UCTAT Newsletter n.65 – marzo 2024
di Luca Marescotti
Difficile parlare ancora di urbanistica a Milano, dove del termine si è perso da tempo il significato, Le notizie sui quotidiani mi ricordano tempi andati …. c’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico: io vivo altrove … Sui giornali si scrive di una certa tensione negli uffici della rigenerazione urbana; essi affermano che è tutto in regola, la magistratura indaga, le regole sono confuse, chiariremo, collaboreremo. È come se si fosse perso l’orientamento e il senso delle parole: sui quotidiani la parola ricorrente è urbanistica, ma si scrive di permessi a costruire e di autocertificazioni di inizio lavori, forse di perequazione. Magari sarebbe più appropriato edilizia privata, ma non fa differenza, perché la domanda è per chi e come si sta costruendo.
Dalle Newsletter di UCTAT di gennaio e febbraio ricavo una visione articolata sulla perdita di senso dell’urbanistica, sull’ingombrante presenza della finanza internazionale, sul difficile rapporto con il riformismo, sull’intreccio complesso di interessi. Non saprei che altro aggiungere, devo prendere le distanze e riflettere; nei giornali, però, sento la mancanza di una cultura comune capace di dare un senso alle cose, alla funzione del piano di governo del territorio, al significato di governo: un governare come un processo di azioni e reazioni o in una governance che dirige comportamenti e accordi tra gli attori? Soprattutto poi: il fine ultimo qual è?
Avevo iniziato a scrivere sulla mobilità a Milano, ma mi ero fermato: sentivo che mancava qualche cosa di importante, il piano forse? Magari ci ripenso, ma il fatto è che le notizie milanesi mi lasciano fortemente perplesso; cambiano i nomi degli assessorati, perché cambia il modo di trattare ciò di cui si parla che è pur sempre urbanistica, edilizia privata, edilizia pubblica. Si usano parole evocanti come inclusivo, coeso, multiculturale, sostenibile, ma l’operatività è sempre più liberistica, e contraria al pianificare.
Punto e da capo. Per uscire da questo bailamme bisogna rimettere al centro l’urbanistica e la politica, fissare gli scopi a cui conformare le azioni. ‘Politica’ in italiano è una parola ambigua rispetto all’inglese che distingue ‘politics (la politica)’ e ‘policies (le politiche)’. Nelle teorie politiche con il primo si indica l’agire di un partito in relazione alla forza determinata dagli elettori e con il secondo un insieme di dichiarazioni e di atti per conseguire dei risultati. Tuttavia, con altre parole, aggiungerei che non sempre la politica è, o deve essere, un’arena competitiva, ma che per dare un senso alla storia nelle democrazie si discute, ci si confronta per trovare accordi (o compromessi) per un bene comune, guidati dagli scopi, dai fini e dal senso delle cose. Se a ‘politica’ si aggiunge la qualifica ‘pubblica’ si entra in un altro e nuovo ambito, anch’esso complesso, formato da un’insieme (più o meno coerente) di decisioni e di azioni volte a distribuire o redistribuire risorse e valori.
Ora la nostra attenzione dovrebbe concentrarsi su come la politica conformi l’urbanistica, su quali politiche si debbano o si possano adottare per conseguire i fini, e quali fini, ma anche sulla logica che in fondo fa considerare l’urbanistica una politica pubblica e su come allora viene usata per distribuire o redistribuire valori e risorse. In altre parole, dunque, ci facciamo diverse domande: il senso dell’urbanistica, quale politica stia reggendo lo sviluppo urbano milanese, gli scopi che persegue l’azione e i fini retti dalla strategia.
Da tempo cerco di ricostruire le motivazioni che mi indussero a scegliere l’urbanistica come mestiere e senz’altro il principio rinvia a Campos Venuti, alla sua capacità di mischiare tutti i piani senza mai perdersi per giungere alla sintesi, la capacità di motivare l’impegno e la passione, mettendo in luce un lato affascinante che non consisteva soltanto nella forma urbana, quanto nel rendere evidente la dimensione sociale del piano. Questo è il punto: per la dimensione sociale ci vuole qualcuno che ci creda, che dia fiducia al piano e che lo sostenga nell’agire con coerenza. E questo non può che essere l’attore pubblico e siccome ho premesso la dimensione sociale, penso sia chiaro che intendo una scelta di parte, partigiana, a favore di un attore pubblico capace di governare e di usare il piano come strumento e “legge”, che detta le regole future di intervento sul territorio nei limiti della democrazia. Per comprendere quello di cui stiamo scrivendo occorre uscire dai confini disciplinari per interagire con le scienze della Terra e con le altre scienze: da quelle sociali, giuridiche e politologiche a quelle economiche, statistiche, gestionali e a quant’altro si interseca con il governare il territorio. E ancora tutto questo non basta, poiché occorre inquadrare l’urbanistica all’interno di una strategia complessa che coinvolga tutte le diverse funzioni dello Stato. È tempo che l’urbanistica si mostri per quello che può e non può fare: nella stabilizzazione economica, nella redistribuzione e nella distribuzione delle ricchezze, nella regolazione del mercato, nello specifico del settore immobiliare; su come si pone rispetto alla libertà sul territorio (gli squilibri sociali) e alla sostenibilità (i cambiamenti climatici), aprendo ad altri problemi non banali, che comunque richiedono azioni specifiche e un qualche misurare il prima e il dopo, sempre che ci si accordi sulla misurabilità dell’efficacia di una politica. Qui bisogna scegliere, ci vuole chiarezza.
Rimarco una certa coincidenza tra amministrare l’urbanistica e il governo, il governare e la governance del territorio, anche se tutte queste accezioni indicano non solo specifici modi di intendere la politica e di gestire la pubblica amministrazione tramite un accentuarsi o dell’autoritarismo o dell’autorevolezza, ma anche la sua credibilità, aspetto più che rilevante per l’urbanistica in quanto azione di lunga durata, indebolita di fatto dai limiti temporali delle legislature, per cui si inventano possibili alternative alla brevità delle legislature con l’istituzione di agenzie autonome in grado di garantire la coerenza in tutte le fasi operative. Autorevolezza e credibilità, dunque, fanno emerge l’esigenza un’autorità pubblica in grado di rapportarsi al mercato immobiliare e ai diversi soggetti interessati da una posizione di forza dovuta al rispetto che i diversi attori le riconoscono. Fermo restando che la scelta sulle politiche strutturali e sullo scopo distributivo o redistributivo, è ancora tutta da decidere.
L’autorevolezza è necessaria per adottare redistribuzione o distribuzione sia nelle perequazioni, sia nelle concessioni edilizie, sia negli oneri di urbanizzazione, sia nella costruzione di servizi pubblici, che in una vecchia dizione, e non credo tanto rivoluzionaria o massimalista, comprendevano almeno una discreta quota di edilizia residenziale. Tutte queste azioni potrebbero condurre all’espropriazione o a cessioni di aree (in cambio di) per realizzare servizi pubblici e edilizia pubblica, la biblioteca europea, per esempio, ma non possono portare a vincoli ricattatori senza limiti di tempo: in altre parole si deve avere la copertura economica. L’assenza della riforma urbanistica rende difficile ma non impossibile, invece è l’assenza di autorevolezza, di risorse e di credibilità che ne decreta l’impossibilità. Questo significa che l’agire urbanistico può appartenere alla destra o alla sinistra e che la discriminante sta nella scelta delle politiche, nella loro congruenza agli scopi e al senso attribuitogli.
Una seconda riflessione riguarda la percezione che della politica hanno i cittadini e di come la politica si rappresenta ai cittadini, senza dimenticare che quando parliamo dell’urbano, quindi dei cittadini, intendiamo una moltitudine composta da diverse società con specifiche aspettative, esigenze e linguaggi. Da tutti questi elementi dipende ogni disquisizione sul consenso e sulla partecipazione. Se il consenso viene malridotto in una arena politica intesa come campo di battaglia in cui tutto è lecito, è facile che gli spettatori si disperdano tra disimpegno e astensione; se al contrario la politica avvenisse entro trasparenti e leali trattative la partecipazione sarebbe finalizzata ad informare, ad ascoltare, a confrontare, a ridurre il livello di scontro, mettendo in comune le conoscenze del piano nel duplice senso di analisi a supporto del piano e di indicazioni strategiche e operative contenute nel piano. La partecipazione diviene un canale sempre aperto di ascolto e confronto. In questa accezione partecipare significa quindi essere messi in grado di entrare nei processi valutativi, di comprendere le relazioni e le connessioni tra le diverse scelte, ma anche le relazioni e le connessioni tra le diverse parti dell’urbano: l’edilizia sociale, i servizi pubblici, l’edilizia privata, gli insediamenti commerciali e produttivi, gli edifici con funzioni pubbliche. Ciascuno complementare, ciascuno integrato, ciascuno con la propria dignità sociale o religiosa.
Milano … ebbene debbo concentrami su Milano. Nelle recenti cronache vedo riemergere vecchi temi come gli approcci morfologici e i conflittuali rapporti con l’architettura, magari sotto un nuovo nome. Ricordo Carlo Tognoli, sindaco con grande popolarità e da tutti stimato, che nel 1980 portò all’approvazione il Prg del 1976. Certo, Tognoli va citato anche perché in quel periodo si credeva nel fare, nel costruire una città più serena, se non che poco dopo fu presentato il Documento Direttore del Progetto Passante (1984): un anticipazione dell’approccio morfologico, che alcuni propugnavano come il nuovo piano. Con il Documento Direttore e con i Progetti d’area, che prospettavano il futuro attorno alle stazioni, si lanciava il dominio dell’architettura sul piano, un dominio che non era solo teorico, che contraddiceva le anticipazioni del Piano territoriale di coordinamento comprensoriale nel 1975 redatto dal PIM, una struttura all’insegna del processo impossibile, e del Progetto Casa del 1982.
Del governo metropolitano si sa poco o nulla, anche se ufficialmente esiste il Piano Territoriale Metropolitano, PTM, approvato nella forma definitiva nel 2023; denso di suggerimenti ma non di strategie. Ad esempio per il cambiamento climatico c’è solo una tavola in cui si riportano le anomalie climatiche, ovvero le isole di calore, poi nella scheda sul verde tecnico in ambiente costruito le buone pratiche ci portano dal Bosco Verticale persino in Vietnam con l’Atlas Hotel Hoian senza che le schede affrontino quanta energia sia stata incapsulata nella costruzione e quanta ne occorra per la manutenzione, forse perché in contrasto con qualsiasi sostenibilità. Sono più che perplesso: se da una parte si parla di città metropolitane, dall’altra si opera per la rigenerazione urbana del solo centro. Sindaco urbano e sindaco metropolitano non paiono quagliare, l’unica strategia è una grande macchia d’olio che ingloba e omogeneizza tutto in un grande e lussuoso centro. A lato un garbuglio di regole, tra false riforme e mancate riforme.
Avevo pensato di iniziare citando alcune coppie città-sindaco: Jakob Reumann e Karl Seitz a Vienna, Renato Zangheri a Bologna, Enrique Tierno Galván e Juan Barranco Gallardo a Madrid, Pasqual Maragall a Barcellona, Francesco Rutelli e Walter Veltroni a Roma, Elio Veltri a Pavia, avvertendo che la questione sta nell’aver dato credibilità all’urbanistica; poi avrei citato il Greater London Council o lo Atelier Parisien d’Urbanisme, credibili e autorevoli. Sento il bisogno di una storia sociale dell’urbanistica, che includa il ruolo della politica, lasciando stare Ambrogio Lorenzetti nonostante la sua magnifica sintesi allegorica, una storia che indaghi le condizioni di impossibilità o di possibilità dell’urbanistica. L’inizio che avevo pensato diviene conclusione.
È vero, si è perso un certo modo di pensare l’urbanistica, si è rinunciato a conoscere (ad ascoltare?) l’urbano, la partecipazione è stata assimilata in un gorgo burocratico, l’associazionismo spontaneo e volontaristico si disperde. Ritorno al rapporto tra politica e urbanistica necessario nel governare la città, andando oltre alla città fisica: occorre pensare all’urbano, alla città, alle sue società, alle sue attività. Il motivo conduttore è il ruolo pubblico nella guida del governo del territorio, ovvero nella capacità e nella volontà di amministrare l’urbanistica. Da questo principio discenderanno le scelte sugli interventi strutturali e su quelli distributivi. Scopi fini e senso della politica e delle politiche.
E nei corridoi del Comune intanto si piange. Non solo lì.

