UCTAT Newsletter n.60 – OTTOBRE 2023
di Aldo Castellano
Territorio e paesaggio: tutto o solo una parte?
Grande archeologo e storico dell’arte italiano, Salvatore Settis è una personalità di rilievo internazionale. Il suo libro – Paesaggio Costituzione cemento [1] – è un violento e appassionato j’accuse contro il degrado del paesaggio del Bel Paese.
Prendo spunto da questo testo per sviluppare alcune riflessioni sul concetto di paesaggio e sulle politiche a esso connesse, perché mi sembra rappresenti un’ottima sintesi della cultura oggi ampiamente condivisa sul tema, politicamente corretta, anche se – mi sembra – fortemente ideologizzata.
La critica di Settis non risparmia nulla e nessuno, a cominciare dai testi normativi internazionali come la Convenzione europea del paesaggio del 2000, rea di aver contribuito in modo indiretto, paradossalmente, al degrado del paesaggio, grazie all’adozione di una sua definizione troppo generica e diluita nello spazio [2]. Vi si legge, infatti, che il paesaggio è
«una determinata parte di territorio, così come è percepito dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni» [art. 1a].
La Convenzione lo riconosce giuridicamente
«in quanto [il paesaggio è una] componente essenziale del contesto di vita delle popolazioni, espressione della diversità del loro comune patrimonio culturale e naturale e fondamento della loro identità» [art. 5a].
Indubbiamente, si tratta di una nozione molto ampia, che, per di più, viene ulteriormente estesa dall’art. 2, nel quale si afferma che la Convenzione
«si applica a tutto il territorio delle Parti e riguarda gli spazi naturali, rurali, urbani e periurbani. Essa comprende i paesaggi terrestri, le acque interne e marine. Concerne sia i paesaggi che possono essere considerati eccezionali, sia i paesaggi della vita quotidiana, sia i paesaggi degradati».
Così definito, è legittimo concludere che il paesaggio riguardi quasi tutto l’insieme del territorio, e, dunque, che l’uno finisca per coincidere con l’altro. Ma, se tutto è paesaggio, di fatto nulla lo è. Da qui, secondo il nostro autore, discendono due rilevanti conseguenze:
- che vien meno la gerarchia tra le «porzioni di territorio che meritano più attenta cura e preservazione», perché paesaggisticamente più rilevanti rispetto ad altre;
- che a tutto il paesaggio si potrebbe applicare soltanto il consueto regime autorizzativo proprio del territorio senza ulteriori normative [3].
Secondo Settis, queste conseguenze costituiscono un paradosso pericoloso e inaccettabile. È stato, dunque, un bene – egli afferma – che nel Codice dei beni culturali e del paesaggio italiano del 2008 non sia prevalsa quella concezione e, contro le pressioni contrarie dei rappresentanti delle Regioni, si sia riaffermato il sovrordinamento dell’art. 9b della nostra Costituzione, secondo il quale «[la Repubblica] tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». Ponendo su un piano paritetico, seppur distinto, paesaggio e patrimonio storico-artistico, la Costituzione, infatti, conferiva al primo un carattere e un valore di eccezionalità al pari del secondo. Se, al contrario, si fosse affermato il punto di vista della Convenzione europea, tutto il territorio nazionale sarebbe stato considerato paesaggio:
«come se il centro storico di Siena e il quartiere di Scampia a Napoli» commenta Settis «dovessero esser “tutelati” a egual titolo: se seguirebbe non la “promozione” di Scampia, ma il degrado di Siena» [4].
Nella foga della polemica, si è fatta, forse, un po’ di confusione. Non mi sembra affatto che dalla definizione adottata dalla Convenzione europea del Paesaggio si possa dedurre una qualche volontà, anche solo indiretta, di porre Siena e Scampia sullo stesso piano del valore estetico. La Convenzione – mi sembra – ha voluto semplicemente attribuire un nome, un riconoscimento e, dunque, una dignità a tutti i molteplici quadri visivi in cui si articola l’intero territorio di un paese. Attribuire dignità a una cosa significa semplicemente considerarla degna di attenzione. Denominare uomo o donna tutti i membri della nostra specie non equivale, certo, a dire che tutti sono ugualmente dotati di qualità positive (come, ad esempio, bontà, intelligenza, bellezza o quant’altro), ma solo che tutti, dotati e meno, hanno una pari dignità e per ciò stesso sono degni d’una pari attenzione. Il riconoscimento che tutto è paesaggio conferisce pari dignità a tutti i quadri territoriali. Naturalmente, molti di loro saranno considerati “brutti”, secondo le categorie estetiche dai più condivise, e avranno minore qualità e valore rispetto ad altri, ma non per questo non sono paesaggi, esattamente come anche l’essere meno dotato della nostra specie rimarrà pur sempre un uomo. Il riconoscimento della dignità di paesaggio a tutto il territorio è il primo passo indispensabile per considerare e poter contribuire a migliorare le sue parti più squalificate.
Il secondo punto, segnalato da Settis, è più complesso: se il paesaggio s’identifica con l’intero territorio, è sufficiente applicare solo il consueto regime autorizzativo proprio di questo (il territorio) senza ulteriori normative per quello (il paesaggio). È vero, come riconosce la Convenzione europea, che il paesaggio è una categoria visiva («Il paesaggio non esiste se non nell’occhio dello spettatore», affermava nel 1801 August Wilhelm von Schlegel in Kustlehre [5]), tuttavia il suo contenuto scaturisce necessariamente dalla materialità del territorio e dalla realtà fisico-chimica dell’ambiente. Il nostro autore scrive – a mio avviso correttamente – che, pur non essendo sinonimi, “paesaggio”, “territorio”, “ambiente”
«coprono, da diverse angolature di discorso e sotto differenti profili storici, lessicali e giuridici, lo stesso identico spazio, che è poi quello in cui si svolge la vita d’ogni giorno di noi cittadini» [6].
Potremmo dire che la realtà che ci circonda ha una natura indissolubilmente trina: il territorio, su cui l’uomo scrive la propria storia, ha una forma visibile, una morfologia, un paesaggio, che registra quella storia, restandone il depositario, e una realtà fisico-chimica, che determina le condizioni ambientali in cui l’uomo si trova a vivere. Con la modificazione del territorio vengono a modificarsi, per lo più, anche il paesaggio e l’ambiente, seppure per quest’ultimo (l’ambiente) anche la tecnologia costituisce un agente autonomo di trasformazione. In genere, comunque, la storia dell’uomo è principalmente iscritta sul palinsesto del territorio. Il maggiore o minore dinamismo di una comunità si riverbera direttamente su di esso, e di conseguenza sul paesaggio e sull’ambiente.
La dialettica continua tra conservazione e innovazione
Gli effetti di queste trasformazioni sono sempre problematici, perché scaturiscono dalla difficile dialettica tra permanenza e divenire che è connaturata nella vita stessa di ogni comunità. Come per il territorio, anche il paesaggio non può sottrarsi a tale dialettica, in cui, per lo più, è sempre prevalente il desiderio di permanenza e conservazione, in nome della continuità della storia e/o della paura del futuro. La percezione dei temi ambientali segue, invece, una logica diversa, ambivalente, dinamica all’apparenza perché critica del presente, ma nello stesso tempo spesso fortemente attratta dalle condizioni del passato che sono alternative rispetto alla cultura che il presente va elaborando verso il futuro.
Di rado la dialettica tra permanenza e divenire si risolve in una sintesi realistica e responsabile. In genere dà vita, invece, a due ideologie in apparenza inconciliabili. Ciò vale per il paesaggio, come pure per il territorio.
I fautori della permanenza considerano il paesaggio un valore da tutelare. Se non proprio intangibile, lo considerano, certo, un valore da non modificare in modo sostanziale, ammettendo solo interventi opportunamente mimetici, così da non alterare in modo significativo lo status quo. La necessità della conservazione risiede nel riconoscimento non solo delle valenze estetiche del paesaggio, ma anche di quelle storiche, in quanto – scrive Settis – esso è l’esito di un processo di formazione di valori civili, e il
«garante della vita associata, [e il] filo conduttore di secolari esperienze non solo dei nobili e dei dotti, ma di tutti, generazione dopo generazione» [7].
La comunità si rispecchia nel paesaggio, ovvero nella sua storia, da cui può trarre forza morale per affrontare insieme il presente e il futuro. Il riconoscimento di questi valori estetici e storici – il paesaggio estetizzato – è, però, appannaggio inevitabile di un’élite colta e sensibile. Solo una volta educato a tali valori, il pubblico più ampio è capace di riconoscerli e apprezzarli.
I fautori del divenire sono, invece, coloro i quali aborrono il paesaggio estetizzato, considerato più o meno come un dipinto immobile e, dunque, un feticcio culturalmente arcaico, che pretende di ibernare il presente, arrestando il corso della storia. Sono convinti che sia impossibile conservarlo e, forse, nemmeno desiderabile.
«Meglio assecondarne le modificazioni (lo “sviluppo”)» commenta Settis con sarcasmo, «mettendo a fuoco nuove categorie estetiche per i paesaggi delle autostrade, dei suburbi, delle fabbriche in rovina e così via» [8].
Invero, la contrapposizione tra le due ideologie si stempera e si confonde nei comportamenti dei rispettivi sostenitori. Ciò dipende anche da equivoci diffusi e molta ipocrisia.
I conservatori del paesaggio estetizzato riconoscono l’impossibilità di arrestare il flusso delle trasformazioni. Anche il Bel Paese d’un tempo – scrive Settis –
«non era immobile, cambiava anzi ogni giorno, ogni ora: ma cambiava sotto quello sguardo vigile e inconsapevolmente amoroso; cambiava piano, cambiava con cura. Come se ognuno, dal contadino al principe, sapesse egualmente bene che nessuna torre mai dev’essere più alta di quella del Comune (o del duomo), che nessun folto di ulivi dev’esser mai spianato. Che nessuna veduta dev’essere alterata o turbata senza misura e senza ragione, cioè senza pensarne e crearne una migliore; che mai lo sguardo deve posarsi su una bruttura» [9].
L’autore si spinge anche ad affermare che
«fino a tutto l’Ottocento, (quasi) nessuno che costruisse qualcosa sbagliava (quasi) mai, e una stessa idea di dignità e appropriatezza si incarnava nella casa e nel palazzo, nella cattedrale e nella cappella sperduta nel bosco» [10].
In realtà, un’ampia documentazione, diretta e indiretta, dal tardo medioevo sino all’industrializzazione ottocentesca, testimonia un quadro assai differente. Se oggi non riscontriamo più i paesaggi urbani degradati del passato (che pur ci furono e abbondanti) o le terre un tempo comuni, saccheggiate da usi promiscui, ciò è dovuto in gran parte ai disastri naturali o prodotti dagli uomini che hanno provveduto a comminare la più efficace damnatio memoriae su tutto quanto era fragile, meno aulico e degno di essere difeso; oppure è dovuto alla stessa modernità che in nome dell’igiene o della pace sociale ha provveduto a cancellare quelle tracce. Quel che è rimasto è solo la parte nobile del paesaggio storico, depurata dalle sue brutture. Ecco come si è venuto a formare, per lo più, quel che oggi identifichiamo come il paesaggio estetizzato [11].
Anche l’idea di paesaggio, quale testimonianza storica di un processo di formazione di valori civili, che con molta enfasi si invita a riconoscere quasi in modo sacro, dovrebbe essere un po’ mitigata, se consideriamo il fatto che il bel paesaggio agrario “all’italiana”, su cui Emilio Sereni ha lasciato pagine indimenticabili, e in particolare quello della mezzadria centro-italiana, deve gran parte della sua bellezza a condizioni di vita penosissime per i contadini, prossime alla schiavitù [12]. Occupandomi di storia, avverto sempre un certo disagio di fronte alla purificazione e santificazione estetica e morale di realtà storiche ben più drammatiche, di cui vediamo oggi solo l’eventuale bella veste esteriore.
Anche i “realisti” del paesaggio, ovvero, i sostenitori del partito dello sviluppo “senza se e senza ma”, generalmente privi di scrupoli nell’ammettere trasformazioni in base alle necessità del momento, riconoscono in alcuni casi che il paesaggio non debba essere considerato una tabula rasa su cui iscrivere di volta in volta le mutevoli ragioni della modernità (peraltro, spesso difficilmente distinguibili dagli interessi privati).
Gli “esteti”, dunque, ammettono anche le trasformazioni, seppure per lo più a carattere mimetico, e i “realisti” riconoscono anche le ragioni della tutela, seppure in alcuni casi particolari. Entrambi, comunque, sembrano spesso apprezzare il bel paesaggio, quando si tratta di porsi in prima fila davanti a esso con la propria residenza. Che poi accada, come scriveva il Manzoni all’arrivo del cancelliere Antonio Ferrer, che
«alzandosi tutti, vedevano né più né meno che se fossero stati tutti colle piante in terra»[13],
è, metaforicamente parlando, tutt’altra questione.
Certo, si tratta di comportamenti equivoci, che non intaccano la dignità teorica delle due ideologie, conservatrice e innovativa. Anche se, comunque, mi sembra poco credibile il grande rigore e il fanatismo morale dimostrato da molti a favore dell’una o dell’altra ideologia, quando accompagnate da politiche poco conseguenti: i difensori del paesaggio che lo occupano per loro interesse, e gli innovatori senza scrupolo che si fanno difensori del “loro” paesaggio privatizzato.
Élite vs. popolazione: chi riconosce il paesaggio?
Un altro tema che vede contrapposte le due ideologie, quella della conservazione e dell’innovazione, riguarda i soggetti che sono implicati nel riconoscimento del paesaggio e della sua gestione.
Come già ricordato, nella Convenzione europea del 2000 il paesaggio è definito «una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni». La versione inglese del testo usa il termine “people”, gente, popolazione. Quella francese è analoga al corrispettivo italiano.
Settis nota in questa formulazione un’altra palese contraddizione:
«fra la cieca fiducia nella “percezione delle popolazioni” come criterio unico nella definizione del paesaggio (art. 1) e la ribadita necessità di educare quelle medesime popolazioni precisamente ai valori del paesaggio (art. 6)» [14].
L’osservazione è singolare, perché mi sembra che anche gli educatori, di cui si parla, e che dovrebbero coincidere con l’élite di esteti e colti aristocratici della cultura, chiamati, appunto, a riconoscere e trasmettere i valori a chi colto non è, fanno parte a pieno titolo della popolazione. O no? Se ciò non fosse, non vedo a quale titolo quell’élite dovrebbe imporre i valori, da lei riconosciuti, a un’altra classe di uomini – la popolazione – ai quali tali valori sono estranei per definizione.
Mi sembra, invece, che la Convenzione europea abbia, giustamente, indicato l’intera popolazione quale artefice del riconoscimento percettivo del paesaggio, in quanto valore appartenente a tutti senza distinzioni sociali, economiche e culturali. Proprio il carattere democratico di tale riconoscimento è garanzia del comune sentire il paesaggio quale valore davvero collettivo. È ovvio che il processo del riconoscimento sia sempre dialettico. Gli uomini più colti e sensibili, e non necessariamente appartenenti a un’élite culturale, saranno, forse, i primi a indicare le qualità valoriali di un paesaggio, ma solo quando tali qualità saranno percepite e riconosciute da tutti, élite culturali comprese, o quanto meno da una larga parte della popolazione, esse diverranno un patrimonio condiviso.
Luci e ombre della nostalgia del paesaggio
Il tema del soggetto collettivo – la popolazione – cui, secondo la Convenzione europea, spetta il compito di riconoscere percettivamente la natura del paesaggio, è strettamente connesso ai motivi per i quali ho intitolato questo intervento, “Paesaggio: tra nostalgia e responsabilità”.
La nostalgia è un sentimento che collega il presente al passato, sia quello vissuto realmente sia quello solo immaginato. È uno strumento potente, ma anche ambivalente. Può essere conservatore quando, non contribuendo all’elaborazione dei valori verso cui il presente si sta indirizzando, mira principalmente a cristallizzare il passato, vissuto o immaginato che sia. È rivoluzionario, invece, quando è portatore di valori del passato, per lo più immaginato, capaci di dare sostanza e significato ai tempi che si stanno annunciando, come fu per l’Umanesimo e il Rinascimento.
Francesco Petrarca, iniziatore dell’età nuova, soffriva di struggente nostalgia. Nell’epistola Posteritati scriveva:
«Tra le tante attività, mi dedicai singolarmente a conoscere il mondo antico, giacché questa età presente a me è sempre dispiaciuta, tanto che se l’affetto per i miei cari non mi indirizzasse diversamente, sempre avrei preferito d’esser nato in qualunque altra età; e questa mi sono sforzato di dimenticarla, sempre inserendomi spiritualmente in altre» [15].
Anche Nicolò Machiavelli soffriva acutamente di quella sindrome. Nella Lettera a Francesco Vettori in Roma del 10 dicembre 1513 narrava che:
«venuta la sera, ritorno in casa ed entro nel mio studio, e sull’uscio mi spoglio di quella veste quotidiana e plebea, piena di fango e melma, e mi vesto di panni reali e curiali; e rivestito decentemente entro nelle antiche corti degli antichi uomini, nelle quali, ricevuto amorevolmente da loro, mi nutro di quel cibo, il solo che fa per me e per il quale io son nato; e in quelle corti non mi vergogno di parlare con essi e chiedere la ragione delle loro azioni; e quelli, per la loro umanità, mi rispondono; e per quattro ore non sento alcuna noia; dimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi turba la morte» [16].
La nostalgia, che è sentita oggi per lo più, sembra, invece, soprattutto di natura conservativa, e talvolta anche reazionaria, quando pretende di riportare indietro le lancette dell’orologio a un tempo mitizzato, negatore anche dei benefici collettivi che la modernità ha portato con sé e ai quali pure i critici più aspri sono, peraltro, poco disposti a rinunciare.
In una certa misura, comunque, la nostalgia conservatrice (non certo quella reazionaria) presenta anche una sua utilità. Se non altro perché costringe a riflettere sulle conseguenze dell’innovazione, non sempre positive per la compagine naturale, culturale e sociale di un paese, anche coloro i quali con un certo fanatismo alla dott. Andrew Ure – il «Pindaro del sistema di fabbrica» ridicolizzato da Karl Marx[17] ne Il capitale – tendono ad affrontarle con un entusiasmo un po’ troppo incosciente.
In ogni modo, il dosaggio della nostalgia deve esser sempre attentamente controllato. Troppa nostalgia paralizza la vita presente a livello psicologico; crea turbe nervose, disadattamento e altre sindromi pericolose. Insomma, per tutti coloro che non riescono a rinunciarvi, essa deve essere sempre consumata in modica quantità e per esclusivo uso personale. Diversamente, può risultare molto pericolosa per gli individui e la comunità.
Applicata al paesaggio, una modica quantità di nostalgia può supplire, ad esempio, alla mancanza di sensibilità e capacità progettuali, purtroppo piuttosto diffuse. Suggerisce prudenza nell’operare, adeguandosi il più possibile ai quadri morfologici esistenti per non sbagliare, e talvolta anche con la non entusiasmante mimesi del nuovo con l’antico. È un comportamento sostanzialmente analogo a quello intimato dal Duca all’architetto nel Trattato di architettura del Filarete davanti al disegno di una soluzione progettuale presentatagli:
«Falla proprio a questo modo [la forma]. Se meglio si può fare, fa’ che si facci; se non, fa’ che non stia peggio, ché io t’aviso, ch’io terrò questo disegno appresso di me»[18].
In altre parole: se non si è certi di poter migliorare il paesaggio esistente (o anche il disegno di progetto appena presentato), è sempre meglio adottare la soluzione più vicina allo status quo, a quanto è già accettato dalla comunità (o dal committente).
A questo punto sorge spontanea la domanda: ma chi è chiamato a stabilire la congruità di un nuovo intervento con il paesaggio esistente? Non solo gli “esteti”, ma anche i “realisti” del paesaggio non possono non riconoscere (seppure questi ultimi talora a denti stretti) che l’innovazione debba essere necessariamente vagliata da un qualche organo collettivo che garantisca l’integrità, la compiutezza, la riconoscibilità del paesaggio coinvolto dal nuovo, di carattere sia conservativo sia innovativo. E veniamo, dunque, all’altro tema della “responsabilità”.
A chi spetta la responsabilità del paesaggio?
Oggi è di moda parlare di etica e responsabilità. Mi trovo un po’ a disagio a toccare questi argomenti. Come storico ho imparato che, quando evocati in pubblico a gran voce, questi valori sono spesso forieri di molte nefandezze, come se si snaturassero nel loro esatto contrario una volta – per così dire – “esternalizzati” dalla coscienza di ciascuno. Se le comuni norme di convivenza e la censura legale sono incapaci di contenere i comportamenti devianti, non è, certo, l’invocazione pubblica di etica e responsabilità a risolvere la situazione.
Mi sono deciso, comunque, a utilizzare il termine “responsabilità” in un dibattito sul paesaggio, non per sollecitare un’ennesima geremiade collettiva contro l’irresponsabilità dei vandali del territorio, né contro quella del silenzio-assenso di gran parte dell’opinione pubblica di fronte al sacco del territorio, la quale, forse più che prostrata dall’impotenza di poter arrestare questo stato di cose, sembra nauseata da un gioco delle parti fra tutti gli attori, simile a quello dei dibattiti televisivi dove tutti imprecano gli uni contro gli altri e poi finiscono sempre a cena insieme. Mi preme, invece, riflettere soprattutto sulla natura della “responsabilità” dei controllori del paesaggio, chiamati a stabilire la congruità o l’accettabilità di un nuovo intervento, dato per scontato che, sin quando esisterà l’uomo, esisteranno sempre i comportamenti devianti rispetto ai codici condivisi dalla comunità.
Il punto è che sul piano della cultura visiva e percettiva – e non solo in quelli – i codici condivisi sono in perenne evoluzione. Douglass North, premio Nobel per l’economia nel 1993, affermava con efficacia:
«La nostra azione nasce all’interno di un insieme limitato di scelte ideologicamente accettabili, le quali si modificano nel tempo. Non era più possibile per Herbert Hoover nel 1931 fare massicci pagamenti ai disoccupati che per un cinema di quell’epoca proiettare Gola profonda. La morale, l’etica e i valori nella linea di condotta pubblica – e nella pornografia – cambiano» [19].
La “fabbriche sataniche”, di cui parlava Francis Donald Klingender nel 1947 e i paesaggi dell’ingegneria britannica erano stati trasfigurati, nella mutata sensibilità del pubblico più ampio, in fantastiche visioni del “sublime” burkeiano sotto la mano di artisti inglesi come Joseph Mallord William Turner, Joseph Wright, John Martin, John Cooke Bourne, James Sharples, William Bell Scott, Eyre Crowe [20]. Il gigantismo, l’abitudine, il tempo e altri ancora sono tutti agenti di trasformazione della sensibilità collettiva.
La Tour Eiffel – immenso pilone metallico da viadotto ferroviario – considerata all’inizio del 1887, a cantiere non ancora ultimato, «il disonore di Parigi» da pittori, scultori, architetti e appassionati amanti della bellezza della capitale di Francia come, tra gli altri, Meissonnier, Gounod, Garnier, Sardou, Leconte de Lisle, Maupassant, Zola, è diventata col tempo il simbolo della città, grazie al fatto che Eiffel era riuscito a evitarne fortunosamente la prevista demolizione dopo l’Esposizione Universale del 1889 [21].
Il Crystal Palace in Hyde Park a Londra, visitato da 6 milioni di visitatori entusiasti, ma sprezzantemente definito «… nient’altro che una grande serra» da John Ruskin (uno dei padri putativi della modernità architettonica) e da Augustus Welby Pugin un «mostro di vetro», «un’impostura di cristallo», e «il più mostruoso oggetto mai immaginato», fu smontato alla fine della prima Esposizione Universale del 1851, ma rimontato con modifiche e ampliamenti nel 1854 a Sydenham Hill, nella parte sud della Greater London, dove rimase una grande attrattiva popolare sino alla sua definitiva distruzione nell’incendio del 30 novembre 1936 [22]. Per la storia dell’architettura il Crystal Palace è oggi una pietra miliare per l’avvento della modernità.
E in un ottica, certamente più ristretta, anche l’Altare della Patria a Roma, il Vittoriano di Giuseppe Sacconi, gigantesca “torta nunziale” o, se preferiamo, immensa “macchina da scrivere” in marmo, che aveva manomesso irreparabilmente uno degli angoli più sacri e splendidi della capitale, ricevendo per questo la quasi unanime esecrazione da tutti gli uomini di cultura, finirà per essere non solo assolto, ma addirittura promosso al rango di testimonianza storica e artistica da tutelare nel pubblico processo tenutosi a Palazzo Venezia a Roma, il 27 gennaio 1986 [23].
Il gusto cambia, i costumi si evolvono, le preferenze e le concezioni estetiche si modificano. Siamo stati capaci addirittura di estetizzare, e quindi di dare un significato e apprezzare, l’edificio diroccato, la rovina, il pezzo di pietra sbrecciato, riconoscendo in essi valori estetici dove gli uomini antichi vedevano solo disordine – o l’esito obbrobrioso di una guerra, di una lotta, di un colpevole errore costruttivo o anche solo della vetustà – che esigeva rinnovamento, il fare nuovo, esattamente come noi oggi vediamo un vecchio edificio in cemento armato diroccato: un qualcosa da abbattere e ricostruire. Non siamo ancora giunti a estetizzare anche le rovine cementizie d’epoca moderna, ma non è escluso che vi si arrivi presto. Il cinema sta già lavorando in quella direzione.
Da queste considerazioni si potrebbe concludere che tutto è relativo: il tempo sana le ferite, modifica i nostri gusti e tutto si trasforma. È, dunque, vano pensare a categorie estetiche stabili nel tempo, soprattutto nel caso delle società più calde e con maggiore entropia – direbbe Claude Lévi-Strauss [24] – ossia più propense al cambiamento, e attraversate da un continuo flusso di piccole e grandi trasformazioni che ne modificano l’immagine, come sono le nostre. In tale situazione, come possono agire responsabilmente coloro i quali sono chiamati a tutelare, difendere, salvaguardare il paesaggio in cui viviamo? A quali immagini del paesaggio devono riferirsi, quando è assai probabile che già domani saranno diverse da oggi?
Le normative, in genere, si limitano a definire un quadro procedurale di riferimento, indicando i soggetti preposti alla tutela. C’è l’amministrazione centrale dello Stato attraverso le soprintendenze, e le amministrazioni regionali attraverso le sub-delegate commissioni di specialisti del paesaggio a livello provinciale e comunale. In alcuni casi particolari ed eccezionali, le normative si spingono anche a definire i contenuti paesaggistici da tutelare in modo vincolante. Ci sarebbe molto da dire su quest’ultimo punto riguardo al rapporto tra vincolo e qualità architettonica e paesaggistica, ma il discorso ci porterebbe lontano.
Ora mi preme, invece, di porre l’accento sul problema dei criteri, non normati, con i quali i tecnici delle commissioni per il paesaggio assumono i provvedimenti necessari alla tutela del paesaggio stesso. Il compito è gravoso e di grande responsabilità, perché ha incidenza immediata sul rinnovarsi del paesaggio a scala urbana e territoriale, e sul mondo degli operatori economici. Per inciso vorrei osservare che proprio per la gravosità e grande responsabilità di tale compito, sarebbe opportuno che tutti i soggetti incaricati di tutela fossero sempre di natura collegiale, piuttosto che monocratica, così da garantire un maggiore equilibrio nelle valutazioni attraverso il confronto di più specialisti. Anche questo tema è del massimo interesse, ma non c’è tempo per svilupparlo.
Le commissioni per il paesaggio: un’esperienza milanese
In assenza di criteri normati sui contenuti paesaggistici da tutelare, sono le stesse commissioni del paesaggio a doverseli dare autonomamente. A tale proposito può essere utile riferire alcuni aspetti della mia esperienza come membro della prima Commissione per il paesaggio del Comune di Milano, istituita nel novembre 2009 sotto la presidenza di Pierluigi Nicolin. Siccome solo per i ristretti ambiti direttamente vincolati erano stati definiti i criteri di tutela, sin dall’inizio, sotto l’impulso del nostro presidente, abbiamo ritenuto indispensabile fornirci di linee guida condivise, per procedere con coerenza e uniformità nella valutazione dei progetti. Dopo i primi mesi di discussioni e di verifiche continue sul corpo vivo delle trasformazioni urbane, abbiamo stilato il 4 febbraio 2010 un nostro “Manifesto degli indirizzi e delle linee guida della Commissione per il Paesaggio”, poi pubblicato sul sito del Comune di Milano e presentato in un incontro pubblico all’Urban Center. Esso mirava a rendere trasparenti i nostri criteri di valutazione davanti alla città e ai progettisti, e, non ultimo, a iniziare un dibattito aperto sui contenuti della nostra azione pubblica. Che io sappia, è la prima esperienza del genere realizzata in Italia.
Per brevità mi limito a riassumere gli obiettivi generali del nostro Manifesto in un semplice slogan: conservazione in urbanistica e progressismo in architettura (ferma restando la misura precauzionale suggerita dal Filarete). Vuol dire che la città dovrebbe conservare ed eventualmente recuperare le sue consuete e caratteristiche articolazioni urbanistiche (la strada, l’isolato, il giardino, ecc.), affinché il suo paesaggio sia sempre riconoscibile, mentre l’architettura dovrebbe mirare al miglioramento dell’immagine urbana in termini di bellezza e modernità, qualità e decoro, e – si auspica – senza nostalgie passatiste. Naturalmente, il Manifesto è assai più articolato di questa sintesi assai scarna, entrando nel merito degli specifici ambiti di intervento (spazio pubblico, edifici singoli, complessi di più edifici e contesti storici), ma non è di questo che intendo parlare.
È, invece, il senso della nostra operazione che merita un qualche commento. Nel Manifesto abbiamo espresso i nostri personali convincimenti di specialisti sull’architettura, la città e il paesaggio, e di conoscitori di Milano. Oggi tali convincimenti hanno autorità sullo sviluppo della città non in virtù di una loro ampia condivisione da parte dei cittadini, ma per forza di legge. Dopo un anno e mezzo di attività, almeno una parte della nostra Commissione comincia ad avvertire con disagio l’isolamento in cui versa la nostra azione pubblica. Ciò non deriva da una particolare diffidenza della città e degli operatori verso di noi. Anzi, da questo punto di vista, stando alla notevole riduzione in termini relativi e assoluti dei pareri sfavorevoli della Commissione sui progetti presentati, sembra che buona parte della classe professionale e degli operatori economici, e solo parzialmente degli uffici dell’amministrazione pubblica, abbia recepito positivamente il nostro approccio al tema del paesaggio urbano. Resta, però, il problema se l’appeasement raggiunto sia frutto di una reale condivisione dell’immagine del paesaggio urbano che la Commissione ha promosso, o non piuttosto di un opportunismo strumentale da parte della classe professionale, imprenditoriale e amministrativa: adeguarsi per passare in fretta il vaglio della Commissione. La nostra impressione prevalente vira al pessimismo, cioè all’adeguamento opportunistico per evitare perdita di tempo. Di qui l’interrogativo: può la città delegare a un gruppo di undici esperti non dico il potere valutativo sui processi di trasformazione del suo paesaggio – il che è legittimo –, ma i criteri stessi di valutazione di quei processi? In altre parole: la trasformazione del paesaggio urbano, che per definizione appartiene a tutti i cittadini, può essere materia esclusiva di esperti o non piuttosto della comunità urbana attraverso tutti gli attori della poliarchia contemporanea, cioè, come scrive Giulio Sapelli,
«la rappresentanza territoriale elettiva, parlamentare, e i poteri situazionali di fatto attivi nella società civile hegelianamente intesa, e quindi fondati sulla proprietà privata e sulle relazioni tra i proprietari» [25]:
in una parola, attraverso la politica?
È molto diffusa l’opinione che in materia di paesaggio debba operare esclusivamente un’aristocrazia tecnico-culturale. La ragione – scrive Salvatore Settis – è che, siccome tutti i cittadini sono portatori di interessi e, dunque, sono potenzialmente inclini a comportamenti devianti, anche la
«“discrezionalità amministrativa” [ovvero la dimensione politica dell’azione pubblica] troppo spesso subordina i valori del paesaggio a trattative negoziali con “tutti gli interessi in gioco”, compresi quelli della speculazione mascherata da “sviluppo” e del basso clientelismo etichettato come “politica”» [26].
Non mi è molto chiaro il motivo per cui solo il tecnico esperto sia portatore sano d’interessi pubblici senza ombra alcuna di quelli privati, anche in buona fede – s’intende – e sotto veste tecnico-culturale. E inoltre faccio fatica a concepire la natura fantasmatica di una comunità senza cittadini, amministratori e politici, perché pericolosi auto-lesionisti, che si sostanza e assume realtà solo nel mondo ideale concepito dagli uomini di cultura i quali, ovviamente, si considerano depositari di ciò che è giusto e salutare per tutti.
Avverto un forte disagio per questa ideologia, che con linguaggio d’antan definirei “anti-democratica”, pur consapevole della complessa natura poliarchica della nostra società. Ma non vedo alternative realistiche a questo stato di cose, poiché constato un assordante silenzio della politica al riguardo. Credo che il limitarsi a definire procedure e delegare autorità da parte dell’amministrazione della cosa pubblica non sia più sufficiente per i commissari delegati al paesaggio e, in definitiva, anche per la città stessa. Eppure, è facile constatare che per molti, questo tema continua a essere argomento specialistico e po’ esotico, ai margini dei grandi problemi della società. Non è ancora percepito il fatto che esso è in sostanza nient’altro che l’esito finale, visibile da tutti, di ogni processo vitale della società. Nel paesaggio si materializzano, cristallizzandosi, le scelte economiche e sociali, gli sviluppi tecnologici e culturali di ogni comunità e in ogni tempo. Un’astratta gestione autonoma del paesaggio, affidata anche a esperti di grande valore, ribalta l’ordine naturale delle cose – dal paesaggio alla società e non viceversa –, e può comportare conseguenze anche indesiderate sulla vita economica e sociale delle comunità. Un paesaggio sano, vitale e bello, memoria della storia di una comunità in continua evoluzione, è la testimonianza più immediata e fede-degna del buon stato di salute culturale, economica e sociale della comunità stessa.
Che il paesaggio non sia solo tema di esteti nella società contemporanea, lo testimonia, ad esempio, – mi ha ricordato Pierluigi Nicolin – la London School of Economics dove Ricky Burdett tiene un corso proprio su questi temi e dirige il centro internazionale di ricerca e formazione sulla città – LSE Cities – il cui slogan è «In cities, good design is social»: la qualità estetica del progetto e del paesaggio ha valore anche sociale ed economico; un bel paesaggio è una risorsa economica, sociale e culturale di inestimabile valore. Per tali ragioni, credo che il paesaggio debba diventare uno dei temi più sensibili per la politica e la comunità contemporanea, sul quale si giocherà il nostro futuro. Come esperti, siamo pronti a fare la nostra parte, ma anche la politica deve fare un passo avanti in questa direzione.
[1] Salvatore Settis, Paesaggio Costituzione Cemento. La battaglia per l’ambiente contro il degrado Civile. Torino: Einaudi, 2010.
[2] Ibid., p. 259.
[3] Ibid., pp. 255-256.
[4] Ibid., p. 270.
[5] Cit. in Ibid., p. 69.
[6] Ibid., p. 49.
[7] Ibid., p. 48.
[8] Ibid., p. 47.
[9] Ibid., p. 69.
[10] Ibid., p. 53.
[11] Basti qui sfogliare, ad esempio, il volumetto di Gina Fasoli e Francesca Bocchi, La città medievale italiana. Firenze: Sansoni, 1973, e la sua piccola antologia documentaria per farsi un’idea della qualità del paesaggio urbano italiano nell’età di mezzo.
[12] Emilio Sereni, Storia del paesaggio agrario italiano [19611]. Roma-Bari: Laterza, 19742. Vedi anche Henry Desplanques, “Le case della mezzadria”, in Giuseppe Barbieri, Lucio Gambi (a cura di), La casa rurale in Italia. Firenze: Leo S. Olschki, 1970,pp. 189-216.
[13] Alessandro Manzoni, I promessi sposi. Storia milanese del sec. XVII scoperta e rifatta da Alessandro Manzoni. Edizione diligentemente eseguita su quella dell’autore del 1825. Firenze: All’Insegna di Dante, 1833, vol. I, p. 320
[14] Salvatore Settis, op. cit., p. 257.
[15] «Incubui unice, inter multa, ad notitiam vetustatis, quoniam michi semper etas ista displicuit; ut, nisi me amor carorum in diversum traheret, qualibet etate natus esse semper optaverim, et hand oblivisci, nisus animo me aliis semper inserere». Francesco Petrarca, Ai Posteri [Posteritati] (prima del 1367 e successivi), in A. Asor Rosa, A. Del Monte, V. Pernicone, G. Petronio, S. Romagnoli, C. Salinari (a cura di), Antologia della Letteratura italiana, diretta da Maurizio Vitale. 1. Il Duecento e il Trecento. Milano: Rizzoli, 1965, pp. 604-605.
[16] Niccolò Machiavelli, Tutte le Opere, a cura di Mario Martelli. Firenze: Sansoni, 1971, p. 1160.
[17] Karl Marx, Il capitale [Hamburg: Otto Meissner, 1867]. Roma: Editori Riuniti, 1964, I, p. 463.
[18] Antonio Averlino detto il Filarete, Trattato di Architettura, a cura di Anna Maria Finoli e Liliana Grassi. Milano: Il Polifilo, 1972, vol. 1, Libro X, f. 73 v.
[19] Douglas C. North, “Comment” (discussione degli articoli di D.N. McCloskey, “The Achievements of the Cliometric School”, pp. 12-38; J.S.Cohen, “The Achievements of the Economic History: The Marxists School”, pp. 39-57; R. Forster, “Achievements of the Annales School”, pp. 58-76), in The Journal of Economic History, XXXVIII, 1978, pp. 77-80, e in particolare pp. 78-79.
[20] Vedi Francis Donald Klingender, Arte e rivoluzione industriale [1968]. Torino: Einaudi, 1972, pp. 116-144.
[21] Vedi Leonardo Benevolo, Storia dell’architettura moderna. Bari: Laterza, 19601, 19714, pp. 154-158.
[22] Aldo Castellano, La costruzione moderna. Milano: L’Arca Edizioni, 1988, pp. 208-213.
[23] Nel “Processo al Vittoriano” del 27 gennaio 1986 l’accusa era sostenuta da Bruno Zevi e Giovanni Klaus Koenig (passato nel corso del dibattimento alla difesa) e la difesa era rappresentata da Paolo Portoghesi e Claudia Conforti. Il processo finì con l’assoluzione del monumento. Vedi il Processo all’Altare della Patria. Napoli: Medusa Editrice, 2011, che ripubblica il resoconto del dibattimento, redatto da Koenig e già edito in Ottagono, giugno 1986.
[24] Claude Lévi-Strauss, Race et Histoire. Paris: Unesco, 1952; trad. it. in Id., Razza e Storia e altri studi di antropologia, a cura di Paolo Caruso. Torino: Einaudi, 1967, pp. 99-144, passim.
[25] Giulio Sapelli, Un raccolto apocalittico. Dall’economia all’antropologia. Milano: Bruno Mondadori, 2011, p. 143.
[26] Salvatore Settis, op. cit., pp. 268-269.
