UCTAT Newsletter n.76 – marzo 2025
di Paolo Aina
Non occorre sottolineare come la costruzione dello spazio sulla Terra, la modificazione del pianeta ai fini della vita umana è ciò che ci caratterizza, è ciò che facciamo costantemente secondo filoni di pensiero che si susseguono tortuosamente.
Se ne parla da subito, da quando si cercava un rifugio, da quando “siamo stati gettati nel mondo”, da quando il fuoco scaldava la grotta e un fiore profumato ne segnalava l’entrata, gli animali e le mani ne decoravano le pareti e questa faticosamente veniva adattata per migliorare la nostra vita.
Nel nostro tempo pare che questa esigenza sia andata perdendosi, lo spazio ha un’unica declinazione: la rappresentazione di un potere vago e minaccioso e ancor di più il suo valore economico; si ragiona solo nei termini della sua estensione e non delle sue qualità; lo si riduce progressivamente, da regolamento.
L’estensione del concetto di existenzminimum e le soluzioni al ribasso sono portate ad esempio; la vita è denudata e ridotta ai soli gesti necessari per rotolare verso la sua fine.
Da regolamento le camere non sono più luoghi “tutti per sé” dove mettere a punto la propria anima, non sono le celle della Certosa di Ema ma quelle di un carcere.
Non occorre dire che vivere in una riduzione all’existenzminimum è faticoso, la casa si trasforma poco alla volta da luogo dove tornare a mero ricovero notturno e riparo dalle intemperie e campo di battaglia per le contese tra conviventi.
La stesa sorte viene riservata allo spazio pubblico, la sua progettazione ha spesso un solo fine: lo stupore, stupore di forme che vogliono essere moderne dichiarandosi contemporanee e alle possibilità della tecnica per giustificarsi, materiali luccicanti che invecchiano malamente perdendo in breve tempo il loro splendore.
La società dello spettacolo richiede sempre nuove rappresentazioni.
La faccenda però è che mentre la mise en scène di uno spettacolo alla fine delle rappresentazioni viene smontata le costruzioni restano.
Si potrà dire che anche le mise en scène costruite nel passato sono restate mi pare però che queste ultime conservino la loro dignità perché solitamente hanno un valore simbolico che si appella al nostro spirito raccontandoci storie che non afferiscono alla loro semplice/complicata costruzione: del Colosseo ricordiamo le belve e i gladiatori, delle Cattedrali ricordiamo lo sforzo collettivo delle città dove sorgono, i palazzi nobiliari conservano il nome degli antichi proprietari anche se la famiglia che li ha edificati si è estinta e così via…
Al contrario dei rivolgimenti che chi abita può apportare proprio lì dove ha casa, lo spazio pubblico è di più difficile manipolazione e permane nel tempo quasi immutato.
Ma se davanti ad un vecchio edificio dove si raccoglievano gladiatori e belve, dove lo spettacolo di una battaglia navale ci esaltava, il coro dei monaci ci assopiva, dove in un’opera di Luigi Nono facevo il soldato, chi si ricorderà della banca che ha costruito il grattacielo, forse qualcuno che non è riuscito a pagare le rate del mutuo, chi si ricorderà di chi è il grattacielo della compagnia di assicurazione e dei suoi interminabili uffici che al buio paiono un acquario dove nuotano gli impiegati o anche della ItalPetrolCemeTermoTessilFarmoMetalChimica dove noi Fantozzi ci siamo sfiniti e vogliamo fuggire.
La città non è contemporanea, è un marchingegno sincronico, il passato e il presente si mescolano e convivono.
Gli edifici e chi li ha occupati sono ancora presenti, gli uni come volumi, gli altri ricordati con iscrizioni: lì alloggiava Ho Chi Minh, quella è la casa di Manzoni, più in là abitò Cattaneo e ancora più in là venivano torturati i partigiani.
Le città sono un museo abitato dove, per chi le sa leggere, le storie sono ancora presenti e servono a fondarne l’identità.
Col solo camminare passiamo di epoca in epoca tra gli stupori del moderno che dopo il primo ooh scordiamo, al sole nell’aria rinsecchita dal selciato e, in un parco, la frescura accogliente di una panchina all’ombra di un albero, lo scroscio di una fontana, il refrigerio e il riparo dei portici che costeggiano la via, la differenza tra antico e moderno si può attribuire al fatto che nella cura dello spazio collettivo ci fosse la benevolenza per la vita degli abitanti.
Cammino senza meta e mi accorgo che la città storica è costituita da una continuità e compattezza spaziale, dove gli edifici posti spalla a spalla si sostengono e danno conto con un’immagine di condivisione dello spazio insita nella fondazione dei centri abitati e sottolineano il fatto che abitando lì si è cittadini.
Le qualità dello spazio cambiano radicalmente, da un certo momento in poi gli edifici si singolarizzano, diventano oggetti unici separati da qualcosa che viene chiamato verde ma in realtà spesso è solo un non costruito, qualcosa che è rimasto, qualcosa di residuale; lì vi è solo un tetto che per quanto indispensabile non è sufficiente.
La cittadinanza passa da sentimento condiviso a pratica amministrativa, la città espandendosi si dissolve in atomi la cui orbita può anche non avere più lo stesso centro.
Lo spazio non ha più nessuna qualità accogliente, si trasforma in una superficie che si deve percorrere per arrivare a una meta indistinguibile dal punto di partenza.
Vi è una discontinua continuità dello spazio delle strade uscite dagli incubi di Hilberseimer che allineano ai loro lati giganteschi mattoncini Lego.
L’urbanistica che ritroviamo al di fuori dei centri storici ha una geometria così noiosa nelle sue accezioni funzionali, qui le case, là i giardini, lì gli uffici, le ferrovie e le strade tutt’intorno.
In questo modo anche la vita che si svolge nei percorsi non ha nessuna sorpresa; il rettilineo è la via.
In fretta, in fretta, non c’è temo da perdere, l’inconveniente di queste sistemazioni è che non vi è nessun modo di sostare e il tempo che non si è perso non è di conforto ma viene reimpiegato affannosamente.
In fin dei conti l’accoglienza si dà quando è presente la possibilità di sostare al riparo o al sole, pensando o guardando, da soli o in compagnia, un posto dove possiamo tenerci stretti i sogni ma sopratutto dove si è liberi o almeno se ne ha la sensazione, quando viene messo in opera qualcosa che genera un qualche tipo di confort.
Dove donne, bambini e uomini possono restare senza essere assoggettati a qualche funzione specifica e schiavizzante.
La qualità “accogliente” si declina anche nella forma con cui le quinte generano il teatro dello spazio umano.
La città e la casa sono il palcoscenico collettivo e individuale dove va in scena la nostra vera vita, senza finzioni né effetti speciali.
Come sul palcoscenico quindi le quinte non devono prevalere sullo spettacolo come succede quando gli architetti e l’architettura si esibiscono in arditi equilibrismi costruttivi di tendenza che proprio per la loro forma passeranno presto di moda; in effetti questo inseguire la moda, nelle costruzioni, è una maledizione perché proprio per la loro natura le costruzioni hanno una permanenza temporale che va ben al di là del presente che le ha messe in opera.
Il detto vagamente imperiale ma ancora con un’ombra di collettività di uno dei Santi dell’architettura moderna “L’architettura è la volontà dell’epoca tradotta in spazio” si è trasformato nella costruzione di uno spazio non dell’epoca ma delle corporazioni o delle zaibastu del romanzo Neuromante.Mi chiedo se con la loro solitudine esibizionista, il loro rifiuto ad accostarsi, il loro posarsi su un centrino d’erba faranno la fine delle “buone cose di pessimo gusto” dell’amica di nonna Speranza: si deterioreranno fino a dissolversi.

