Sulle probabili origini di personalizzare i luoghi di proprietà esclusiva
UCTAT Newsletter n.82 – ottobre 2025
di Alessandro Ubertazzi
Fra le molteplici tesi di Laurea che avevo assegnato piú di trent’anni fa sui diversi temi concernenti la qualitá dell’ambiente urbano, una in particolare riguardó le recinzioni.
In reltá, agli studenti Nicola De Francisci e Giovanni Zaccone, presso il Corso di Morfologia dei Componenti della Facoltá di Architettura dellUniversitá di Palermo, avevo asegnato come argomento di tesi “Intorno alla proprietá; muri, muretti, recinzioni e cancelli”, che sarebbe sata discussa nel 1992.
Ho ripescato il testo che gli affidai come contributo scientifico dal quale partire per le loro indagini: non solo anche oggi direi le stesse cose ma mi sembra simpatico estenderle alle riflessioni degli amici che leggono “Urban Curator TAT”.
Gli studi sul comportamento degli animali riferiscono che praticamente tutti gli esseri viventi dispongono di un’area specifica di competenza che viene assunta abitualmente come luogo rappresentativo. Alcuni animali marcano il loro territorio e lo identificano spazialmente tanto che, agli altri della stessa specie, non è consentito avvicinarsi o penetrarvi senza evidenziare una conflittualità esplicita con il “proprietario”. Agli inizi della sua storia, lo stesso uomo si comportava eminentemente da cacciatore e perciò eleggeva a residenza anfratti o recessi, probabilmente improntati da una caratterizzazione di questo genere.
Solo il manifestarsi di una effettiva residenzialità o di una qualche forma di stanzialità e, quindi, l’inizio della fase agricola, produsse nell’uomo un’idea progredita di “territorio di pertinenza”: in questa fase della evoluzione della specie umana, tutta la collettività tendeva a identificarsi con un determinato luogo mentre più tardi il singolo individuo avrebbe difeso l’ambiente di sua competenza. La collettività era portata a difendere la propria identità dal contesto circostante, da altri gruppi etnici o da altre realtà viventi più o meno ostili, più o meno conflittuali. Nella evoluzione del pensiero umano, si andava configurando l’ipotesi del limite, del confine dell’abitato: nasceva l’idea stessa di città che, all’inizio, coincideva sostanzialmente con l’unità residenziale di tipo patriarcale e, comunque, con insediamenti anche articolati e complessi costituiti dagli esseri umani con le loro attività, le loro attrezzature, il bestiame e le attività agricole relative.
Di quella città noi possiamo ricordare ancora oggi soprattutto il confine esterno: la città antica si identifica per essere circoscritta da mura. All’inizio della evoluzione umana esse sono sostanzialmente più un fatto simbolico e rituale che non difensivo.
Se andiamo a rileggere la vicenda di Roma (ma questo vale per molte altre città conosciute) non possiamo dimenticare che il fondatore, Romolo, prese l’aratro e circoscrisse con un solco il territorio che avrebbe potuto accogliere la piccola comunità dei suoi familiari. Remo, che osservava Romolo al lavoro, non prese troppo sul serio l’iniziativa del fratello e scavalcò deliberatamente quel segno: tanto bastò perché Romolo dovesse ucciderlo. L’oltraggio adombrato nel racconto (che gli scavi archeologici sembrano confermare) era evidentemente fortissimo: il gesto di aver varcato quel confine magico comportava la negazione dell’identità della comunità che si andava formando; con quel gesto dissacratorio l’idea stessa di una istituenda comunità veniva “azzerata”.
In epoche successive, il tracciato virtuale della città tese a materializzarsi con un circuito di mura difendibili; questo si sviluppò, si ampliò e, addirittura, si moltiplicò. Le cinte murarie di Roma sono molteplici e corrispondono concentricamente alle varie occasioni storiche nelle quali furono costruite.
Uscita dalla fase “etrusca”, che corrispondeva al periodo dei padri fondatori, la civiltà romana era venuta elaborando un dibattito che identificava gradualmente il singolo individuo all’interno di una comunità. Il singolo privato è ora inteso come il nucleo iniziale di una più ampia collettività conformata in città; questa tende a coincidere con tutto l’universo conosciuto.
Verosimilmente l’idea di proprietà aveva già cominciato a manifestarsi addirtitura nella fase pastorale prima che in quella agricola: i primi recinti che conosciamo, gli ovili, contenevano beni preziosi ad alto valore aggiunto che dovevano essere protetti da ogni rischio. Lasciati liberi, gli animali da cortile tendevano infatti a scappare: si trattava di una “proprietà mobile “ che doveva essere definita, circoscritta e difesa.
In pratica, comunque, l’idea di proprietà si codifica e si struttura a Roma; la giurisprudenza romana è realmente incentrata sull’idea di proprietà. Le popolazioni laziali che si erano da poco affrancata dai rischi della caccia per stabilizzarsi nelle operose attività agricole quotidiane, elaborarono un concetto, tutto sommato, abbastanza nuovo. In questo senso, i giuristi moderni sostengono che le matrici del diritto moderno sono romane e, appunto, di tipo agropastorale: in esse lo “stillicidio”, l’“abigeato”, il fondo intercluso o la proprietà di uno “sciame d’api” erano questioni essenziali la cui disquisizione ha portato a provvedimenti e leggi ancora oggi fondamentali.
Definita l’idea di proprietà, si precisarono i modi per difenderla: nacque così l’idea di uno spazio personale ottenuto dividendo lo spazio interno (proprio) da quello esterno, altrui. L’identificazione dello spazio mediante una recinzione significa fondamentalmente la separazione di uno spazio particolare da uno spazio generale o comunque non precisabile in quanto altrui o pubblico.
Non per caso la chiave è lo strumento che, in quel tempo, comincia a diventare simbolico della proprietà; la chiave esprime la possibilità di accedere a un luogo e di disporne. Quanto più il luogo è definito, circoscritto o chiuso e contiene beni, proprietà o ricchezze, tanto più è necessario disporre di uno strumento individuale personalizzato che autorizzi il solo proprietario a entrare e uscire, ad aprire e chiudere, eccetera.
In questo modo si spiega come l’invenzione della chiave dotata di “ingegno” sia, da un lato, strettamente legata alla singolarità, all’irripetibilità e quindi all’individualità di chi la possiede e, dall’altro, sia legata all’idea di proprietà: la chiave diventa la rappresentazione simbolica della proprietà e addirittura dell’ideale di proprietà.
Nell’èra moderna, lo stesso mazzo di chiavi esprime il potere: certe persone o, meglio, certi ruoli manifestavano la loro importanza attraverso l’esibizione del-la quantità di chiavi possedute: fra questi ricordo i ciambellani o le “madri badesse”.
A questo punto vale la pena di aggiungere qualche riflessione sul concetto di “definizione virtuale” e, per contro, di “definizione fisica” dello spazio.
Recentemente ho proposto di interpretare le costruzioni nuragiche in modo diverso da quello ufficialmente riportato. Gli studi sulla “città” nuragica descrivono normalmente questa realtà come una sorta di castello che dovrebbe servi-re a difendere una comunità dagli attacchi delle altre: secondo me questo non è assolutamente vero né dimostrabile. Ad onta della forma energica, solida e definita, apparentemente “adatta e resistere agli attacchi esterni”, il nuraghe poteva a stento contenere il capo del villaggio coi suoi più fedeli, quattro pecore e qualche donna: cioè quasi niente. Non è possibile attaccare un luogo che contiene così poco. Una simile esiguità di persone, animali e cose non può giustificare l’eccesso di difesa costituito dalle “solide” costruzioni nuragiche; peraltro non c’è dimostrazione scientifica che assedi siano avvenuti attorno alle strutture diroccate e che queste siano state teatro di battaglie; non risulta che resti di corpi o di armi siano stati trovati sparsi al loro contorno. Viene piuttosto voglia di pensare che il nuraghe sia una difesa dalle insidie del vuoto, dalla paura del niente: il nuraghe è una città in nuce; è l’idea virtuale di una città. Per quanto piccolo, il nuraghe è una città solida che difende l’uomo e gli può conferire un’identità riconoscibile. Contrariamente a quello che si riscontra oggi a seguito di antiche, reiterate devastazioni ambientali (per le quali essi si trovano nel mare aperto delle coltivazioni di grano) i nuraghi stavano all’interno di sterminati, rigogliosissimi e impenetrabili boschi: attorno non c’erano neppure campi aperti atti allo scontro e alla battaglia. I nuraghi furono perciò proprio un luogo di difesa dal mistero, dal silenzio e dal buio del vasto bosco. Dal nostro punto di vista, il nuraghe è la definizione concettuale, anche se forte e immaginifica, di una comunità che contrappone la sua consistenza fisica all’inconsistenza dei luoghi disabitati, desertici o vuoti.
Anche se in termini formalmente molto diversi, tanto il nuraghe che il solco tracciato sulla terra da Romolo sono limiti non valicabili perché “ciò è stato stabilito dall’uomo”. Il nuraghe di pietra è inespugnabile quanto il solco per terra: entrambi sono luoghi simbolici che contengono l’idea di un individuo-collettività, ovvero di una proprietà sostanzialmente collettiva o quanto meno comunitario-patriarcale.
Solo più tardi si sviluppò un’idea di individualità soggettiva e personale e si giunse pertanto a parlare di recinzione nel senso stretto del termine.
Oggi l’uomo occidentale che dispone della “casetta” o di un pezzo di terra (non più adatta neppure all’agricoltura e non costituisce nemmeno traccia o simbolo di quelle) vive nella sua comunità assieme a tanti altri e ritiene di dover difendere il suo territorio, ancorché piccolo, mediante una recinzione dalla confusione generalizzata della società che dilaga e che coinvolge tutto.
Tutto sommato, la recinzione è un provvedimento più simile alla definizione originaria simbolica che non alla difesa materiale di una vera proprietà. Superata infatti parzialmente la fase per la quale il muro era la definizione certa di una proprietà altrettanto certa (in modo tale da renderla inaccessibile) oggi la recinzione torna a diventare l’elemento simbolico che caratterizza una proprietà concettuale piuttosto che sostanziale in cui essa si carica di tutte le valenze soggettive care al “proprietario”.
Le problematiche poste o affrontate dalle recinzioni si estendono dalla meschinità di un rituale ormai futile fino alla inconsistenza culturale delle modalità propugnate che non appartengono alle grandi intuizioni auliche bensì a un immaginario quotidiano, tutto sommato, molto misero.
La recinzione rappresenta l’ultimo stadio di un processo molto complesso.
Dapprima l’uomo uscì dalla genericità del mondo animale divenendo consapevole della propria identità e preconizzando così l’idea di città.
L’idea di proprietà unitamente all’idea di singolo (che si identifica, si personifica nel singolo stesso) si formò ancora più tardi. Necessaria per proteggere una certa proprietà, la recinzione divenne così simbolo di questa e poi, a mano a mano che la società dilagò in forma globalizzante, le tracce del processo di individuazione si persero provvisoriamente; nel frattempo, crebbe invece l’urgenza della difesa dalla spersonalizzazione, dall’appiattimento e dalla banalizzazione totale.
Come a chiudere il ciclo, oggi si torna di nuovo a una sorta di necessità di individuazione, alla necessità di una singolarità che si manifesta però, spesso, in modo scomposto: questi ultimi passaggi logici sono in realtà tutti da studiare.
Affrontare oggi la problematicità delle recinzioni significa codificare il vasto materiale disponibile, studiarlo, cogliere la varietà dei fenomeni che esso sottende, stupirsi, forse, della ricchezza tipologica dei casi implicati. Si pone comunque l’esigenza di cogliere la transizione in atto.
Il futuro comporterà recinzioni o le escluderà? Se ci saranno le recinzioni, di che tipo esse saranno?
Non escludo che le recinzioni in futuro possano essere costituite da semplici definizioni magnetiche non visibili ma impenetrabili, oppure che esse siano, viceversa, di pietra e solide proprio per combattere ancora una volta, come presso la civiltà nuragica, lo sgomento determinato dall’annichilimento della persona o dalla confusione dovuta al fenomeno della massificazione.










