UCTAT Newsletter n.22 – aprile 2020
di Paolo Debiaggi
La riflessione che questo periodo ci impone deve necessariamente produrre analisi, valutazioni e proposte rispetto a come il nostro Paese dovrà reagire per fronteggiare la gravità della crisi che insieme a quella sanitaria, interessa e interesserà ogni nostro livello produttivo, economico, sociale e culturale. Purtroppo, questa crisi si innesta in un sistema da molti anni in evidente declino politico-amministrativo e su un tessuto economico-sociale logorato dalle conseguenze della crisi economica avviata a partire dal 2008 e da cui l’Italia non ha saputo ancora riprendersi.
Le infinite analisi che ci vengono presentate quotidianamente sui media ad opera dei commentatori, più o meno informati, non pongono, a mio avviso, la giusta attenzione su uno degli aspetti più rilevanti che condiziona il (mal) funzionamento dell’apparato pubblico del nostro paese e, in massima parte, ne impedisce il processo di riforma necessario per arrestarne la progressiva e inesorabile spirale di declino in cui da decenni si avvita.
Nel passaggio storico assai critico che stiamo attraversando, vanno sprecandosi, tra i molti esperti nostrani, le analisi sulle ragioni della crisi del nostro sistema paese. Tra le diverse denunce scandalistiche su sprechi e inefficienze dell’apparato pubblico in molti settori di attività, un aspetto cruciale è stato finora quasi del tutto trascurato: lo straordinario potere di veto e di indirizzo sulle scelte politiche da parte dei burocrati pubblici, veri domini del funzionamento dell’apparato ad ogni livello amministrativo della cosa pubblica e profondamente resistenti ad ogni tentativo di riforma a strenua difesa dello status quo. Non si tratta solo di alti burocrati dello Stato centrale, ma ad ogni livello di governo intermedio e locale, dalla Regione fino al Comune, la “super casta invisibile” esercita il suo potere quasi indisturbata. L’indignazione verso la classe politica spesso trascura il ruolo fondamentale che il dirigente/manager pubblico esercita sull’efficacia dell’azione politica e sull’orientamento di questa. A fronte della visibilità di cui si nutre il politico eletto (o designato) ad amministrare, il dirigente pubblico esercita il vero potere nel perfetto anonimato e fuori osservazione da parte dell’informazione e, quindi, della pubblica opinione. Non vi è azione legislativa che a fronte di indirizzi politico-programmatici faticosamente partoriti nell’arena parlamentare o dal consiglio dei Ministri, a livello statale, oppure nei consigli regionali, comunali, negli enti e società pubbliche e nelle relative giunte di governo, non venga poi tradotta, trascritta e resa operativa dai dirigenti nei sempre necessari decreti o determine attuative. Così pure non vi è azione amministrativa che non passi attraverso la firma del dirigente pubblico: ogni utilizzo di risorse, ogni affidamento di lavori o consulenza, ogni acquisizione, passa attraverso una determina dirigenziale. Non vi è alcuna spesa pubblica che non sia autorizzata dal dirigente pubblico e individuata in uno specifico capitolo di spesa da lui gelosamente custodito. L’azione politica è possibile (possibile, non efficace) solo se il compromesso e la mediazione avviene tra componente politica eletta e dirigente pubblico, unico vero delegato a decretarne l’operatività. In questo spazio oscuro spesso si annidano le ragioni di un’azione politica (o di una non azione) il cui esito porterà vantaggi per alcuni, svantaggi per altri e, spesso, sprechi per tutti. Ma chi sono questi dirigenti pubblici, da chi e come sono stati selezionati, come si sono formati, hanno le giuste competenze, e, soprattutto, cosa fanno e con quali responsabilità? Non è affare della pubblica opinione.
La dirigenza o management pubblico determina le regole per la nostra convivenza e il funzionamento delle nostre attività quotidiane, controllandone l’applicazione e sanzionandone il mancato rispetto. Insomma, un ruolo fondamentale e una responsabilità enorme che dovrebbe essere rivestita dalle migliori competenze che il Paese sia in grado di produrre, in quanto funzione centrale nella determinazione del grado di efficienza ed efficacia della azione pubblica che tutti noi sosteniamo con la fiscalità e che dovrebbe ritornarci in termini di infrastrutture e servizi. Lascio ad ognuno di noi la valutazione sullo stato, in termini di efficienza e efficacia, dei diversi settori della nostra comune esperienza, dalla giustizia alle attività produttive, dalla scuola alla sanità, dallo stato delle infrastrutture alle opere pubbliche, dall’assistenza alla concorrenza.
Voglio però sottoporvi una riflessione che riguarda un tema di attualità ovvero la gestione dell’emergenza sanitaria e, soprattutto, la programmazione delle modalità di ripresa delle nostre attività dopo la pausa forzata. Stiamo assistendo in questa gestione emergenziale, alle solite litanie e paludosità burocratiche, si pensi solo alla tragicomica iperproduzione di decreti e moduli, a fronte della evidente mancanza attuativa operativa che realmente servirebbe (protezioni individuali, tracciamento del contagio, sostegno economico,…). Anche in questa situazione in cui il tempismo dell’azione pubblica sarebbe determinante, il nostro apparato pubblico riesce a produrre solo complessità e paralisi. Il decisore politico si appella dunque, al fine di produrre programmi e risposte efficaci, a forme di gestione straordinaria, rivolgendosi a competenze esterne alla macchina infernale, creando commissioni di esperti e task force che possano indicare la strada e le modalità da seguire o, come in altri casi (ricostruzione post sisma, sito Expo, ricostruzione ponte Morandi, emergenza rifiuti,…), auspicando commissariamenti ad hoc che possano, al di fuori di ogni regola ordinaria, portarci fuori dal pantano. Morale: una classe dirigenziale fenomenale nel gestire l’ordinarietà attraverso l’arte di scansare responsabilità e visibilità, favorire l’immobilismo attraverso l’entropia della complessità, ma completamente inutili quando si tratta di affrontare emergenze in cui competenza, prontezza e coraggio delle proprie scelte diventano determinanti.
Il vero problema che dobbiamo affrontare nella riorganizzazione dello Stato in vista di una sua maggiore efficienza, necessaria da anni, ma non più prorogabile vista l’odierna condizione, sta principalmente nella definizione di regole precise e trasparenti rispetto alle modalità di selezione e valutazione della classe dirigente a cui demandiamo l’onere e l’onore della gestione della cosa pubblica. Da troppo tempo ormai la selezione avviene, sia quando evita la formula del concorso sia quando lo intraprende, secondo logiche clientelari e di vicinanza partitica o parentale, che nulla, spesso, hanno a che vedere con competenza e merito. Per non parlare poi dell’esito determinato dai recenti tentativi di introdurre sistemi e procedure di valutazione dell’operato dei dirigenti, il più delle volte diventato sistema di auto-valutazione delle performance, utile solo all’apparato stesso per attribuirsi cospicui premi produttività. I servizi pubblici devono essere valutati dagli utenti, non da chi è responsabile della loro erogazione, sembra ovvio, ma in Italia non è così. Oggi attraverso la rete si valuta ogni tipo di servizio commerciale e la reputazione di chi lo offre diventa determinante per decretarne il successo. È troppo immaginare di applicare lo stesso concetto ai servizi pubblici?
Se non si riuscirà ad intervenire con decisione su questi meccanismi di funzionamento della macchina pubblica, selezione-controllo-valutazione, la sola indignazione verso sprechi e inadeguatezza della classe politica e dei partiti, pur necessaria e importante, da sola non basterà a introdurre efficienza ed efficacia nel funzionamento dello Stato e nell’uso assennato delle nostre (poche) risorse.
