Partecipazione, capitale sociale, urbanistica

Note in margine al capitale sociale e alla letteratura scientifica

UCTAT Newsletter n.74 – gennaio 2025

di Luca Marescotti

Sulla partecipazione

“In primo luogo che dobbiamo tener conto di diversi tipi di partecipazione politica, con origini e caratteristiche differenti: – l’attività politica professionale; – la partecipazione politica come espressione di posizioni della società civile; – la partecipazione politica come fatto associativo chiuso, più o meno isolato dalle strutture dominanti, e che può essere o movimento organizzato, o – e vedremo cosa vuol dire esattamente – subcultura. In secondo luogo, che se la partecipazione politica riflette non solo un problema di consenso, ma anche di azione collettiva sulla struttura delle disuguaglianze, per politica dobbiamo intendere qualche cosa di più ampio di ciò che si riferisce normalmente al processo elettorale, e in qualche modo di più ampio anche di ciò che si riflette nell’attività dello Stato. Come definire allora più esattamente ciò che è politica e ciò che non è?”[1]

Si dice che le vicende giudiziarie della cosiddetta urbanistica milanese abbiano avuto inizio con le denunce in procura di cittadini, di Comitati di quartiere e della Rete dei comitati della Città Metropolitana di Milano. Quel clamore ha sollecitato un’accelerazione delle mie riflessioni sia sulla partecipazione e sul capitale sociale, sia sull’uso del termine “urbanistica”, che sottintendeva sempre qualche cosa di molto diverso da ciò che pensavo essere la disciplina. Questo mi ha obbligato a un continuo riesame del mio sapere dilatando gli interessi verso zone solitamente in ombra benché non tanto marginali.

Spero che queste note siano di una qualche utilità a qualche giovane studioso.

L’interesse verso la partecipazione si è instradato lungo due filoni strettamente connessi con l’urbanistica, il primo deriva dalla connotazione giuridica italiana dell’urbanistica come processo partecipativo con passaggi obbligati di consultazione, che si concretano in informazioni, osservazioni e opposizioni; il secondo dalle finalità pubbliche, ovvero di interesse generale, di cui è potenzialmente caricata sia tramite gli standard urbanistici per l’equità sociale e per la difesa ambientale, sia con regole di equità tra i proprietari purché nel rispetto degli interessi generali. Dall’applicazione di tali regole mai abolite, e che non è affatto corretto ritenere vecchie e obsolete, deriva l’importanza della visione di insieme garantita dal piano urbanistico, visione nettamente opposta a quella di un processo urbanistico che prende forma giorno per giorno con operazioni l’una indipendente dall’altra tanto che solo alla fine la storia è nota.

Di certo, se il piano esige il controllo delle scelte, la sua assenza sottrae di fatto le scelte dal controllo. Nella storia della legislazione urbanistica italiana, non dimentichiamolo, ricorre in continuazione la battaglia, mai conclusa, tra finalità contrastanti: da una parte una volontà redistributiva e di coesione sociale e dall’altra una volontà liberistica di sostegno al mercato attraverso semplificazioni o, meglio, deregolamentazioni. Le armi di questo scontro sono state per l’una il richiamo alla partecipazione e al controllo e per l’altra il disimpegno in nome dell’intramontabile “lasciate fare, lasciate passare”.

La partecipazione si qualifica come necessità della democrazia per controllare la politica e per promuovere azioni, individuali e sociali; in altre parole, la partecipazione è espressione concreta dei diritti e dei doveri che normano le relazioni tra rappresentati e rappresentanti e tra individui e gruppi sociali e, dunque, non è solo strumento informativo e formativo, ma anche strumento di ascolto e di interpretazione dei bisogni sociali. La delicatezza della dimensione politica richiede di evitare paludose ambiguità; l’individuo deve potersi riconoscersi come cittadino appartenente al corpo sociale, deve poter conoscere i legami con il resto del mondo e deve essere in grado di accedere ai processi decisionali  per poter contribuire attivamente al governare. Il votare si pone come esito di un processo e non come essenza.

Nel 1966 Alessandro Pizzorno riconosceva l’esistenza di quattro tipi di partecipazione, in cui il capitale sociale, benché non sia mai nominato, pare anticipato nel richiamo a due sistemi sociali, il ‘primo di interesse’ e il ‘secondo di solidarietà’:

“I tipi sono quattro e sono fondati sul comporsi delle variazioni del rapporto «azione d’interessi – azione politica» (statuale o di classe) e del rapporto «azione statuale (inserita nei fini dello Stato) – azione extrastatuale (estranea, almeno originariamente, ai fini dello Stato)». (…) I sistemi di solidarietà si contrappongono ai sistemi d’interesse. Questa è una distinzione che possiamo trarre utilizzando – ai nostri fini di studio della partecipazione politica – la lunga storia delle «dicotomie fondamentali» conosciute dal pensiero sociologico: società civile e Stato, società e comunità, solidarietà organica e solidarietà meccanica, agire in vista dello scopo e agire in vista del valore, società profane e società sacre.”[2]

A posteriori: precursori del capitale sociale.

Quello che intuivo essere importante, a mano a mano che andavo più in profondità si rivelava fondamentale, senza contare che le affinità che emergevano tra partecipazione e tra capitale sociale assieme alla difficoltà nel trovare soddisfacenti definizioni: sono ‘oggetti’ strani, forse non sono nemmeno ‘oggetti’; per quanto apparentemente semplici, appena li si indagano teoreticamente o li si applicano essi si rivelano multiformi e sfuggevoli.

Il capitale sociale

“Il fatto, cioè, che il concetto di capitale sociale è un concetto situazionale e dinamico; un concetto, pertanto, che non si riferisce a un «oggetto» specifico, non può essere appiattito in rigide definizioni, ma deve essere interpretato, di volta in volta, in relazione agli attori, ai fini che perseguono, e al contesto in cui agiscono. (…) Il capitale sociale, dunque, non è un «oggetto», una «entità»specifica, identificabile e isolabile, circoscrivibile in una formula, definibile in maniera precisa. È un concetto generale che si concretizza nell’azione creativa degli attori, nella realizzazione di progetti pratici. È un potenziale di risorse che esiste – diviene capitale sociale – solo quando viene attivato per scopi strumentali.”[3]

Il capitale sociale nella sua forma più generale rimanda alla cittadinanza, all’integrazione sociale e politica, alle relazioni tra le persone non più soltanto individui ma gruppi, collettività, comunità e società. Il tema è diventato in pochi decenni un passaggio obbligato della sociologia e dell’economia, come è dimostrato non tanto dalla quantità di contributi, argomento su cui molti autori si dilungano, quanto dall’autorevolezza degli autori. Nella letteratura scientifica, segno del suo recente interesse, ricorre spesso in premessa l’esigenza di evidenziare l’illustre seppur recente genealogia e la pluralità delle visioni e dei contesti e senza mancare di rivelare anche la delicatezza insita quasi per definizione: si costruisce e si conserva difficilmente, si manipola, si circoscrive e si distrugge facilmente.

Il “capitale sociale” nella sua accezione che chiamerò “pubblica” racchiude molti grandi temi, che in un senso o nell’altro rimandano alle forme di governo e ai principi di legittimazione, quindi alla democrazia, alla partecipazione e alla coesione sociale, temi che preludono non solo al rapporto tra città e società, ma anche alla connotazione della società civile, della cittadinanza e del ruolo che assume l’individuo nella società.

Da un punto di vista generale il capitale sociale esiste sotto molte condizioni e indica un raggruppamento sociale fondato sia su relazioni interne al gruppo, sia su quelle esterne tra più gruppi. Alla base della sua formazione stanno fiducia, cooperazione, reciprocità, autorità, gratuità, la cui combinazione non è mai prefissata, né resta uguale nel tempo. La qualità del capitale sociale e del suo impatto sulla ricchezza di un gruppo o sull’intera società dipende dalle finalità più o meno utilitaristiche, quindi delle transazioni interne ed esterne al gruppo, dalla facilitazione di azioni collettive e dalla presenza di comportamenti opportunistici. È facilmente intuibile che, come accade per il capitale economico e per il capitale umano, il capitale sociale possa assumere valori di segno opposto (positivo o negativo; legale o illegale) a seconda di come si rapporti rispetto alla ricchezza o al benessere dell’intera società o ad associazioni organizzate e sistematiche che possono agire nel volontariato sociale oppure rispondere a finalità criminali, mafiose o corruttive. Inoltre, in una visione pubblica e democratica ineriscono altre caratteristiche da cui dipende il suo valore strategico: se è affiancato alla partecipazione, si rivaluta; se è esteso a tutta la società, rafforza la democrazia; se manipolato nel cinismo di un’ottica a breve termine, viene compromesso e svalutato con effetti collaterali sociali disgreganti. L’esasperazione degli scontri tra gruppi politici e la sua mera strumentalizzazione a fine elettorali va a scapito del capitale sociale diffuso: il sistema democratico implode, negli individui, non più cittadini, prevale il senso di impotenza. Si aprono le porte all’autoritarismo.

Quindi, che cosa intendiamo realmente, concretamente, quando invochiamo partecipazione e capitale sociale? Perché parlarne a proposito dell’urbanistica e del futuro della città?

Potrebbe sembrare che si vogliano introdurre nuove complicazioni nell’urbanistica, disciplina già di suo sufficientemente complessa e nello stesso tempo vaga, regolata da un gran numero di leggi così contraddittorie da permettere a ognuno di possedere la propria definizione teorica e operativa. Quindi, perché?

Quando ero ai primi anni di università si diceva che l’approvazione di una legge si rendeva possibile solo nel momento in cui fosse stata recepita nella coscienza sociale, oggi si direbbe ‘condivisa’ intendendo una condivisione attiva, informata e disinteressata. In altre parole, senza capitale sociale non si forma partecipazione, senza di essa la società nel suo insieme non dialoga e perde il controllo del governare: a livello generale non si rendono possibili riforme legislative, a livello locale il piano, quell’idea di piano insito nel nostro sistema giuridico, diviene inutile.

Dunque come indagare il capitale sociale e le sue potenzialità?

Pizzorno suggerisce di spostare l’indagine verso tutti quei meccanismi che operano in maniera differenziata “nella produzione di capitale sociale” e che pertanto generano forme diverse, classificabili in “termini di interesse (di scelta razionale)”, dal massimo valore al valore nullo:

“Siamo così preparati ad affrontare l’ultima categoria di forme di capitale sociale di reciprocità; per il costituirsi delle quali dovremo far ricorso alla nozione di «universalismo». Che però non ci aiuta molto se non riusciamo a precisare i meccanismi dell’agire individuale che sono all’opera in essa. Cosa intendiamo esattamente quando diciamo che la relazione di A con B è potenzialmente utilizzabile come capitale sociale perché si ipotizza che B sia motivato ad aiutare A (o a fare e mantenere promesse, quindi a non defezionare dal rapporto che forma con lui) perché si sente obbligato da qualche principio universalistico? L’ipotesi dovrà escludere qualsiasi forma di interesse, anche immaginario, che pur potevamo considerare presente nei quattro tipi precedenti; e ugualmente escludere ogni situazione in cui possa operare capitale sociale di solidarietà. In altre parole si dice anche che B agisce secondo coscienza.”[4]

L’agire secondo coscienza è un richiamo all’etica, che rimanda ancora una volta alle origini, alla polis, all’indissolubile binomio città e società. Anni dopo e dopo molte anticipazioni e le teorizzazioni degli anni Novanta del secolo scorso di James Coleman, Robert Putnam e Alejandro Portes, il premio Nobel Elinor Ostrom richiama ancora l’attenzione degli economisti e dei sociologi verso il capitale sociale come naturale prosecuzione delle sue indagini sul ruolo economico e sociale delle forme di aggregazione dal basso:

“The reason for this rapid growth of the social capital literature lies in part in the limits of the ‘standard’ approaches to the problems of economic development and political order. Abundant anomalies have accumulated that call for careful e ination of the factors that were left out of earlier theories. The differential political and economic performance across nations and communities, for example, could not be answered satisfactorily without seriously studying the omitted factors: trust and norms of reciprocity, networks and forms of civic engagement, and both formal and informal institutions.
The social capital approach takes these factors seriously as causes of behavior and collective social outcomes. The social capital approach takes these factors seriously as causes of behavior and collective social outcomes.”[5]

E per l’urbanistica?

“Salvare allora Milano dall’abbassamento del senso civico, del rigore amministrativo, delle professionalità: un piano inclinato di sicumere politiche, corporativismi, artate conoscenze.”[6]

Le mie ricerche mosse dalla curiosità di sapere mi hanno spinto nella vasta regione del capitale sociale alla ricerca di quel filo logico che intreccia politica, urbanistica, partecipazione e consenso. Nel capitale sociale i rapporti tra cittadino e politica, tra cittadinanza e partecipazione, si sostanziano; al capitale sociale, spesso senza saperlo, si rivolgono i discorsi politici sull’urbanistica e, ovviamente, se ne fossero consapevoli parlerebbero in altri modi del piano, della città giusta e solidale, della bellezza urbana, del consumo del suolo, del metabolismo urbano, dell’inclusione e sulla coesione sociale, della cooperazione istituzionale, dei bisogni primari dei cittadini e delle imprese, della perequazione o dell’equità tra proprietari.

Forse troverebbero anche il modo di tenere assieme tutti questi argomenti.

Il piano urbanistico è una costruzione politica, che sugli interessi generali disegna il territorio del futuro, per tutti, aperto a tutti; è un discorso rivolto ai cittadini e alle loro necessità sociali ed economiche; per loro, interlocutori principali, sono elaborati disegni e norme, strategie e attività operative; in loro si deve saper promuovere un sentire comune tale da permettere all’esperienza individuale di crescere in una dimensione collettiva. Le azioni devono essere anticipate da informazioni su scopi e interventi, dimostrando nel tempo la corrispondenza tra strategie fisiche e richieste sociali.

La fiducia non è cieca, cerca continue verifiche, vuole controllare se gli interessi particolari rispettano gli interessi generali, se l’attuazione del piano si mantiene interprete e rappresentante fedele di tutti. Le conferme rafforzano nello stesso tempo autorevolezza pubblica e capitale sociale.

Il piano è un patto sociale, ma la città è di tutti? o solo di chi ne possiede una parte?

Spetta alla politica illustrare come le scelte territoriali rispondano alle esigenze sociali; spetta alla politica acquisire l’autorevolezza necessaria per garantire la continuità, anche se questo è proprio il contrario dell’uso comune dei sondaggi. Nell’urbanistica si rispecchia la politica e il piano è una promessa: sulla fiducia si mette in gioco l’autorevolezza; nella continuità della fiducia il capitale sociale emerge come proprietà del sistema sociale. Con l’urbanistica si può consolidare il capitale sociale, ma se sull’urbanistica si mente, se si camuffano obiettivi e risultanti per rendere opache le attività con cui si governa, se alla trasparenza si preferisce la complicatezza delle norme, la discrezionalità degli uffici e la sovrapposizione dei poteri, l’abuso di varianti, si affloscia tutto il processo partecipativo. Se la menzogna è aggravata dall’assenza di valori ‘universalistici’ si rade al suolo fiducia: Cincinnato ritorna all’orto; non dà spiegazioni, né cede a nuovi inganni. Quali promesse potranno mai fargli cambiare idea?

Sfiducia, marginalizzazione, astensionismo, disimpegno o, in altre parole, riflusso nel privato riducono la partecipazione a una prassi d’ufficio. La rottura dei legami tra cittadini, rappresentanze politiche e rappresentanze sindacali si esprime in un malcontento da manifestare nelle urne. Si pensi all’astensionismo, che può avere diverse origini, ma che comunque è legato alla disaffezione rispetto al proprio riferimento politico, giudicato inaffidabile. Forse allora potremmo indagare se il riflusso al privato non sia solo qualunquistico disimpegno, ma tacita protesta per una domanda di partecipazione soffocata.

Segnali chiari, effetti imprevisti.

D’altronde, ecco le colpe dell’urbanistica: richiede molto tempo per le analisi, per sentire i pareri delle parti (tutte) interessate, e ancora di più per fornire la sintesi delle previsioni, delle modalità di intervento, con l’obbligo di coinvolgere nuovamente tutte le parti e di vagliarne le risposte. E ancora non si sono posate le prime pietre che già è cambiato il contesto di quel futuro pensato anni prima. Il tempo diviene nemico quando si ha fretta; quando una legislatura non pare sufficiente; quando si crede che il rimedio sia passare alle politiche, assai più rapide e che, al contrario del piano e delle sue varianti, non hanno troppi vincoli di trasparenza. Questo non è il pianificar facendo, ma un agire tacendo. Forse anche un tradire.

Al centro del discorso di queste note stava la partecipazione nelle sue possibili declinazioni: ostruzionismo al governo, visto come imposizione di volontà estranee; adempimento formale di obblighi di legge, atto burocratico di legittimazione della politica; laboratorio sociale di sollecitazione e confronto tra il governare e l’abitare combinando l’informare e il formare; unione della società civile e della società politica. La partecipazione solo negli ultimi due casi può scambiare i ruoli, permettendo di individuare e formare nuovi attori e  mostrando così un’ulteriore opportunità offerta dal capitale sociale: non massa di manovra, ma cittadinanza attiva per lo sviluppo locale.

C’era proprio bisogno di una legge per imporre una ‘interpretazione autentica’ di un articolo della legge urbanistica, quella del 1942 più volte modificata e integrata, senza mai affrontare seriamente la riforma urbanistica? Una questione di urgenze, dicono. Un vero esempio di rimozione, dico. È vero, quando si scrive o si parla di Milano non si parla solo di un luogo circoscritto, ma dell’intera società. Ecco perché salvare Milano “dall’abbassamento del senso civico, del rigore amministrativo, delle professionalità” diviene allora un imperativo per tutti coloro che ancora credono che il capitale sociale di Milano sia un bene comune:

E ora chiedo: tutto questo non rimanda ancora a trattare l’urbanistica come strumento concreto per dare senso alla bellezza, anzi alla magnificenza civile degli spazi pubblici, in quanto spazi liberi, spazi aperti a tutti?

Nonostante il tempo, il costo e la fatica che richiede?

“The novelty and heuristic power of social capital come from two sources. First, the concept focuses attention on the positive consequences of sociability while putting aside its less attractive features. Second, it places those positive consequences in the framework of a broader discussion of capital and calls attention to how such nonmonetary forms can be important sources of power and influence, like the size of one’s stock holdings or bank account.”[7]

Sulla letteratura scientifica, … se questa è una scienza

“In the early 1980s, the term social capital was deployed in the scholarly literature less than a hundred times a yearnota. This rate began to rise  slowly during the late 1980s but surged dramatically from the late 1990s to the mid-2000s, to the point that in 2008 “social capital” was referred to around 16,000 times (see Figure 1), almost exactly as often as “political parties.”[8]

nota I use http://www.scholar.google.com as the common source for these and subsequent determinations of the frequency with which “social capital” is used in the titles of books, book chapters, and journal articles in any particular year. Whatever methodological inadequacies there may be in this practice (Putnam 1993, for example, would not be included because his book does not have “social capital” in the title), my primary concern is to document broad changes over time, and I assume such inadequacies are time invariant. This is only so for the absolute number of citations reported each year, as clearly the impact of individual papers changes over time. Similar trajectories documenting rapidly rising impact are noted in earlier contributions by Isham et al. (2002, p. 5) and Halpern (2005, p. 9).

Tracciare uno stato dell’arte per offrire un panorama esaustivo delle argomentazioni e delle tesi più significative giusto per dimostrare la significatività e l’originalità delle proprie è reso sempre più difficile dalla crescita pressoché esponenziale della letteratura scientifica, complici le stesse università che hanno imposto nuovi standard retti da un tacito “o pubblichi o muori” alimentando così un ritmo frenetico nel pubblicare su riviste scientifiche. Gli effetti secondari sono difficili da contenere: testi replicati con minime variazioni su più riviste, appesantiti talvolta dall’esagerazione delle firme collettive; nascita di nuovi editori “produttori di carta stampata” (paper mill) piuttosto che di riviste scientifiche. Di fatto la produzione scientifica è diventata un fenomeno globale sempre più abbondante, così rendendo impossibile panoramiche esaustive dello stato delle conoscenze.

Per rimediare la maggior parte degli autori si affida a criteri quantitativi esterni, come il numero di citazioni, il paese, la lingua o l’autorevolezza dell’editore e della testata. Infine, poiché anche questo metodo rischia di essere impraticabile, la tecnologia ha risolto l’incomodo offrendo alla ricerca opachi algoritmi. Con un numero tutto diventa molto oggettivo e la coscienza è salva. Ma non la ricerca, che così viene privata da imprevedibili scoperte.

Ogni ricerca in una data disciplina o in una sua parte inizia dallo stato delle conoscenze, discutendone le diverse opinioni favorevoli e contrarie, mettendo a confronto l’autorevolezza degli autori con la razionalità delle tesi. Prove e testimonianze, verifiche e falsificazioni. Lo strumento principale è il contatto diretto con i testi e con il loro contesto, un metodo che non teme alcun confronto con le tecniche quantitative basate sugli algoritmi che conteggiano ricorrenze e citazioni: solo così, infatti, è possibile interpretare il pensiero di un autore e seguirne il filo logico che a quella formulazione ha contribuito. Solo così la citazione di una frase ha senso.

Così di passo in passo gli studi prima si dilatano per poi riconcentrarsi sull’oggetto iniziale: dal piano urbanistico alla partecipazione, dalle questioni giuridiche alla pianificazione fino al capitale sociale. Il percorso passa attraverso sentieri sconosciuti; inaspettatamente ci si accorge di acquisire nuove conoscenze e di prendere consapevolezza di aspetti, magari un tempo inavvertitamente sfiorati, senza averne colto l’importanza.

Dall’urbanistica alla partecipazione e al capitale sociale traggo un paio di considerazioni che mi paiono strettamente collegate.

La prima considerazione riguarda Jane Jacobs: infatti, tra le origini degli studi sul capitale sociale viene frequentemente ricordato il suo Vita e morte delle grandi città. Saggio sulle metropoli americane del 1961, un testo che ebbe tanta risonanza tra gli urbanisti per la sua critica radicale allo sviluppo omologato delle città americane e al conseguente annichilimento del “vicinato”, essenza della vitalità urbana fondata sulla rete di relazioni, prodromo del capitale sociale. A questo testo Arnaldo Bagnasco attribuisce il primato nell’uso del termine:

“Probabilmente è stata Jane Jacobs (1961, p. 138) a usare per prima il termine capitale sociale. Nei suoi studi sulla crisi delle grandi città americane, la Jacobs sottolinea la perdita di capacità auto-organizzativa della società in quartieri costruiti senza tenere conto di effetti perversi dell’agire economico. L’attenzione ad aspetti informali delle strutture di relazione in società altamente organizzate, riportati all’attenzione in quanto componenti latenti e risorse cruciali del funzionamento della società – in questo senso «capitale sociale» – rimarrà caratteristica della letteratura successiva sull’argomento.”[9]

Jacobs, dunque, un’antropologa studiosa non di civiltà lontane ma della società statunitense arrivava al capitale sociale attratta dall’urbanistica e dall’influenza della forma urbana sulla società, con tesi che allora mi parevano troppo statunitensi, ma che anticipavano il divenire delle città europee, e non solo. Aggiungerei, forse pure suggestioni ma non per amor patrio, che l’idea di comunità sostenuta da Adriano Olivetti assieme a quell’altro suo caposaldo dell’urbanistica, implicitamente si fondava sul mantenimento e sulla promozione di strutture di relazioni non utilitaristiche. Sarebbe interessante che qualcuno approfondisse questi aspetti anche se così esterni all’attuale dominio dell’inglese da parere provinciali, senza dimenticare che furono proprio gli squilibri territoriali e sociali italiani ad attirare l’attenzione dei sociologi statunitensi e da qui l’urbanistica dovrebbe ripartire.

La seconda considerazione riguarda il dominio eccessivo della lingua inglese che tende ad orientare le ricerche internazionali mettendo in ombra i contributi presentati in altre lingue. A questo proposito cito Alejandro Portes e Sokratis M. Koniordos, il primo che lamenta una certa trascuratezza verso Pierre Bourdieu, uno dei fondamentali, e l’altro verso alcuni contributi italiani, tutti testi rilevanti ma non scritti in inglese e rimasti a lato nonostante successive traduzioni:

“Because they were in French, the article did not garner widespread attention in the English-speaking world; nor, for that matter, did the first English translation, concealed in the pages of a text on the sociology of education (Bourdieu 1985).”[10]

“To start with, it is worth mentioning that there are certain very interesting but littleknown Italian critiques that pertain to Putnam’s Making democracy work. Some of these were originally published in the journal Stato e mercato. [Aggiungendo in nota]: “57 (December), 1999 (…) Later on, most of these articles became available in English, but they have not been known widely”[11]

Una semplificazione quindi alquanto strana, scientificamente parlando, tanto più che nel caso italiano la sociologia statunitense impegnata sugli squilibri regionali aveva individuato proprio nell’Italia il principale campo di studio, vero e proprio laboratorio.

Dal punto di vista di un urbanista trovo ancora importante leggere Il capitale sociale: istruzioni per l’uso, in cui sono approfonditi i legami tra capitale sociale, volontarismo, partecipazione e democrazia in tempi di grande trasformazione del capitalismo, delle democrazie e della globalizzazione e delle autocrazie, trasformazioni che si riflettono inevitabilmente nelle trasformazioni locali. Alessandro Pizzorno sottolinea quel tipo di capitale sociale motivato da un “qualche principio universalistico” privo di “qualsiasi forma di interesse, anche immaginario, …[un] capitale sociale di solidarietà…. [Esso] agisce secondo coscienza”, purtroppo così trascurato[12], Fortunata Piselli ne scandaglia la sue essenza situazionale e dinamica, e Carlo Trigilia si chiede come promuoverlo:

“Per cercare una risposta bisogna dunque chiedersi (…) in che modo la politica ne favorisca la trasformazione o meno in risorse positive per lo sviluppo locale. (…) La risposta sembra infatti risiedere proprio nella capacità della politica di modernizzarsi, di funzionare secondo una logica più universalistica che bilancia e orienta il particolarismo insito nelle reti. (…) Una politica intelligente può aiutare questi processi se riesce ad influire efficacemente sulla capacità di cooperazione tra gli attori locali e se quindi non riduce il problema dello sviluppo economico a una mera questione di costi. Ancor più che nel passato lo sviluppo economico ha dunque una dimensione sociale che non può essere trascurata.”[13]

Per concludere

Dopo vent’anni e più, nell’incombere maligno delle guerre e della disaffezione verso la politica con il dilagante astensionismo condito con il qualunquismo del sono-tutti-uguali, leggo la XXVII edizione del Rapporto ‘Gli Italiani e lo Stato’, appena pubblicata dal Dipartimento per l’Informazione e l’Editoria del Governo Italiano e diffusa in sintesi da La Repubblica[14]. Ne emerge un quadro allarmante per chi ha a cuore la democrazia: il dilagare di insoddisfazione e rabbia tra gli intervistati raggiunge il 70 % degli intervistati totali, e motiva il 78% delle astensioni. Nell’analisi dei dati raccolti Luigi Ceccarini e Martina Di Pierdomenico sottolineano che un terzo degli intervistati “non ritiene la democrazia preferibile a qualsiasi altra forma di governo” e che un quinto degli intervistati preferirebbe “un regime autoritario”. A fronte dello strapotere tecnocratico e dell’arroganza delle autocrazie si palesa una profonda debolezza della democrazia. Ilvo Diamanti così conclude:

“La vera questione sollevata da questo Rapporto su “Gli italiani e lo Stato”, è proprio questa. Perché senza la fiducia e la partecipazione dei cittadini non c’è speranza di “governare” il Paese. Né di organizzare e guidare il sistema dei servizi. La Sanità. Gli enti locali. Senza una democrazia vera e partecipata, non “affidata” a “un capo”, rischiamo di perderci.”

Per quanto gli interessi scientifici sul capitale sociale siano recenti, si palesa come tema strategico, anzi il tema strategico: non solo è spia rivelatrice della salute della democrazia, ma soprattutto rimedio ai suoi malesseri, poiché si regge su reti sociali e su norme, su valori condivisi e su comuni intendimenti e poiché, per natura, è ottimo facilitatore della cooperazione. Per queste stesse caratteristiche non sarà mai misericordioso verso i tradimenti e le menzogne.

Rispetto all’urbanistica queste divagazioni sul capitale sociale mi hanno ricondotto a sottolineare l’urgenza di liberare l’urbanistica da una certa marginalità riduzionistica per riportarla al centro delle grandi questioni sociali assieme alla casa, all’istruzione e alla sanità. Ma, attenzione, la città in sé è un falso obiettivo: aver voluto riconoscere per legge le Città Metropolitane e non farne una realtà prioritaria, parlare di governo del territorio regionale senza pianificarlo, senza riconoscerne la struttura propria di regione urbana interrelata e viva, socialmente ed economicamente, concentrare risorse e progetti solo su una città, il Comune di Milano, suona come un tradimento.

Questo è quanto ci riguarda.

Se solo la politica fosse in grado di comprenderne l’importanza e si innovasse!

Via Lattanzio, Milano.

[1]Alessandro Pizzorno, “Introduzione allo studio della partecipazione politica (1966)”, Quaderni di sociologia, n. 79, 2019, pp. 17-60, 1966. Citazione ai §§ 24-26.

[2]Ibidem, § 37

[3]Fortunata Piselli, “Capitale sociale: un concetto situazionale e dinamico”, Stato e Mercato, 57 (3) dicembre 1999, pp. 395-417. Citazione: pp. 395-396 e p. 399.

[4]Alessandro Pizzorno, “Perché si paga il benzinaio. Nota per una teoria del capitale sociale”, Stato e Mercato, 57 (3) dicembre 1999, pp: 373-394. Citazioni: pp. 375-376 e p. 384.

[5]Elinor Ostrom, T. K. Ahn, “The meaning of social Capital and its Link to collective Action”, Research Paper No. 2008-11-04, School of Public and Environmental Affairs, Indiana University, 2008, p. 2.

[6]Fabrizio Schiaffonati, UCTat, Newsletter Novembre 2024.

[7]Alejandro Portes, Social Capital: Its Origins and Applications in Modern Sociology, Annual Review of Sociology, Vol. 24 (1998), pp. 1-24. Citazione p. 1.

[8]Michael Woolcock, “The Rise and Routinization of Social Capital, 1988–2008”, Annual Review of Political Science, 13 (1), 2010, pp. 469-487. Citazione: p. 370.

[9]Arnaldo Bagnasco, “Teoria del capitale sociale e ‘political economy’ comparata”, Stato e Mercato, 57 (3) dicembre 1999, pp. 351-372. Citazione: p. 352.

[10]Portes, op.cit., p. 3.

[11]Sokratis M. Koniordos, “Social capital contested”, in International Review of Sociology, vol 18 (2), 07/2008, pp. 317-337. citazione a p. 328 a cui in nota [nota 16 / p. 333] aggiunge “Stato e Mercato, 57 (December), 1999 (…) Later on, most of these articles became available in English, but they have not been known widely”. I testi di Arnaldo Bagnasco, Fortunata Piselli, Alessandro Pizzorno e Carlo Trigiliafurono furono poi riediti da Il Mulino, collana ‘I prismi’, nel 2001 con il titolo Il capitale sociale: istruzioni per l’uso.

[12]Pizzorno 1999, pp. 384.

[13]Carlo Trigilia, “Capitale sociale e sviluppo locale”, Stato e Mercato, 57 (3) dicembre 1999, pp. 419-440. Citazioni: p. 431 e p. 438.

[14]Governo Italiano, Sondaggi Politico Elettorali [ https://www.sondaggipoliticoelettorali.it/GestioneSondaggio.aspx]; Carlo Bonini, Laura Pertici (a cura di), “Longform. La democrazia malata”, La Repubblica, 29 dicembre 2024, pp. 1-3, XXVII rapporto Gli Italiani e lo Stato. Scritti di Ilvo Diamanti, Fabio Bordignan, Fabio Turato, Giacomo Salvarani, Alice Securo, Luigi Ceccarini, Martina Di Pierdomenico.

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