UCTAT Newsletter n.72 – novembre 2024
di Paolo Aina
Mi è capitato ascoltare una comunicazione intitolata: “Identità dell’architettura milanese”, ero al Politecnico nella sede di Piazza Leonardo da Vinci nel vecchio edificio di Ingegneria.
Come al solito sia l’atmosfera che le parole mi ricordavamo che ero non in una scuola ma in un luogo sacro dove si agiva e parlava ad majorem architecturae gloriam con i fedeli attenti alla funzione che si sarebbe svolta.
Il relatore ha parlato di come si proponeva di restituire una identità all’architettura della città di Milano mettendo in relazione i suoi lavori con le architetture milanesi costruite nel secolo scorso a cominciare dalla Ca’ Brutta di G. Muzio per poi passare ad altre opere di architetti come V. Viganò, L. Figini, A. Rossi, G. Terragni e altri assai noti ed elencati nelle storie dell’architettura italiana.
La somiglianza che veniva messa in luce riguardava le facciate là dove nelle architetture storiche era il telaio strutturale in evidenza nella sua regolarità qui veniva costruito con un criterio di apparente regolarità in cui la struttura di campata in campata non aveva lo stesso passo ma si allargava o stringeva a seconda delle direzione da cui si guardava, i balconi, nello stesso modo variavano di dimensioni e aggetti, le strutture poi continuavano oltre l’ultimo solaio spesso con l’aggiunta di reticoli formati da profilati metallici a suddividere il cielo in quadrati.
I vecchi edifici mostravano una certa domesticità, qui i mattoni, là le cornici delle finestre, a volte dei timpani, delle modanature, l’accostamento di materiali diversi a chiacchierare tra loro come si fa quando ci si incontra casualmente accomunati solo da una panchina o da un portico ombroso.
Le nuove facciate sono bianche e immacolate probabilmente non resisteranno in questo stato dopo aver lottato con la luce del sole e diventeranno terree, per arrivare, con la pioggia e le polveri, a quel grigiastro che sembra aver sostituito il glorioso giallo milano.
Nello steso tempo lo spazio pubblico che determinano conserva una familiarità che permette di non farvi caso.
Queste nuove costruzioni eliminano qualsiasi casualità, tutto è preciso, nitido ed estraneo.
La somiglianza, la discendenza viene sviluppata con ragionamenti astratti che non fanno altro che sottolinearne una ferocia autoreferenziale e che solo i fedeli alla religione possono comprendere.
Non si può certo dire che gli edifici non svolgano la loro funzione, anzi probabilmente hanno caratteristiche tipologiche molto ben combinate, spazi adatti e di dimensioni adeguate ma – in ognuna di queste preposizioni c’è un ma – pare rinuncino a costituire uno spazio pubblico, o meglio, là dove lo delineano si configura come un vuoto circondato da alti muri bucati da finestre di forma così netta che a malapena si riescono ad immaginare aperte.
Improvvisamente mi torna alla memoria un famoso film di fantascienza che ho visto nella notte dei tempi: “L’invasione degli ultracorpi” una pellicola datata 1956 di D. Siegel.
La storia si svolge in una piccola città (Santa Mira) dove improvvisamente gli abitanti vengono replicati mentre dormono; sono del tutto uguali agli originali, i parenti non li riconoscono più, i cloni si distinguono perché non provano sentimenti se non la fedeltà tra loro e al loro progetto di invasione prima della piccola città ma si intuisce che l’operazione riguarderà l’intero pianeta,
Fortunatamente il film termina con un happy end: la città viene isolata e FBI, polizia ed esercito impediscono il diffondersi del contagio.

