UCTAT Newsletter n.20 – febbraio 2020
di Paolo Debiaggi
Viviamo un’ epoca in cui ogni nostra percezione dei fenomeni è sempre più filtrata dalla comunicazione che di questi viene fatta. Non si tratta certo di un fenomeno nuovo, ma mai come ora la proliferazione dei mezzi di comunicazione e la possibililità di accesso ad essi da parte di tutti rende spesso molto difficile farsi una rappresentazione della realtà che non sia viziata da un racconto di essa superficile, parziale, preconcetto, fazioso o interessato.
Questa breve digressione in un ambito tematico di cui non sono certamente un esperto, quello della comunicazione, mi sembra utile per introdurre una riflessione che mi è sovvenuta dalla lettura di un paio di articoli che riguardano, questi sì, un campo di interesse attinente alla mia formazione e professione, oltre che pertinente con le tematiche che normalmente fanno parte di osservazione e riflessione della nostra newsletter. Entrambe dovrebbero essere riconducibili, a mio avviso, all’osservazione critica delle dinamiche decisionali che portano alla trasformazione fisica dell’ambiente urbano.
Il primo, tratto dall’inserto Living del Corriere della Sera, data 11 febbraio 2020, riporta con un certo tono scandalizzato fin dal titolo, “Donald Trump vuole mettere fuorilegge l’architettura moderna”, una vicenda che riguarda l’ennesima polemica che contrappone negli USA il famigerato “The Donald” con la corporazione di turno. Questa volta si tratta dell’Associazione degli Architetti americani (AIA) che chiama a raccolta i propri iscritti per fare fronte comune contro l’ennesimo atto illiberale dell’attuale Presidente. Il tema riguarda la linea espressa da Trump nel documento “Making Federal Buildings Beautiful Again”, rispetto alla necessità di aggiornare le Linee Guida per la progettazione degli edifici pubblici federali per i quali si auspica un cambio estetico e un ritorno preferibile allo stile classico, stile adottato dai padri fondatori ma abbandonato successivamente a partire dagli anni ’50 dalle amministrazioni in carica, in favore di un modernismo, prima brutalista e poi decostruttivista, incapace di trasmettere alla collettività un’idea comune di bellezza.
Tralasciando lo story-telling della cronaca predominante che tende a sottolineare sempre come grottesco e irricevibile ogni atto e dichiarazione dell’attuale Presidente americano, spesso probabilmente anche con ragione, penso varrebbe la pena di riflettere sulla vicenda in maniera libera da ogni condizionamento di posizione politica. Leggendo direttamente il documento incriminato non mi sono sentito offeso e oltraggiato come architetto. Prima di tutto in quanto il documento non usa toni coercitivi, ma esprime un opinione che può essere condivisa, solo in parte o per nulla, ma apre ad una riflessione legittima e ad un dibattito al di fuori dai confini disciplinari che potrebbe anche essere utile all’architettura.
E’ o non è lecito che il potere politico-amministrativo detti delle regole e chieda l’introduzione di Linee Guida, anche stilistico-formali, relativamente a come vorrebbe fossero costruite le sedi di rappresentanza istituzionale? E’ o non è auspicabile, come indica il documento in questione, l’introduzione di forme di verifica, discussione e valutazione preventiva, aperta al pubblico, dei progetti di architetture con valenza rappresentativa e pubblico-istituzionale? O sono solo gli architetti di professione, come sembra sostenere l’AIA, gli unici che possono, attraverso la loro libera espressione, determinarne l’esito finale? Al di là dei gusti personali del Presidente in fatto di architettura, credo che il tema possa essere ampiamente dibattuto e ricco di spunti senza preconcetti. Mi sembra di poter osservare che la buona architettura non abbia mai temuto i vincoli e gli indirizzi stilistici, anzi, li abbia spesso elaborati e interpretati come stimolo.. piuttosto, vincoli e indirizzi potrebbero regimare le espressioni più velleitarie.
http://living.corriere.it/tendenze/architettura/donald-trump-architettura-moderna-brutalismo/
Il secondo articolo, tratto dalle cronache milanesi di La Repubblica, data 12 febbraio 2020 e titola “Dalla “Scheggia di vetro” al “Nido verticale”: la scalata dei grattacieli che trasformano Milano”, mi sembra riguardare un argomento ben più rilevante del primo in merito al tema che sto trattando, ma riporta le informazioni semplicemente come un fatto di cronaca, anche un po’ trionfalistico tra bandiere italiane e bottiglie di Magnum, senza la minima necessità di approfondimento e riflessione. E ci riguarda molto più da vicino. La cronaca della festa di arrivo ai 120 mt di altezza dell’ennesimo grattacielo in costruzione a Milano, la “Scheggia di vetro” in fase di cotruzione in via Gioia 22 a firma di Pelli Clarke Architects, diviene occasione per annunciare alcuni prossimi significativi esiti delle dinamiche urbane in atto nella trasformazione vertiginosa della nostra città e, insieme, celebrare il volto più noto tra i grandi protagonisti del momento che, a partire dall’operazione Porta Nuova, ora ne sta sviluppando il “raddoppio” attraverso un programma di nuove torri “sostenibili” che mira a ricostruire un nuovo pezzo di città che “dovrà puntare a una nuova sfida, quella ambientale, diventando un quartiere a zero emissioni”. Come riporta l’articolo, le altre torri sorgeranno tutte nei pressi, tra via Gioia e via Pirelli. Le due nuove torri per uffici a firma Citterio&Viel al numero 20, oltre alla “Unipol tower” a firma Mario Cucinella, il già soprannominato “Nido verticale”, tutto ovviamente “completamente sostenibile” (ma per chi?). Arriverà poi anche un ulteriore grattacielo al posto del Pirellino, l’ex edificio dell’amministrazione comunale, che verrà demolito per far posto all’opera ancora in “cerca d’autore” attraverso la gara indetta da Coima tra le sei “archistar” finaliste.
La lettura di questa cronaca-programma mi ha ridestato le domande che spesso mi affliggono osservando la trasformazione della città. Credo ci sia molto su cui ragionare, nell’indifferenza tendenzialmente acritica di chi osserva e racconta le trasformazioni in atto. Chi decide le sorti della città? Chi ne disegna lo sviluppo e il suo volto futuro? Alla luce di quale volontà collettiva? In ragione di quale investitura? Cos’è questo appetito immobiliare inarrestabile, da cosa si origina? Dopo Porta Nuova, il raddoppio di Porta Nuova, dopo City Life il raddoppio di City Life, di fronte a Expo, Mind e la giungla inarrestabile di torri… Quando, per decisione di chi e con quali atti e strumenti si è deciso che Milano dovesse progressivamente trasformarsi in una città di grattacieli? Che si dovesse internazionalizzare vendendo la propria anima?

Ho cercato in rete qualche voce fuori dal coro, qualcuno che condividesse questi interrogativi.. non è stato facile, ma qualche spunto interessante l’ho trovato e, tra i tanti giudizi trionfalistici ed entusiastici per la nuova Milano del terzo millennio, per il modello Milano e così via.. ve li segnalo. Non risolvono ovviamente le molte questioni che ho sollevato, ma offrono alcuni puti di vista non omologati.
Il primo viene dall’osservatorio di Arcipelago Milano che in un articolo del 7 febbraio 2020 “Le good news del Sindaco Sala” interrogandosi se veramente al Comune interessi espandere le aree verdi della città e renderla più sostenibile, riporta alcuni passaggi di una puntata televisiva di Report, andata in onda nel mese di novembre 2019, in cui si è tentato di indagare alcune questioni interessanti sul rapporto tra interessi immobiliari e decisori.
Anche il secondo spunto viene dall’osservatorio di Arcipelago Milano e riguarda l’articolo “Grattacieli a Milano. L’omologazione urbana”, data 29 settembre 2019 a firma di Roberto Duilio, storico dell’architettura e professore al Politecnico di Milano. Ne condivido il punto di vista rispetto ad alcuni esiti qualitativi delle trasformazioni in atto, soprattutto in rapporto alla specificità, per lo più inascoltata, dell’architettura del dopoguerra milanese.
https://www.arcipelagomilano.org/archives/53582
Infine, segnalo il punto di vista, su alcuni degli argomenti trattati, di Massimo Fini, giornalista, intellettuale, sicuramente anticonformista, tratto dal suo sito. Mi sembra una testimonianza interessante da parte di un non addetto ai lavori, un articolo apparso sul Fatto Quotidiano del 8 giugno 2016.
http://www.massimofini.it/articoli-recenti/1574-la-milano-disumana-dei-grattacieli-del-qatar