di architettura se ne intende: direi anche parecchio. Abbiamo da tempo due visioni avverse ma almeno concordanti nell’individuare ciò che potrebbe definirsi architettura e ciò che non lo è; due approcci o metodi differenti ma che stranamente portano alle medesime conclusioni. Lui riesce in modo meraviglioso a storicizzare le opere, io a negarle, ma io non sono bravo, mantengo il dubbio e la perplessità. Per me, da tempo, l’Architettura è morta e dunque se ne parla come se si parlasse di un defunto, pur interessante e lodevole, ma sempre defunto. Lui invece no, riesce a trasferire le sue visioni in una sorta di astrazione colta che oserei dire, convincente e carica di enfasi. Da tempo, pur avendola io praticata e a suo giudizio anche bene, l’ho sempre considerata e valutata come un fatto materiale e dunque dentro ai processi di materializzazione del pensiero e delle idee correndo quindi il rischio, anche tragico, della finzione. Quando osservo una architettura che viene presentata come tale, guardo l’oggetto cercando di capire innanzitutto a che cosa esso si riferisca, a che cosa serva: la forma sovente tradisce le intenzioni progettuali ed inganna l’osservatore critico e so bene che dietro e dentro a quelle ambizioni resiste una astrazione, vale a dire una visione del mondo nella quale collocare il contesto. Il primo tradimento è appunto la visione del mondo ovvero la soggettività con la quale chiunque desideri progettare l’architettura, ad essa fa riferimento. Non è accettabile che un processo oggettivante sia caratterizzato e dominato da una visione soggettiva: questo approccio non solo definisce la linea di demarcazione tra la Architettura come ci viene trasmessa dalla Storia, e la linea che separa la storia medesima della contemporaneità. E così sembra debba essere, perché ciò che caratterizza la soggettività è, in un certo qual modo, la reazione anch’essa contemporanea alle molteplici forme di omologazione o più semplicemente di uniformazione agli stilemi (termine arcaico…) riprodotti, oramai industrialmente. Ed infatti “gli oggetti” che ci appaiono come architetture, altro non sono che la ripetizione pedissequa, dei medesimi processi. Citare la Storia e cercare di stabilirne confini o limiti è non solo arduo ma pericoloso, ma qui desidero usarla solo per fermare il pensiero liberandone le motrici che più si dispongano a servizio della così detta produzione architettonica. L’amico, correttamente, suggerisce in continuo la interpretazione delle opere secondo l’involucro culturale della storia, (ed è significativamente bello) l’appartenenza a tutti i costi alla storia anzi quasi il dominio suo. Effettivamente fatico a districarmi, a reagire con analoga profondità culturale, in una sorta di laicità; mi limito a frantumare l’opera, a vivisezionarla cercando di andare a prendere l’atomo che la governa. Difficilissimo: occorre essere ottimi chirurghi e dotarsi di strumenti appropriati ed infatti sovente abbandono; e pensare che potrei limitarmi a dire che quella opera mi piace oppure, diversamente, non convincente o altro secondo i momenti patologici. Non ho mai creduto nel giudizio ispirato alla bellezza soggettiva, anzi, al contrario e nei modesti suggerimenti elaborati, credo che una opera oggettivamente brutta paradossalmente possa alla fine piacermi. E dunque secondo questi limiti ho sempre considerato l’architettura una “fatto oggettivo”, e la realtà sembra darmi conforto: si producono oggetti che intasano le città e che sono espressione di apparati tecnologici costruttivi imposti dalla produzione alla quale, rendendole omaggio, l’architetto (ma non necessariamente) si adegua fiero della sua appartenenza ad una categoria oramai sbiancatasi ma per questo rivalorizzata sotto altri aspetti. Una componente della crescente nomenclatura che rende omaggio alla “atomizzazione delle conoscenze”[1]affinché si possano indirizzare agli specifici ambiti produttivi e di conseguenza, destinarli ai processi progettuali: il pensiero, l’idea, l’olismo recitato, il progetto dematerializzato e rappresentato sulla via della virtualità, il convincimento pubblicitario, la sintesi dell’oggetto realizzato e celebrato ed anche decantato. Quegli aspetti che, del resto, appaiono sovente nelle presentazioni e rappresentazioni delle opere in particolare là ove la poetica o qualcosa di simile, li accompagna sostenuti da appositi gesti formali al fine di completare il processo produttivo: come si usa, un vero e proprio prodotto commerciale. L’idea è qualcosa di descrittivo, il progetto qualcosa di elaborato come materializzazione di un gesto (tra non molto sarà sufficiente pensare e la intelligenza artificiale garantirà l’artificio), l’oggetto la sintesi delle applicazioni tecnologiche, nei migliori dei modi, garantite dalle maestranze immobiliari. L’amico non crede, anzi non vuol farmi credere, a queste mie analisi e valutazione, tende ancora verso la speranza architettonica nonostante da tempo venga ripetuto che l’architettura e l’arte salveranno il mondo o lo cambieranno con effetti decisamente negativi; cambiare il mondo certamente sia pure non conoscendone la misura, nella realtà materiale, nelle strabordanti antropizzazioni, nella mistificazione ambientale e nelle illusioni naturalistiche. Ovviamente non necessariamente irrorate da pessimismo e forse anche da cinismo. Ma questa sembra apparire la realtà. La mia vivisezione dell’architettura, dell’oggetto architettonico, comunque a volte mi diventa interessante, salvifica. Mi ricordo “Saper vedere l’architettura” di Zevi; ecco, in quelle modalità di approccio alla “visione” dell’architettura, fra le altre, fondamentalmente accessibili alla maggior parte degli studenti, mi sono ritrovato con un analogo approccio in Saper vedere (l’arte) di Marangoni. E ciò pericolosamente mi ha condotto a spogliare il manufatto, toglierlo dal terreno sul quale grava, separare l’involucro edilizio distinguendolo e catalogandolo, dalla veste architettonica (quella della apparenza) cogliendone le forme e cercando di intuirne gli spazi conformati. Distinguere i materiali utilizzati capendo, ove possibile, la relazione stretta con la forma e con il “messaggio” comunicato (quello narrato secondo la prassi contemporanea lo lascio ai fini dicitori, coloro che sanno collocarsi e collocare nella storia non conoscendola). Analizzare con senso compiuto le parti tutte, le componenti tutte, i rapporti tra parti che si relazionano (brutto termine) con l’esterno e viceversa, assimilandole al percorso vero delle trasformazioni linguistiche che l’Architettura vera, percorrendo la Storia, ci ha trasmesso. Perché narrare l’architettura sarà anche bello come narrare una storia al bambino per accompagnarlo verso un sonno rilassato e ricco di sogni i belli, ma ahinoi l’architettura persiste come fatto materiale, come oggettivazione di una idea e fors’anche di un pensiero greve che deve essere assolutamente liberato. La traslazione di un pensiero, di un principio informatore, di un quadro culturale di riferimento senza il quale l’opera diventa evanescente. E lo è nei fatti, nella realtà perché si presenta alla fine come un cadavere di illusioni che attendono la sepoltura materiale e ideologica. Dopo la vivisezione ovviamente: perché il metodo è praxis, c’è poco da fare, ci si deve convincere. Noi alla fine produciamo oggetti che con il pensiero hanno una unica relazione: dare seguito alla propria esistenza sul campo della antropizzazione con una valenza soggettiva. E tutto assommato, questa potrebbe essere anche una bella odissea. Ho preso, tempo addietro, la Flagellazione di Piero della Francesca; l’ho scomposta in tutte le sue parti compresa la collocazione significante dei colori, ho ricondotto le relazioni delle parti (personaggi) con lo spazio costruito secondo la teoria del campo, l’ho ricondotta al progetto, anzi meglio all’idea progettuale, quella idea che ogni artista deve necessariamente avere. Alla fine, dal progetto restituito secondo le regole prospettiche, alla trasformazione tridimensionale in un “modello” di legno. Solo allora mi sono convinto della grandezza teologica di questa Opera.


[1] La parcellizzazione delle conoscenze, la divisione della conoscenza come la divisione del lavoro, è il presupposto del “prodotto da consumare”. Dividere la conoscenza per controllarne le applicazioni generando gerarchie di valori da ritrovare nel prodotto di appartenenza alla complessità del sistema in cui, invocare una autonomia potrebbe costituire una pura illusione ed una grossolana contraddizione che indurrebbe comunque a ricongiungersi al sistema medesimo. Avrebbe ragione d’essere la conoscenza come corpo unitario della scienza medesima.

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