Oltre la sindrome di Noè

UCTAT Newsletter n.68 – GIUGNO 2024

di Aldo Castellano

«La preoccupazione di conservare il patrimonio architettonico e industriale del XX secolo (compresi gli ultimi decenni), spesso esposto al rischio di demolizione a causa del cattivo stato, genera oggi un complesso di Noè che tende a porre al riparo dell’arca patrimoniale l’intero insieme dei nuovi tipi di costruzione apparsi nel corso di questo periodo.»

Così scriveva Françoise Choay ne L’allegoria del patrimonio del 1992. Con quelle parole la storica francese segnalava il recente fenomeno della crescita esponenziale in Occidente del patrimonio storico-culturale posto sotto tutela, che per le sue stesse dimensioni raggiunte rischia di implodere culturalmente per inflazione semantica e materialmente per mancanza di risorse.

A dire di Salvatore Settis, in Paesaggio Costituzione Cemento. La battaglia per l’ambiente contro il degrado civile del 2010, la situazione italiana in tema di tutela del patrimonio storico-culturale è ora talmente compromessa da sembrare quasi impossibile un’inversione di tendenza. Attraverso la sacrosanta indignazione morale di uomini nobili e giusti come lui, Settis spera di fare appello agli uomini di buona volontà, a farsi promotori di una rinascita delle virtù civili, conculcate dal denaro e dalla corruzione. Tuttavia, non è chiaro in che modo tali prediche dovrebbero poter risvegliare quelle coscienze se il degrado civile è davvero così generalizzato, come egli sostiene.

Il “che fare?” del patrimonio storico-culturale è un tema ben noto alla pubblica opinione, ed è anche capace di suscitare forti emozioni, seppure intermittenti. Ritorna con puntuale cadenza all’attenzione del pubblico in occasione del crollo del cornicione di qualche monumento, o dell’emanazione di una decisione ministeriale, che gruppi di intellettuali giudicano sciagurata, o di un convegno di denuncia sul tema. Poi, passata l’emozione del momento, la quotidianità ricopre tutto sotto un velo di silente indifferenza sino al risveglio successivo. E così avanti, da decenni e forse ancora per molti altri decenni. Spenti i riflettori, i buoni propositi pubblici, se non proprio le promesse sfuggiti di bocca a qualche amministratore un po’ troppo esuberante e a qualche altro decisore, sono presto dimenticate e gli operatori del patrimonio se ne tornano mesti, come prima, alla solitaria quotidianità, anche se con qualche frustrazione in più.

Ci si domanda il senso dell’indignazione periodica, come i cucù al battere dell’ora, quando poi le poche iniziative miracolosamente avviate per la tutela e la valorizzazione culturale di qualche caso significativo del nostro patrimonio sopravvivono in genere fra grandi stenti, rischiando spesso il fallimento nonostante il volontariato di tanti intellettuali e operatori.

Le difficoltà, di cui parlo, non sono comunque solo di natura materiale. Il loro vero fondamento è culturale. La sindrome di Noè – per usare l’espressione di Françoise Choay – scaturisce dalla moderna incapacità di stabilire gerarchie di valori condivisi.

Nel mondo premoderno le gerarchie di valori condivisi costituivano il criterio naturale per l’allocazione delle scarse risorse disponibili.  Le risorse, insomma, non erano distribuite e non si distribuivano a pioggia su tutto e tutti, ma si posavano discrete in alcuni punti piuttosto che in altri e, se operate dall’uomo, erano sempre commisurate al ruolo gerarchico che ogni cosa ricopriva nella visione di quel mondo.

Per ragioni diverse la modernità ha rifiutato il sistema gerarchico di valori esistente nella tradizione, ma, seppur capace di ampliare a dismisura le risorse disponibili grazie a scienza e tecnologia, la modernità deve pur sempre, e comunque, confrontarsi con la loro naturale scarsità.

Esiste, dunque, una fondamentale asimmetria tra la realtà naturale, limitata, e la realtà culturale moderna, tendenzialmente illimitata, paritetica, antigerarchica e a-valoriale.

Se finisco per stipare sino all’inverosimile l’odierna arca patrimoniale, perché incapace di scegliere ciò che merita importanza da ciò che invece potrebbe non meritarlo, considerando tutto di pari importanza, è evidente che ciò produca distorsioni e contraddizioni di impossibile soluzione. Il collo di bottiglia della naturale limitatezza delle risorse è profondamente conflittuale con il relativismo moderno dei valori, secondo il quale tutto è di pari valore e nulla ha precedenza sull’altro.

Athanasius Kircher, gesuita, filosofo e storico tedesco del XVII secolo, personalità di primo piano nella Roma e dell’Europa del tempo, onorato con il titolo di «maestro in un centinaio di arti» per l’enorme vastità dei suoi interessi, tanto da essere paragonato a Leonardo da Vinci, studiò con attenzione l’interessante problema costituito dal funzionamento dell’arca di Noè nel primo dei tre libri del 1675, dedicati a quella grande impresa biblica. L’autore non si capacitava che, in una barca, seppur grande, con tre ponti e di circa 1500 metri quadri di superficie disponibile, Noè avesse potuto stipare tutti gli animali allora esistenti. Una soluzione plausibile del problema, che Kircher individuò, era che l’eroe biblico si fosse limitato a imbarcare solo gli animali archetipici, dai quali sarebbero stati poi generati tutti gli altri. Con questa singolare teoria evoluzionistica su base scritturale il gesuita tedesco aveva anticipato addirittura le scoperte di Jean Baptiste Lamarck e Charles Darwin. Ma non è questo il punto che qui m’interessa sottolineare.

Il fatto è che, anche con i soli animali archetipici, come fece Noè a far sopravvivere tutti quegli ospiti per i ben 394 giorni trascorsi sull’arca tra imbarco e sbarco? Non è difficile immaginare gli immensi problemi logistici e tecnologici che il patriarca dovette affrontare e risolvere: immagazzinare il cibo; dar da mangiare e bere a tutti gli animali quasi in contemporanea, affidandosi quasi esclusivamente alla forza di gravità per la caduta del pasto nelle varie postazioni; eliminare automaticamente, e sempre per gravità, i rifiuti organici dai singoli alloggiamenti, per espellerli infine dall’imbarcazione.

Kircher studiò e immaginò con una stupefacente ingegnosità tecnologica un possibile sistema di reti di eccezionale complessità, colleganti meccanismi automatici discendenti o ascendenti, su tutti e tre i ponti dell’imbarcazione. Con ciò gli parve di aver dimostrato razionalmente la fattibilità del racconto biblico.

Al di là del caso Kircher, sembra pertinente il richiamo all’arca di Noè anche nel caso del patrimonio storico-culturale. Come gli animali archetipici, una volta imbarcati nell’arca patrimoniale, anche i cosiddetti beni storico-culturali non possono essere abbandonati semplicemente nei chiusi recinti dell’arca in attesa che finisca il diluvio del disinteresse e della speculazione e che rifiorisca la vita e il rispetto nei confronti dell’eredità culturale dei padri. Anche perché la durata dell’odierno diluvio anti-patrimoniale avrà durata presumibile assai più lunga dei 394 giorni biblici. Come far fronte ai necessari alimenti manutentivi e agli eventuali interventi eccezionali per la sopravvivenza del patrimonio dell’arca? Anche Noè, essendo umano e sulla terra, poteva contare su risorse limitate, ma godeva pur sempre di un particolare favore divino. Non sembra che quelle condizioni possano ripetersi oggi né è credibile che la nostra limitatezza delle risorse possa essere superata con una qualche miracolosa improvvisa moltiplicazione. Le previsioni economiche per il futuro sono, anzi, assai più fosche di quanto fossero solo un anno fa, e non si capisce con quali risorse attrezzare la nostra arca patrimoniale per far sopravvivere il suo contenuto.

Si dice che ogni crisi nasconda un’opportunità. Vogliamo crederlo fermamente. E allora stiamo al gioco.

Una prima auspicabile opportunità potrebbe esser quella di rimettere finalmente in discussione una serie di concetti, fattisi slogan vuoti di contenuto, che sinora hanno caratterizzato la cultura della tutela del patrimonio. A cominciare, dal concetto di valorizzazione.

L’articolo 6 del Codice Urbani parla di «esercizio delle funzioni e disciplina delle attività dirette a promuovere la conoscenza del patrimonio culturale e ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio stesso, al fine di promuovere lo sviluppo della cultura». Ecc. ecc.

Nel materialistico lessico contemporaneo il significato del termine “valore” fa molta fatica a staccarsi dal mondo dello scambio economico. Il valore – usato sempre al singolare, non al plurale come nella tradizione per indicare virtù dello spirito – misura per lo più l’eccezionalità e, dunque, la scarsità di qualcosa. In una civiltà, come la nostra, dominata dalla ragione economica, il valore è generalmente il prezzo, il costo di qualcosa sul mercato.

Anche ammesse tutte le buone intenzioni degli estensori del Codice dei Beni culturali che continuano a parlare di cultura a tal riguardo, il concetto di valorizzazione del patrimonio sembra proprio una tautologia o un’implicita e sottaciuta trasformazione dei valori del patrimonio (al plurale) in valore economico (al singolare).

Ogni entità inclusa nell’arca patrimoniale ha necessariamente in sé alcuni valori storico-culturali, ossia è riconosciuta in essa una qualche eccezionalità, piccola o grande che sia, che altre entità non possiedono. Dunque, se il concetto di valorizzazione è davvero di natura culturale, la valorizzazione del patrimonio si riduce a un vuoto gioco di parole, come dire valorizzare culturalmente i valori culturali. È tautologico, no?

Sembra allora inevitabile pensare che l’espressione debba invece riferirsi a un progetto di metamorfosi del valore d’uso culturale del patrimonio in suo valore economico. Infatti, si presuppongono interventi di «ingegneria culturale», e una vasta impresa pubblica e privata al servizio della quale dovrebbe operare un popolo di animatori, operatori delle comunicazioni, agenti per lo sviluppo, ingegneri e mediatori culturali con il compito di sfruttare i monumenti con tutti i mezzi al fine di moltiplicarne i visitatori.

Françoise Choay parla dell’operazione di valorizzazione come del “sesamo” del dispositivo patrimoniale. È l’ambigua formula-chiave entro la quale si vorrebbe riassumere lo statuto del patrimonio storico, e che tende a nascondere che, malgrado le leggi di salvaguardia, la distruzione ostinata degli edifici e degli ambienti antichi prosegue instancabile, oggi come ieri, prendendo a pretesto la modernizzazione o persino il restauro, o sotto la spinta spesso irresistibile delle pressioni politiche ed economiche.

Il patrimonio, invece, ha bisogno solo di essere protetto, studiato e spiegato in modo che possa essere apprezzato nella sua autentica dimensione storico-artistica.

Certo, per far questo occorrono risorse. Il patrimonio ha bisogno dell’economia per sopravvivere nell’arca. Potrà restituire le risorse investite solo indirettamente, attraverso l’intorno economico che l’attrattiva del suo valore storico-culturale sarà capace di determinare. È inutile farsi illusioni: la cosiddetta “sostenibilità” del patrimonio, secondo la quale è il patrimonio stesso a produrre ricchezza, a fare mercato di se stesso (il museo-bazar; il museo-ristorante; il museo-laboratorio per il tempo libero; il palazzo-hotel di lusso; e via dicendo), comporta inevitabilmente la sua distruzione storico-culturale.

Se questo è vero, è anche evidente l’insostenibilità economica della tutela dell’attuale e inflazionata arca patrimoniale.

Di qui l’altra opportunità che la crisi odierna ci pone di fronte. È quella di riconsiderare i criteri di elezione del patrimonio stesso. Probabilmente occorrerà tornare a un regime di sostanziale parità tra risorse disponibili e valori storico-culturali riconosciuti del patrimonio, perché l’iperinflazione patrimoniale sta finendo per distruggere la cultura, come quella monetaria ha sempre fatto con le economie dei paesi.

Il diluvio universale dell’attuale incultura non potrà mai terminare sin quando non si sarà capaci di ridurre il numero delle eccezionalità patrimoniali a una precisa e limitata gerarchia di valori storico-culturali, condivisa dalle comunità degli studiosi e del pubblico colto. I tesori di famiglia non possono coincidere con casa, arredo e tutto quanto esisteva all’epoca dei padri, ma solo con quelle testimonianze più significative in termini storico-culturali, capaci di assicurare il ricordo del nostro passato. Il resto, che è la gran parte, deve essere conservato documentariamente, ma poi lasciato alle trasformazioni dell’oggi e del libero mercato.

Queste brevi osservazioni, che ho solo tratteggiato, sono spunti di riflessione su una possibile prospettiva da seguire per giungere a una futura e urgente riforma culturale delle politiche patrimoniali, che sola, credo, potrà attenuare l’odierno insanabile dissidio tra passato e presente, tra cultura ed economia, tra diritti patrimoniali e aspettative del futuro.

Demolizione edificio comunale in piazza Treves, 2024.
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