Milano e la conservazione dell’identità dei luoghi

UCTAT Newsletter n.72 – novembre 2024

di Matteo Gambaro

Il terzo seminario, organizzato nell’ambito del ciclo intitolato “Qualità ambientale e bellezza della città”, promosso dal gruppo di ricerca EnviReg del Politecnico di Milano e dall’associazione culturale UCTAT, è stato dedicato al tema della conservazione dell’identità dei luoghi. Oltre al sottoscritto sono stati coinvolti la prof.ssa Francesca Albani e il prof. Marco Biraghi colleghi del Politecnico di Milano.

Il tema della conservazione dell’identità dei luoghi è di crescente attualità, in particolare negli ultimi anni in cui si sta assistendo all’attuazione di importanti interventi di riqualificazione e trasformazione urbana, di cui si è discusso e dibattuto per molto tempo senza esiti concreti. Opere che per dimensione e ubicazione nel tessuto urbano possono determinare la modificazione del paesaggio e la trasformazione dell’identità di intere porzioni della città.

Dopo anni di stallo, alla metà degli anni Ottanta sono state varate le prime leggi mirate alla trasformazione e riqualificazione degli immobili produttivi dismessi: i PIR Programmi Integrati di Recupero, di cui alla legge Verga (L.R. 22/86) e alla legge Adamoli (L.R. 23/90) e i PII Programmi Integrati di Intervento regionali e i PRIU Programmi di Riqualificazione Urbana previsti dalla legge Botta-Ferrarini (L.R. 179/92). Grazie a queste leggi regionali il dibattito è stato riproposto a livello nazionale ed ha portato all’introduzione nel nostro ordinamento dei PII Programmi Integrati di Intervento che, in area milanese, hanno registrando una vasta sperimentazione e hanno permesso di avviare, in variante al Piano, le trasformazioni delle aree di Santa Giulia (Montecity-Rogoredo), Porta Vittoria, il progetto Portello e altre, e dopo molti anni di studi e progetti, anche l’area Garibaldi-Repubblica. Dal primo decennio degli anni Duemila si è avviato un profondo rinnovamento dal punto di vista architettonico e urbano, con la realizzazione di numerosi progetti che hanno puntano da un lato a riqualificare intere zone e grandi quartieri (come il Progetto Bicocca) e dall’altro a proiettare l’immagine della città in Europa e nel mondo. Non solo siti industriali dismessi, quindi privati, ma anche aree ferroviarie, aree militari, del demanio e funzioni pubbliche non più utilizzate. Un processo progressivamente più ampio e imponente di trasformazione di aree intere della città che ha determinato, e sta determinando, il cambio dell’identità dei luoghi e la modificazione del paesaggio urbano.

La città di Milano con la sua conformazione urbanistica e planivolumetrica testimonia chiaramente la stratificazione costruttiva connaturata alle diverse epoche storiche: dalle origini alla città ottocentesca, ai piani Pavia-Masera del 1912 e Albertini del 1934, con gli spazi pubblici e i viali alberati, dalla ricostruzione post-bellica fino alle trasformazioni urbane avviane appunto negli anni Duemila. Sono chiaramente leggibili la città medioevale policentrica, con gli sventramenti per la realizzazione del castello, del duomo, dell’ospedale maggiore; e le opere del Piano Beruto, primo piano regolatore di Milano (1884), che ha previsto lo sviluppo urbanistico della città oltre la cerchia dei Navigli e le mura spagnole con la “centratura” forzata su piazza Duomo e la realizzazione della circonvallazione esterna.

La città degli anni Trenta e la città della ricostruzione post-bellica che fa di Milano un caso eccezionale, forse unico, un vero museo a cielo aperto dell’architettura italiana del dopoguerra. I numerosi edifici realizzati sono la traccia di un’epoca irripetibile per l’architettura e sono una parte ineludibile del paesaggio urbano contemporaneo: la testimonianza costruita e concreta di una città.

Questa è l’identità di Milano.

Oggi è però in atto un’irrefrenabile attività costruttiva di cui non si vede, ne prevede, la fine, un processo di progressivo smantellamento delle stratificazioni storiche, operando nelle pieghe delle normative e nel silenzio delle istituzioni culturali e non solo.

Indubbiamente le istanze economiche e di sviluppo urbano devono essere prese in considerazione, però la valutazione critica sta nel fatto che la città è cresciuta e sta crescendo senza una visione, senza una idea di città e senza una identità. Problema diffuso non solo a Milano ma in molte altre realtà italiane, con livelli di incidenza differenti determinati delle dimensioni, dall’ubicazione e delle prospettive economiche. Interessi e pressioni economiche spingono sempre più verso modelli di sviluppo veloci e dai risultati immediati, la città però ha bisogno di tempo e sedimentazione per costituirsi e conformarsi anche alle nuove esigenze e istanze degli abitanti, senza eliminare sbrigativamente le tracce delle preesistenze. La maggior parte degli interventi degli ultimi anni sono stati costruiti, o sono in fase di costruzione, con progetti insensibili al contesto ambientale.

Il tema del contesto ambientale, riferimento ineludibile per generazioni di architetti italiani sembrerebbe essere sparito dalle logiche progettuali o nella migliore delle ipotesi marginalizzato e declassato a slogan promozionale. Ricordo bene i ragionamenti di Vittorio Gregotti, quando raccontava della sua irripetibile esperienza ad Hoddesdon. Era il 1951 e in questa piccola cittadina a nord di Londra ebbe luogo l’VIII congresso CIAM dedicato al “cuore dalla città”. L’obiettivo era di porre l’attenzione progettuale a quelle zone della città in cui erano riassumibili i valori culturali e sociali della comunità, ragionando per integrazione e non per sostituzione edilizia. Un cambio di paradigma dopo anni di ricerca, teorizzazione e di sperimentazione mirate al rinnovamento dei principi dell’architettura e dell’urbanistica con approcci incentrati sul funzionalismo e sulla nuova estetica che ne derivava. In tale occasione Ernesto Nathan Rogers presentò una relazione intitolata: Il Cuore: problema umano della città, introducendo gli studi sulle preesistenze ambientali che caratterizzeranno la vita intellettuale ed anche professionale di Rogers negli anni successivi.

L’argomento era indubbiamente di grande importanza, in un’epoca che stava vivendo la ricostruzione postbellica in tutta Europa, e che si interrogava criticamente sul valore delle preesistenze e sul metodo adeguato a integrare le nuove costruzioni con la città più antica. Il dibattito vide in particolare gli italiani assumere, con coraggio, una posizione critica nei confronti dell’internazionalismo dei grandi maestri: posizione culturale che influenzerà negli anni la diffusione ed il radicamento sempre più convinto anche in altri paesi.

Non vi è dubbio che queste scelte abbiano determinato modalità operative sempre più attente all’esistente, non solo dal punto di vista morfo-tecno-tipologico ma anche normativo e vincolistico, con particolare accentuazione in un paese come l’Italia così ricco di storia.

Però, come tutte le vicende umane, il percorso evolutivo ha raggiunto velocemente il culmine e la cultura progettuale ha imboccato una nuova via progressivamente meno attenta al paesaggio urbano, dando sempre più spazio alla costruzione di manufatti avulsi dal contesto sia dal punto di vista culturale che soprattutto morfologico e dimensionale. Tale atteggiamento ha causato la diffusione nelle nostre città di edifici vistosi e fuori scala, eccezioni nel tessuto urbano in dichiarata contrapposizione culturale con il contesto. Edifici che si sostanziano nella sorpresa e nell’originalità della forma, peraltro dalla durata breve in quanto non generati da un processo logico e sensato. Gregotti le chiamava architetture mercantili al servizio della moda, prodotti di design ingranditi e trasformati in icone.

Oggi il dibattito sulle architetture fuori scala, in una città come Milano in preda ad una frenesia costruttiva inimmaginabile e apparentemente inarrestabile, è il tema centrale di discussione, anche a seguito delle note vicende giudiziarie che hanno coinvolto imprenditori, architetti e costruttori.

Si tratta però di un argomento non nuovo: a metà degli anni Novanta Rem Koolhaas scriveva della città generica “…liberata dalla schiavitù del centro, dalla camicia di forza dell’identità” e qualche anno più tardi della Bigness “…ovvero il problema della grande architettura”. Sostenendo che il fuori scala fosse l’unico modo per riattribuire significato all’architettura e farla uscire dalla stagnazione figlia dei movimenti ideologici e artistici del modernismo.  

Gli scritti di Koolhaas mi hanno sempre incuriosito e a distanza di circa vent’anni dalla pubblicazione del libro, la sua intuizione sulla Bigness sta ampiamente trovando riscontro anche a Milano. La maggiore parte degli interventi di trasformazione urbana ruotano attorno a opere iconiche, se possibile uniche e riconoscibili, che ridisegnano con altre logiche il paesaggio urbano della città.

È come se ci fosse una insopprimibile esigenza di rompere con la storia per proporre un nuovo modo di abitare la città. Ed anche quando gli interventi nuovi provano ad integrarsi con le preesistenze, recuperando agli usi contemporanei manufatti dismessi dalle originarie attività produttive, la sensazione è che spesso sia solo un modo per ripulirsi la coscienza.

Sono trascorsi circa settanta anni da Hoddesdon, un tempo lungo per la vita ma forse non così lungo per l’architettura, e nuovamente ci ritroviamo a discutere del valore del contesto ambientale e della necessità – o meno – di integrare le nuove costruzioni con il tessuto edilizio (culturale) esistente. Il percorso circolare ci ha riportato al punto di partenza e forse si intravedono già i segnali di una nuova stagione caratterizzata dalla rinnovata sensibilità all’identità dei luoghi, in particolare nelle nuove generazioni di architetti.

CityWave, BIG, Milano, 2019 (render ©BIG).
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