L’impegno di Paolo Portoghesi

UCTAT Newsletter n.57 – GIUGNO 2023

di Fabrizio Schiaffonati

La prima Mostra internazionale di architettura della Biennale di Venezia del 1980 ha segnato una importante svolta per la decisione di istituire un settore autonomo dedicato all’architettura, e in particolare per aver messo al centro della manifestazione un approfondimento critico sullo stato della disciplina. Un confronto, che avrebbe attraversato il decennio, sulle nuove modalità ed espressioni dell’architettura. Una presenza quella degli architetti all’evento veneziano fino ad allora più come ideatori di padiglioni delle arti visive, chiamati ora a confrontarsi sui temi della loro disciplina. Da quella data l’illustrazione dell’architettura sarebbe stata finalizzata a esprimere la complessità dell’ambiente, del territorio, della città e dell’architettura, per socializzarne la conoscenza presso il grande pubblico e non dei soli frequentatori dell’evento veneziano. L’architettura realtà d’un mondo in cui al 2050 la maggior parte della popolazione abiterà in città e megalopoli. La prospettiva di un fabbisogno di massa dove la produzione di case, servizi e infrastrutture sarà sempre più al centro delle politiche urbanistiche ed edilizie. Dimensione quantitativa che travalica ogni estetizzante approccio. Dal 1980 le Biennali di architettura ambiranno a rappresentare il contributo della disciplina architettonica a queste trasformazioni epocali, mettendo a confronto punti di vista e proposte progettuali.

L’incipit della Biennale del 1980 è stato quindi di particolare rilevanza, non solo per la novità in sé, ma anche perché ha segnato l’approdo di un dibattito sviluppatosi fin dagli anni Cinquanta di un latente conflitto con l’ortodossia del Movimento Moderno di quanti da tempo invocavano una maggiore libertà espressiva a partire da un diverso rapporto con la tradizione e la storia. Un tema espunto come condizione per l’affermarsi dell’architettura moderna, ma che ora appariva d’impedimento alla libertà espressiva nelle sue possibili forme. Il titolo della Mostra, “La presenza del passato”, sanciva la definitiva rottura con quanto si riteneva censorio, lontano dagli eventi e delle inquietudini di una congiuntura che si interrogava sulla credibilità di “interpretazioni unitarie e profezie programmatiche”, come osservava Paolo Portoghesi, nel solco critico di Lyotard. Una condizione ormai indispensabile per uscire dall’angustia di un giudizio che aveva finito per isterilire le potenzialità del linguaggio architettonico, per una sua più libera narrazione attingendo anche ad archetipi e memorie del passato, rivisitati criticamente e non come manieristica espressione.

Il termine Postmoderno ben si prestava, anche semanticamente, a rappresentare questa rottura e transizione per una apertura verso inesplorate prospettive. Un mollar gli ormeggi per navigare in mare aperto senza più gli approdi sicuri di maestri e consolidate certezze. Così anche per l’architettura, in aperta critica ad una parabola che ora mostrava i suoi limiti. La narrazione moderna costellata anche di fallimenti, lasciava ora il campo ad altre prospezioni della realtà che stava superando ogni previsione, con una improvvisa velocità.

Un navigare in mare aperto, con la testa rivolta tuttavia senza allontanarsi dall’approdo rappresentato dalla presenza del passato. Come l’Angelus di Benjamin. Una esplorazione stimolante, destinata però a non andare molto lontano. Rileggendo ora il saggio introduttivo di Paolo Portoghesi del Catalogo della Mostra, si rimane colpiti dalla lucidità con cui viene delineato il disagio della nuova generazione di architetti, dopo i maestri e quelli seguiti, l’impazienza per censure e proibizionismi, per giudici e custodi di una ortodossia diventata ormai stretta. C’è da dire che le critiche a questo approccio anche allora non mancarono e della presunzione di molti degli invitati ad esporre (e di cui oggi si fatica a ricordare l’opera); velleitarismi che nel giro di qualche anno avrebbero mostrato i limiti della “novissima” architettura, ridimensionata in breve tempo dall’impietosa realtà dell’invecchiamento delle mode.

Detto ciò, non si può negare che la proposta e la regia di Paolo Portoghesi, in grado di catalizzare la risonanza internazionale, non sia stata dirompente nel segnare una svolta nel linguaggio dell’architettura, nonostante esegeti e interpreti non sempre all’altezza: un percorso che andava consumato per l’insterilirsi di certezze, narrazioni e linguaggi. Il galleggiante “Teatro del Mondo” di Aldo Rossi e “La via novissima” con le scenografiche facciate, sono stati di grande spettacolarità per il successo della manifestazione; come pure le tante altre iniziative, momenti di dibattito e d’incontro per allargarne la partecipazione, anche perché Portoghesi aveva concepito l’insieme degli eventi come un “Laboratorio” aperto alla discussione e al confronto.

La Biennale è stata quindi un’occasione di collaborazione offerta a quanti volessero avanzare proposte. È il caso che mi ha visto coinvolto con un gruppo di giovani docenti, e che per noi milanesi nasceva della frequentazione di Paolo Portoghesi preside negli anni Settanta della Facoltà di Architettura del Politecnico. Una presenza, nella turbolenza del post Sessantotto che aveva lasciato un segno. Una disponibilità, la sua, che consentiva di mantenere aperto un dialogo in un momento di forti conflitti ed evitare pericolose derive che si andavano palesando. Un confronto che intratteneva con docenti e studenti, con le difficoltà di una problematica organizzazione didattica per le continue contestazioni che non era nelle sue intenzioni contrastare autoritariamente. Aperto e disponibile, sempre lucido nell’ascoltare, argomentando e nulla imporre, flemmatico anche quando il clima era decisamente turbolento. L’unico modo per contenere le derive più insensate, con la calma e la forza della ragione. La secolare indole capitolina curiale e politica finiva per avere buon gioco sugli stati d’animo esagitati e l’impazienza di quanti credevano a cambiamenti impossibili.

Come mai Portoghesi era arrivato a Milano e subito nel 1968 era stato eletto Preside di una Facoltà di Architettura tra le più importanti, nella città capitale economica col riformismo delle sue istituzioni? La spiegazione più semplice è che era risultato vincitore della cattedra di Storia dell’architettura – nonostante la serrata concorrenza di Leonardo Benevolo autore di testi di storia dell’urbanistica e dell’architettura moderna, per chiarezza didattica vademecum per quanti iniziavano gli studi – lui non ancora quarantenne, anche se già emergente storico per suoi fondamentali studi sul Borromini, ma di formazione lontana dall’ambiente e dalla cultura del razionalismo milanese. In quella preferenza un qualche ruolo lo devono avere avuto Rogers e Belgiojoso, da quanto avevo avuto modo di percepire da alcuni cenni di Franca Helg durante il mio apprendistato di docente.

Una deduzione rafforzata andando all’articolo del 1958 pubblicato sulla rivista Comunità di Adriano Olivetti in cui, commentando la Bottega d’Erasmo di Gabetti e Isola, il giovane Portoghesi aveva genialmente coniato il neologismo Neoliberty. Introducendo una categoria interpretativa del rapporto dell’architettura con la tradizione e la storia, e una presa di distanza da alcuni dogmi riduttivi del Movimento Moderno, come emergerà anche dalla polemica tra Rogers e Banham. Una cultura e una produzione architettonica riferibile a quella sua definizione che avrà nei Bbpr la massima espressione per rilevanza delle opere, di cui la Torre Velasca è il simbolo più celebrato.

Portoghesi in accordo con la maggioranza del ristretto novero di docenti di ruolo che formavano il Consiglio di Facoltà, Albini, Belgiojoso, De Carli, Bottoni, Rossi, Canella, aveva aperto la scuola a tanti giovani docenti annualmente incaricati. Anche per far fronte alla crescita esponenziale delle iscrizioni a seguito della riforma Codignola del 1969 che aveva liberalizzato gli accessi ai corsi di laurea; già con le avvisaglie di una crisi sociale e politica, dopo il boom economico e il riformismo dei primi anni Sessanta, con tante forze produttive e intellettuali che non trovavano prospettive d’ulteriore crescita. “Tutto e subito” era destinato a rimanere uno slogan, per le dure leggi della realtà che nulla regala. Queste contraddizioni si riversavano nell’università impreparata a dare risposte, a proporre soluzioni per governare una transizione che l’impazienza giovanile non voleva accettare. Uno scontro che avrebbe portato al provvedimento ministeriale di sospensione dei professori del Consiglio di Facoltà e, a cascata, dei docenti da loro incaricati. Un rappel à l’ordre con la nomina di un Comitato Tecnico per una gestione commissariale. Vicenda nota conclusasi poi con un reintegro a seguito di una sentenza del Consiglio di Stato, a cui in Lettera a un aspirante architetto aggiungo qualche ulteriore dettagliata conoscenza.

Con amici e colleghi di altre Facoltà, avevamo promosso un coordinamento di docenti per avviare un’analisi del settore delle costruzioni, della produzione di abitazioni e servizi, e delle politiche per far fronte a nuovi fabbisogni. Un tema sempre al centro degli studi e dei progetti degli architetti, con una lunga tradizione di iniziative e sperimentazioni nel riformismo già dall’inizio del secolo. Nello spirito quindi di un rilancio di una iniziativa politica e istituzionale che con la crisi si era andata attenuando e che, giustamente, si pensava potesse essere riattivata anche a partire da una aggiornata analisi e conoscenza dei meccanismi socioeconomici della produzione edilizia e delle logiche di governo del territorio. Il gruppo aveva avviato quindi diversi studi e indirizzato l’attività didattica in tal senso. La “didattica-ricerca” per fuoriuscire da un acritico insegnamento nozionistico.

Un rapporto quindi tra diverse sedi universitarie che ci vedeva attivi in frequenti incontri, avendo accreditato il raggruppamento anche presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) che ci riconosceva il compito di coordinare le richieste di finanziamento annuale per i nostri programmi di ricerca. L’iniziativa era quindi riconosciuta e apprezzata, rispetto alla pletora di ricerche individuali, nello spirito della necessità di una maggior massa critica di conoscenze e analisi che solo un finanziamento adeguato poteva consentire, rispetto alla dispersione a pioggia delle già ridotte risorse. Un progetto quindi coordinato e articolato in diverse realtà territoriali che ha avuto soprattutto il merito di promuovere un confronto di idee e di sperimentazioni didattiche, scontando poi la difficoltà di sintesi e di interlocuzioni con le istituzioni in un momento di non facile confronto. Iniziativa che ha posto con largo anticipo l’esigenza di coordinamento della ricerca anche tra sedi universitarie, come andrà poi emergendo ai giorni nostri con i Prin, progetti d’interesse nazionale.

Una ricerca interdisciplinare per rinnovare gli studi di architettura con queste strutturali conoscenze, indagare le nuove tecnologie che stavano mutando lo scenario della stessa progettazione architettonica.

“La produzione di progetto”, secondo una mia formulazione, era il tema che mi ero ritagliato e di cui continuerò ad occuparmi. Un approccio che metteva sotto osservazione il progetto non tanto a partire da aspetti creativi, estetici e formali, ma in quanto attività complessa che andava incorporando diverse logiche, nuove tecniche e discipline per gestire azioni sempre più articolate e complesse

Erano questi i temi – trasversali a diverse discipline ma certamente di più forte pertinenza della Tecnologia dell’architettura che per tempo aveva accentuato l’interesse in questa direzione facendone una peculiarità delle proprie conoscenze – che portavamo nei nostri incontri nel Laboratorio alla Biennale del 1980, e che avevano trovato il pieno appoggio di Portoghesi.

A Venezia non mancava di incontrare Portoghesi, come se lì vivesse, ma era così con i suoi impegni per la risonanza mondiale della Mostra da lui promossa. Si sentiva la sua condivisione su quanto stavamo facendo, la sua presenza sempre attenta, mai invasiva e che talvolta si prolungava allafine della giornata in momenti conviviali.

Da quei momenti nasceva infatti una critica strutturale alla concezione del progetto, alla professione e al ruolo dell’architetto, ai contenuti degli insegnamenti: una posizione che affidava al progetto una primaria valenza sociale, come impegno e militanza rispetto all’approccio autoriale che era l’altra faccia di quella Biennale con la sua spettacolare Mostra. Portoghesi era stato in grado di tenere insieme questi due estremi, espressione anche di contraddizioni che portavano a schieramenti non esenti da schematizzazioni. Da quel gruppo della “Produzione edilizia” era gemmata anche l’iniziativa di un approfondimento su La cooperazione di abitazione articolata in una esposizione di progetti e di un catalogo con saggi critici, altro approfondimento nel Laboratorio promosso da Portoghesi denominato Lavorare in architettura.

Proposi quindi alla Rai la produzione di un film da me ideato e sceneggiato sempre nell’ambito delle iniziative della Biennale di Paolo Portoghesi mutuandone il titolo Lavorare in architettura. Una trama che voleva approfondire le stesse questioni dei nostri incontri con un diverso mezzo per portarle all’attenzione di un più ampio pubblico, rispetto al nostro ristretto ambito. Scriveva Portoghesi: «Lavorare in architettura era nelle intenzioni di chi scrive, il titolo di un settore di lavoro permanente, un vero e proprio laboratorio programmato per realizzare le indicazioni del nuovo statuto della Biennale che assegna allo statuto dell’ente anche compii di ricerca e di elaborazione. Lavorare in architettura stava a significare che l’ottica impiegata sarebbe stata non quella tradizionale, che tende ad isolare l’opera dell’architetto dai diversi momenti del ciclo edilizio rivelandone solo l’aspetto della autonomia disciplinare, ma quella che tende a mettere in rilievo le relazioni che intercorrono tra tutti i più diversi aspetti del lavoro architettonico che ha il suo esito nella trasformazione del territorio. Architettura quindi come parte specializzata del lavoro umano, come prodotto dello scontro e dell’intreccio tra la cultura architettonica da una parte e l’apparato produttivo dall’altro».

Una sintesi e una lucida analisi di grande attualità.

(Estratto da: F. Schiaffonati “L’impegno del progetto”, in F. Schiaffonati, E. Mussinelli, G. Castaldo (2021), Architettura e Ambiente. Dieci progetti 2015-2020, Maggioli Editore)

Paolo Portoghesi, Sala del soggiorno, Terme Tettuccio, Montecatini (agosto 2022).
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