UCTAT Newsletter n.76 – marzo 2025
di Fabrizio Schiaffonati
Le recenti vicende edilizie che hanno portato Milano all’attenzione nazionale per l’azzardata applicazione di leggi e norme urbanistiche, hanno evidenziato un inquietante quadro di orientamenti politici, interessi imprenditoriali e comportamenti professionali. Lo scopo è ora trovare una via di uscita ad una situazione senza precedenti, dopo alle numerose inchieste avviate dalla Procura con avvisi di reato, sequestro di pratiche edilizie, fermo cantieri. Un vero e proprio scandalo nella capitale economica con una Amministrazione che per anni è stata considerata tra le più avanzate. Tra luci e ombre, non si può negare che Milano non sia stata di riferimento per l’efficienza, la dotazione di servizi, la rete dei trasporti.
Torna alla memoria Le mani sulla città di Francesco Rosi, un film-denuncia del 1963 che ha segnato un’epoca indicando il degrado sociale e ambientale comportato da un vorace sfruttamento del territorio. Così il termine Speculazione edilizia è entrato nel linguaggio comune, con una crescente avversione a iniziative di costruttori interessati a lucrare sulla rendita fondiaria. Con i primi governi di Centrosinistra la questione urbanistica ed edilizia è al centro di un acceso dibattito e di programmi ministeriali. Sempre del 1963 sono le dimissioni di Fiorentino Sullo, ministro dei lavori pubblici, a seguito della sconfessione da parte del suo partito del disegno di legge di riforma urbanistica da lui promosso, col supporto di un autorevole gruppo di esperti. Una vicenda con riflessi sugli esiti delle elezioni dello stesso anno, documentata da Sullo nel suo libro pamphlet di grande risonanza Lo scandalo urbanistico. Al centro il nodo della rendita fondiaria, con la proposta di un diverso regime dei suoli per riservare alle amministrazioni comunali parte del valore generato dalla urbanizzazione con fondi pubblici.
È opportuno anche ricordare nel 1966 la Relazione al Parlamento di Michele Martuscelli, direttore generale dell’urbanistica, sui lavori della Commissione d’inchiesta sulla Frana di Agrigento, dove la denuncia si estendeva alla compromissione di forze politiche, nell’assenza di una politica di tutela e salvaguardia del territorio. Martuscelli aveva già segnalato i diffusi inadempimenti delle città nella adozione dei Piani Regolatori, per non dire dei Programmi di Fabbricazione negli altri comuni. Punto di vista sostenuto da uno schieramento trasversale di noti studiosi e da campagne giornalistiche che certamente hanno contribuito alla emanazione della Legge Ponte del 1967 e al Decreto interministeriale del 1968sui Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza tra i fabbricati, fissando anche gli standard dell’urbanizzazione secondaria, del verde e delle opere pubbliche. Provvedimenti legislativi ad integrazione della legge urbanistica del 1942.
Il richiamo a quella stagione è importante per riportarci alla problematica milanese, con una Amministrazione esplicitamente in conflitto col dettato di quelle leggi e con azzardate interpretazioni di altre frammentarie e contraddittorie norme nel frattempo intervenute. Un nodo gordiano dove l’urbanistica come ordine spaziale tracciato dal Decreto del 1968 scompare per diventare materia di contrattazione di avvocati amministrativisti.
Questa vicenda, oltre la questione giudiziaria e le proposte parlamentari in itinere per una sanatoria, si presta a considerazioni più generali, per capire quale sensibilità politica, imprenditoriale e professionale sottenda comportamenti così spregiudicati. Andare cioè all’origine di questo diffuso comportamento in materia urbanistica ed edilizia perché tutto possa essere derogato e cavillosamente interpretato.
Gli interventi edilizi sono sempre stati fonte di notevoli guadagni, soprattutto in ragione del valore del suolo urbano che incorpora il diritto di edificazione. Non così in altri Paesi, ma in Italia dove la Corte Costituzionale ha sancito tale principio. Un valore quindi dovuto a una rendita fondiaria parassitaria senza alcuna trasformazione e investimento, con una crescente valorizzazione dei suoli con l’avanzare dell’urbanizzazione. Una rendita in base alla appetibilità delle zone di maggior pregio, con un costo da trasferire poi sui prezzi di vendita delle costruzioni.
Su questa arretrata logica economica si sono costruite enormi ricchezze di proprietari terrieri, investitori e imprese di costruzione. Un intreccio di interessi ricercando accordi con le amministrazioni locali delegate al governo del territorio, con gli strumenti urbanistici in grado di attribuire diverse capacità edificatorie a ogni suolo. Governo quindi del territorio oggetto di rilevanti interessi, con pressioni e appoggi politici, accordi e connivenze. In questa filiera delle trasformazioni territoriali sono quindi attivi diversi operatori. Una filiera oggi sempre più in presenza di capitali finanziari per investimenti patrimoniali lucrosi, con una logica monopolistica che nelle grandi città ha preso il sopravvento mettendo fuori gioco la piccola imprenditoria edilizia.
In questa “catena del valore” si collocano anche le sempre più articolate competenze tecniche del “processo edilizio”, dalle società di progettazione e d’ingegneria al libero professionista; anche con crescenti specializzazioni dove il ruolo dell’architetto appare limitato ad alcuni aspetti come il concept e l’immagine architettonica, con un arretramento quindi rispetto alle più ampie prestazioni della tradizionale libera professione, col prevalere quindi di aziende in grado di sviluppare una progettazione esecutiva e cantierabile sempre più complessa.
Il ruolo dell’architetto rimane comunque importante per l’approvazione del progetto da parte della Commissione del Paesaggio, nel momento cioè della valutazione estetica e della contestualizzazione dell’opera con il contesto ambientale. Un giudizio che mette in gioco punti di vista culturali nella valutazione delle capacità e del linguaggio architettonico dell’autore. Un incarico che lo sovraespone anche al giudizio dei cittadini, ancor più se il suo nome viene utilizzato nella commercializzazione degli immobili.
Compito alquanto delicato è di chi è chiamato a valutare l’operato dell’architetto, che dovrebbe esprimersi nella massima trasparenza e onestà di giudizio, con opinioni non sempre riconducibili ad elementi oggettivi. In ragione di ciò è fondamentale la composizione e il funzionamento della Commissione del Paesaggio a garanzia d’indipendenza ed imparzialità; a partire dalla scelta dei suoi membri per comprovata esperienza, condivisa autorevolezza e disinteressato servizio nell’interesse della città. Come nel caso milanese non sembra essere sempre stato. Non a caso l’Amministrazione per far fronte alla situazione è ricorsa ad una frettolosa riforma, con metà dei suoi membri che non potranno svolgere attività professionale nel territorio comunale, compreso il Presidente. Risibile la motivazione che non sarebbe possibile estendere questa clausola a tutti per l’indisponibilità d’altri candidati; e non credo che il nodo stia qui ma nella dirittura che dovrebbe essere di tuti i membri per il prestigio acquisito nel loro operato.
Andando alla Commissione Edilizia di poco tempo fa, con gli stessi compiti della enfaticamente ridenominata Commissione del Paesaggio, ritroviamo figure di chiara fama, anche non più in attività professionale, intellettuali e docenti conosciuti per il loro rigore, con quanto scritto e per la loro presenza nel dibattito culturale. Al di sopra di ogni sospetto, come la moglie di Cesare. Anche la loro scelta avveniva in modo diverso, non come ora per auto segnalazione ma da terne indicate da istituzioni culturali, associazioni professionali, partiti politici di maggioranza e di minoranza, tra i quali il Consiglio Comunale deliberava la composizione. La Commissione era presieduta dall’Assessore all’Edilizia Privata delegato a rappresentare l’indirizzo dell’Amministrazione in materia urbanistica ed edilizia, diversamente da ora con un presidente non eletto dai cittadini.
Un indirizzo chiaro in una dialettica che vedeva anche la partecipazione ai lavori della Commissione dei rappresentanti dei Consigli delle venti Zone del Decentramento Amministrativo, con diritto di voto per i progetti ricadenti nella loro circoscrizione. L’eventuale voto divergente tra Commissione Edilizia e Zona comportava la trasmissione della pratica alla Commissione Urbanistica del Consiglio Comunale per il giudizio definitivo. Inoltre era previsto che ogni due anni un terzo dei componenti con estrazione a sorte fossero sostituiti da altri subentranti.
Nel recente caso milanese diversi architetti, senza generalizzazioni, appaiono coinvolti in vicende nell’ambito della Commissione del Paesaggio. Dagli atti emergono, al di là degli aspetti giudiziari per i quali è importante ribadire una posizione garantista, un intreccio di relazioni che non possono non richiamare la deontologia professionale e rimandare al delicato compito dell’Ordine professionale nell’indicare i propri rappresentanti nella Commissione del Paesaggio.
Anche qui la memoria non può non riandare a Consigliature, con figure note e apprezzate da diverse generazioni di professionisti. Una autorevolezza quella dell’Ordine degli Architetti anche in ragione della sua funzione di primo livello di Magistratura, per sovrintendere al corretto esercizio della professione, alla tutela dei propri iscritti rispetto a scorrettezze e illecite concorrenze, con possibili censure per comportamenti non conformi alle norme deontologiche.
Un rigore che deve essere al centro del lavoro dell’architetto, della sua dirittura intellettuale che portò il filosofo Wittgenstein a dire che “Un buon architetto è colui che sa resistere alle tentazioni”. Non un giudizio moralistico ma il connotato di una professione che ha a che fare con la qualità della vita, il benessere e la socialità delle persone, e che richiede pertanto rigore e indipendenza. Un atteggiamento che chiama in causa anche la formazione, l’Università e il contenuto degli insegnamenti dove questi principi dovrebbero essere sempre presenti. Come un Giuramento di Ippocrate. Ritrovando modestia e serietà spesso offuscate dal successo, con una narrazione dell’architettura fatta di immagini pubblicitarie come di una qualsiasi moda.
L’architettura è un bene durevole e non può essere assimilata tout court, come ricordava Philippe Daverio, al Real Estate.

