L’urbanistica necessaria

UCTAT Newsletter n.58 – luglio 2023

di Fabrizio Schiaffonati

L’urbanistica sembra ormai negletta. Almeno di un unitario disegno ordinatore, col Piano Regolatore che definiva quantità volumetriche, rapporti spaziali e relazioni funzionali. Il tracciato della metropoli del secolo scorso, ben visibile nella struttura di quartieri e servizi. Lo sprawl ha preso il sopravvento, con una deregolazione agevolata da politiche amministrative senza priorità pubbliche. La delega ai privati è preminente, con una concezione lontana dagli interessi generali di uno sviluppo programmato e pianificato. Questo indirizzo è palese negli squilibri sociali della città.

Prevale un’attività giuridico-amministrativa, senza un progetto d’insieme degli spazi e delle infrastrutture. In tale evanescenza è improprio parlare di urbanistica. Per secoli l’urbanistica è stata la disciplina del disegno della città.  Disciplina quindi della misura dei luoghi antropizzati, dei tracciati vari, dei profili degli edifici e delle opere civili. Una macro scala dell’architettura che definiva i rapporti tra le parti e l’insieme.

Una “scienza dei confini”, come icasticamente Luigi Mazza, con tracciati organici e gestione coerente delle procedure amministrative.

Una disciplina pratica e sperimentale, basata su rapporti ergonomici e antropometrici codificati dal Razionalismo e dal Funzionalismo del Movimento Moderno, con una rivoluzione concettuale per far fronte all’urbanizzazione di massa del secolo scorso. Parametri non venuti meno o smentiti dai tanti cambiamenti di ora, nonostante una velleitaria critica a norme e regole che ha contribuito un diffuso disordine.

Questo allontanamento dal canonico ambito disciplinare, al più sostituito da una lettura sociologica senza ricadute pratiche, è ben leggibile nei cosiddetti progetti di rigenerazione urbana e nei ventilati interventi di recupero periferie.

Esiste anche un nesso con la formazione professionale, culturale e tecnica, per nulla all’altezza delle basilari competenze che l’urbanista dovrebbe possedere, con la capacità di ricomporre nel progetto dello spazio sociale esigenze e rapporti dei diversi interventi. Una conoscenza e un duro tirocinio per potere governare complesse logiche e problemi interdisciplinari.

Diversamente non si spiegherebbe la scadente qualità dei progetti urbani e l’assenza di decoro, con l’equivoco di una architettura autoreferenziale ridotta al design di oggetti effimeri.  L’apposto della permanenza e della stratificazione del bene comune della città.

Il disarmo degli uffici tecnici delle amministrazioni è nella stessa direzione, in una pletora di norme e regolamentazioni, foglia di fico di sbandierate dichiarazioni politiche prive di competenze.

Il contrario del buon governo della città ha il suo riscontro nella sua bellezza.

Negli anni Settanta, per lo stimolo di Giovanni Astengo e Giancarlo De Carlo, fu istituto dallo Istituto Universitario di Architettura di Venezia il corso di laurea in Urbanistica[1]. Anche nella scia riformista dei governi di Centrosinistra. L’attuazione della legge della legge urbanistica del ’42, l’obbligatorietà del Piano Regolatore, gli standard urbanistici, i Piani di edilizia economica e popolare, i Piani per gli interventi produttivi, la Riforma della casa e il Recupero edilizio, richiamavano la necessità di nuove competenze per gli architetti. La laurea in Urbanistica prospettava una formazione interdisciplinare con conoscenze economiche, sociologiche e gestionali. Un progetto ambizioso presto arenatosi. Una difficile integrazione che finiva per penalizzare le conoscenze progettuali basilari dello spazio alle diverse scale, con una conoscenza quindi generalista poco efficace. Un progetto poi rilanciato nel Duemila con i nuovi ordinamenti didattici, senza tuttavia incontrare la domanda studentesca rifluita nella Laurea in Architettura dove, per altro, l’attenzione a concrete competenze alla scala urbana e della pianificazione attuativa è da tempo abbandonata.

La pianificazione e la gestione urbanistica è problema di grande complessità che non si esaurisce certamente nel solo disegno degli spazi pubblici e privati della città, dell’architettura e dei manufatti. Frutto della convergenza di attori e istituzioni in programmi economici e sociali, di complesse azioni imprenditoriali, culturali e tecniche. Un disegno politico oltre le diverse logiche aziendali.

Un traguardo che non esclude conflittualità e crisi, ma che dovrebbe essere perseguito dalla Amministrazione comunale col primato dell’interesse pubblico[2].  Con un programma dove il Piano del Governo del Territorio, così ora denominato, dovrebbe avere al centro un disegno razionale, con equilibrate densità edilizie, adeguati servizi, funzionalità delle infrastrutture e qualità dello spazio pubblico. L’opposto di quanto appare con la sempre più accentuata impropria delega ai privati nel proporre soluzioni che interferiscono con l’autonomia del governo pubblico della città. 

La necessità quindi di ritornare anche a dimenticate competenze degli architetti con la capacità di progettare lo spazio d’insieme e nel definire i profili volumetrici e particolareggiati dell’architettura della città[3]. In quest’ottica l’urbanistica è fondamentale, e l’urbanistica non è che l’architettura a una diversa scala, come molti Maestri del Novecento hanno insegnato lasciando rigorose tracce ancora del tutto attuali.

Viale Omero a Milano, aprile 2020.

[1] Schiaffonati F., “Sull’istituzione del corso di laurea in Urbanistica presso l’Istituto Universitario di Architettura di Venezia”, in Città e Società, gennaio-febbraio 1971.

[2] Campos Venuti G., Amministrare l’urbanistica, 1972.

[3] Schiaffonati F., Lettera a un aspirante architetto, 2021.

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