Passato e presente dell’architettura

UCTAT Newsletter n.65 – marzo 2024

di Aldo Castellano

Si dice che viviamo in tempi turbolenti, pieni di incertezze, paure e frustrazioni. E che sia sempre più difficile avere fiducia nel futuro. Se così fosse, come tutto sembra suggerire, per i progettisti sarebbe veramente un guaio. L’orizzonte di riferimento per qualunque progetto è il futuro, e, se questo venisse meno sarebbe come togliere al progettista la sua stessa aria vitale.

Ci si chiede dove stiamo andando, e dove stiano andando la città e l’architettura con le sue comunità di vita in continua trasformazione. Nessuno sembra saperlo, ma neppure immaginarlo. Parrebbe che ci si sia tutti imbarcati in una Nave dei folli, o su una zattera alla deriva.

Il confronto con le più recenti stagioni di grandi certezze e speranze, quelle, cioè, che avevano contrassegnato i primi due decenni di entrambi i periodi postbellici, sembra dolorosamente impari. A quei tempi la fiducia condivisa in un possibile futuro migliore – in una parola, nel progresso tout court – aveva dato la stura a un’impennata di ricerche che avevano posto in luce nuove dimensioni del reale, prima trascurate se non ignorate, arricchendo in modo straordinario la cultura architettonica. E proprio quelle grandi aspettative avevano fatto anche emergere straordinari talenti dell’architettura, che a loro volta nutrirono e a lungo numerosa progenie di progettisti.

Poi, come in tutte le rivoluzioni, subentrò prima un Direttorio e, infine, un 18 Brumaio. Pur assai differenti nei due diversi periodi storici questi esiti sono strettamente interconnessi tra di loro. E spiegano anche in gran parte lo stato presente della cultura architettonica. Dopo l’esplosione di tante e diversificate energie architettoniche sin dalla fine della Prima guerra mondiale, già a metà degli anni Venti si cominciarono a tirare i remi in barca, invocando la necessità di un ordinato funzionalismo razionalista contro tutte le precedenti fantasie espressioniste; nel secondo, invece, dopo i primi due decenni di straordinarie sperimentazioni architettoniche che stavano superando lo status quo della tradizione ereditata dagli anni Venti e Trenta, si decretò la fine del proibizionismo – identificato allora da quel funzionalismo razionalista, genericamente denominato dal 1932 “International Style” –, proclamando un liberatorio “liberi tutti”.

Tra gli evidenti legami che uniscono le vicende di quei due periodi storici, c’è un tema specifico, particolarmente rilevante, da sottolineare: quello della città.

Nel processo di riduzione sino ai minimi termini della forma-funzione, portato avanti nel clima della Neue Sachlickeit della seconda metà degli anni Venti ed esemplificato dalla filosofia progettuale di Hannes Meier, impartita agli studenti del Bauhaus, o dagli studi di Alexander Klein del 1930, la città esistente era del tutto scomparsa. Ci si era interessati, e abbondantemente, del tema del quartiere periferico. Il Weißenhofsiedlung di Stoccarda del 1927 ne fu la programmatica vetrina. Ma sui tentativi di far colloquiare l’architettura nuova con i reali contesti urbani, portati avanti dagli espressionisti, era calato un silenzio di tomba. La caotica città esistente, come quella rappresentata da Walter Ruttmann nel 1927 in “Berlin: Die Sinfonie der Großstadt”, simbolo del disordine per antonomasia, andava cancellata e ricostruita ex-novo, o, tutt’al più, abbandonata al suo destino di inevitabile rovina monumentale: così suggeriva con foga non solo Le Corbusier sin dal 1925, ma, tra molti altri, anche il settantaduenne patriarca della nuova architettura americana Frank Lloyd Wright, da Londra, nel 1939. L’idea era diventata sin dal principio dell’Ottocento una sorta di imperativo categorico per tutti i riformatori progressisti. Tranne gli espressionisti – e, invero, non tutti – anche la gran parte degli architetti moderni avevano fatto proprio quell’obiettivo: si confaceva perfettamente al trionfante ritorno all’ordine predicato a quel tempo, dopo lo spumeggiante sbandamento rivoluzionario del primo immediato dopoguerra. Di qui alla distopica città di Le Corbusier il passaggio è stato, per così dire, naturale, consequenziale, e un compiuto risultato concreto di quel pensiero si vedrà poi realizzato – invero con un certo raccapriccio, almeno a mio parere – in Brasilia, città fondata il 21 aprile 1960, quasi fosse la nuova Roma del XX secolo.

Poi la Seconda guerra mondiale fece terra bruciata soprattutto delle città. Quale magnifica occasione per l’architettura moderna per rifondare finalmente la città contemporanea! Tuttavia, la sensibilità collettiva era cambiata nel frattempo, grazie al terribile shock dell’evento bellico. I consueti habitat delle comunità erano scomparsi e, con loro, i riferimenti tradizionali del contesto costruito. Si poté toccare con mano che la “verità” di Hannes Meier, e cioè che «tutte le cose di questo mondo sono un prodotto della formula: (funzione per economia)», non era affatto coincidente con il sentire collettivo. Le comunità avevano anche bisogno di un senso di appartenenza collettivo a un territorio costruito riconoscibile, che fosse espressione della propria storia comune, e senza di esso, si sentivano perdute. Ed erano disposte addirittura a ricostruirlo dov’era e com’era, quando distrutto dalle bombe.

Proprio su queste tematiche dei “diritti” della città e degli habitat delle comunità la principale organizzazione del modernismo architettonico – i CIAM – era entrato in una crisi finale, sino al suo suicidio nel 1959 a Otterlo in Olanda.  La mancanza di punti di riferimento stabili stimolò l’inventiva dei più coraggiosi, aprendo le vie della ricerca sulla città esistente, così com’era, da migliorare, senza dubbio, ma non da cancellare o reinventare; o sui contributi che la tecnologia poteva dare all’invenzione di nuove spazialità sino allora inespresse; o, ancora, sui rapporti, spesso carichi di ambiguità, tra modernità e tradizioni. Sembrava che si fosse aperta una nuova e ricca stagione di inventività moderna, più consapevole dei bisogni degli uomini reali, irriducibili alle sole funzioni materiale della vita, e assai promettente per il futuro, con gruppi come il Team X e gli Smithson o con grandi personalità architettoniche come l’estone, naturalizzato americano, Louis Kahn, non a caso invitato a parlare proprio a quel funerale dei Ciam del ’59, per fare solo qualche esempio.

Ma, come già detto, anche questa nuova fiammata di inventiva si spense presto, questa volta, però, sopraffatta, per lo più, dal solipsistico deserto professionale della maggioranza o nel marketing di sempre nuove formule culturali à la page, fondate tutte sulla centralità della ricerca formale e sull’ego smisurato dei progettisti, e, come sempre, del tutto disinteressate ai destini della città contemporanea. Piano piano, come in un crescendo da calunnia rossiniana, fu consumata letteralmente una raffica di idee, alcune delle quali anche condivisibili, ma tutte dagli esiti architettonici scoraggianti e per lo più incapaci di progenie alcuna, sino all’esplosione ultima dell’“O’ famo strano?”, spacciata per il non plus ultra della modernità contemporanea. La logica del “fashion”, sempre diverso a tutte le stagioni, si è imposta anche sulla cultura architettonica, mentre quella del “Collage City” faceva altrettanto sulla cultura della città: oasi urbane concluse e più o meno spettacolari per lo shopping diurno e il divertimento giovanile notturno, disseminate qui e lì nella città, all’ombra di architetture che vogliono essere la celebrazione degli ego smisurati dei rispettivi progettisti, senza quasi alcun rapporto con i contesti. Potrebbero essere realizzate in qualunque altra località, italiana o del mondo, senza cambiare alcunché, come ebbe a commentare anche un mio amico di Shanghai, che evidentemente se ne intendeva di architetture decontestualizzate, quando, qualche anno fa, lo accompagnai a visitare piazza Gae Aulenti.

I tempi sono cambiati; anzi, continuano a cambiare con rapidità straordinaria. Al fiducioso entusiasmo di altre volte è subentrato da tempo un frequente sconcerto per i troppi fronti di crisi contemporaneamente aperti, che sembrano minare la stabilità stessa della convivenza civile. Quel che possiamo presumere con una certa sicurezza è che la storia non si ripete mai, pur lasciando in eredità fardelli, più o meno gravosi, che non è mai facile scrollarsi di dosso con una semplice alzata di spalle.

Nonostante tutte le diverse difficoltà del momento, comunque, il benessere generale è abbastanza diffuso; le città funzionano ancora in modo tutto sommato accettabile, malgrado molte criticità; e le architetture, malgrado tutto, mostrano ancora una diffusa sapienza costruttiva, anche se i loro significati stentano a soddisfare il comune sentire di molti.

È probabile che queste mie considerazioni siano il retaggio d’altri tempi, ormai definitivamente conclusi. Attendo, dunque, con l’ottimismo della volontà che nuove fresche energie si facciano avanti e che nuove soluzioni possano essere immaginate e sperimentate al fine di ricostruire un terreno condiviso di obiettivi e valori di libertà nei quali le comunità possano rispecchiarsi con sufficiente fiducia. Il compito non è affatto semplice, ma non credo che lo si possa eludere facilmente. Sono convinto che solo in tal modo la cultura architettonica e urbana possa riprendere la strada per un reale miglioramento della qualità di vita degli uomini e delle comunità.

Corso Italia, Milano. Architetto Luigi Caccia Domignoni.
Torna all’Indice della Newsletter