Paniscia e champagne

UCTAT Newsletter n.66 – aprile 2024

di Matteo Gambaro

La “paniscia” è un risotto cucinato con fagioli, verdure e le cotiche del maiale, un piatto povero, nata probabilmente nel XVI secolo, è stata a lungo il pranzo domenicale (piatto unico) dei contadini e delle persone meno abbienti. Un dei tre piatti tipici della tradizione popolare novarese, come ci ricorda Vassalli, con il “salam dla duja” (salame conservato sotto grasso nel doglio di terracotta) e il gorgonzola[1]. Cibi sostanziosi per chi era abituato a svolgere lavori faticosi nei campi.

Ricordo come se fosse ieri la cena al bistrot del Circolo dei Lettori di Novara con Italo Rota. L’avevo invitato, nell’ambito di un ciclo dedicato ad “Architettura, città e paesaggio” organizzato con il Circolo e l’Ordine degli Architetti, per un dialogo incentrato sulla sua pubblicazione intitolata “Una storia elettrica”[2]. Un libro che racconta delle sue recenti esperienze progettuali ed in particolare incentrato sul tema dell’energia interpretato nell’accezione più ampia, il cui titolo cita esplicitamente le “Poesie elettriche” di Corrado Govoni del 1911, con l’intento di tenersi lontano, peraltro come ha fatto per tutta la vita, dai luoghi comuni del “funzionalismo ingenuo che la letteratura – la retorica – sulla sostenibilità e sull’ecologia continuano a proporre senza sosta”.

Al termine della manifestazione siamo andati a cena al bistrot del Circolo, ospitato nei locali al piano terra del Broletto medioevale della città. Era una sera infrasettimanale e il locale poco affollato, così abbiamo potuto chiacchierare con molto piacere fino a tarda ora.

La scelta della paniscia è stata quasi scontata, richiesta da Italo, attento conoscitore delle tradizioni culinarie e appassionato delle peculiarità territoriali. Lo spiazzamento è arrivato quando al mio suggerimento sul vino – ho proposto un rosso delle colline novaresi: Gattinara, Ghemme, Boca, insomma produzione da vitigno Nebbiolo, vini da invecchiamento – ha rilanciato sorridendo, credo divertito per quello che stava per dire, con “uno champagnino francese”. E così è stato: paniscia e champagne.

Durante la cena mi ha spiegato la citazione al poeta Govoni e il messaggio che avrebbe voluto divulgare con il libro, cosa che durante il dialogo si era guardato bene dal fare, mostrando fotografie molto ravvicinate, quasi immersive, di plastici animati e dettagliatissimi e di sue opere realizzate, lasciando sicuramente molti interrogativi nella mente dei presenti.

L’obiettivo era dunque cercare di capire, attraverso un progetto-sperimentazione, se fosse possibile progettare con la natura senza porsi in contrapposizione e alternativa; cercando altresì di esprimere questo nuovo modo di progettare con una rinnovata e inedita poetica espressiva. Un obiettivo non semplice, ancora ampiamente irrisolto. Il libro, rilegato con copertina morbida e dorata con una grande lampadina al centro, è ricco di illustrazioni e di fotografie di Mattia Balsamini, fotografo sperimentale e hi tech, e Giovanni Chiaramonte indispensabili per capire i progetti e le idee di Rota.

Dopo quella sera ho incontrato altre volte Italo nel suo studio di via Bronzetti a Milano. Inizialmente l’ho coinvolto nel comitato scientifico della serie “Architettura” di Interlinea, varata in quel periodo; attività che ha svolto con interesse non facendo mancare suggerimenti e proposte editoriali. Avrebbe voluto scrivere un testo critico sulle modalità di intervento sugli edifici vincolati – erano gli anni in cui stava lavorando al progetto di recupero del Palazzo del Podestà e Palazzo della Ragione a Mantova – proponendo, in modo laico come sempre, un rinnovamento culturale e metodologico che sicuramente avrebbe stimolato e probabilmente anche scatenato il dibattito.

Non credeva più nell’architettura per sempre, cosciente che il ciclo di vita del manufatto fosse destinato ad esaurirsi in tempi prevedibili e poi, se non più adeguabile alla contemporaneità, ad essere sostituito. Era convinto che le giovani generazioni dovessero acquisire la consapevolezza di non sopravvivere più attraverso le rovine.

Gli impegni progettuali lontano da Milano hanno portato a rinviare continuamente la redazione del testo che oggi non potrà essere più scritto.

Ogni incontro era un momento di discussione e scambio di idee più o meno su tutto quello che riguardava l’architettura, e non solo. Ricordo la lucidità e la lungimiranza con cui, sei o sette anni fa, mi raccontò che a suo parere il ciclo delle archistar si stava già esaurendo, incapace di affrontare la complessità della società contemporanea, per lasciare spazio alla collettivizzazione dell’opera di architettura; a gruppi di persone, con distinte competenze, capaci di affrontare e risolvere globalmente i problemi. E di come questo fenomeno fosse destinato a cambiare l’architettura con nuove forme di creatività non ancora immaginabili. Spazzando via astrusi ragionamenti, perlopiù accademici, sull’estetica e sul significato della forma in architettura.

Parlando sempre sottovoce e con garbo esprimeva una rigorosa indipendenza intellettuale, insensibile alle mode e ai condizionamenti, spiazzando l’interlocutore con ragionamenti inaspettati e mai banali, e con una capacità non comune di intuire i cambiamenti.

BE WATER #4 Lo stare in un luogo, come gli animali, qui proprietari dell’ambiente, come gli umani, qui gentili ospiti (Fotofrafia Giovanni Chiaramonte).

[1] Vassalli S., Terra d’acque. Novara, la pianura, il riso, Interlinea, Novara 2005.

[2] Rota I., Una storia elettrica, Quodlibet, Macerata 2014.

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