UCTAT Newsletter n.24 – giugno 2020
di Marco Biraghi
L’identità di una città – come quella di una persona – è influenzata dalle età che attraversa, dalle circostanze con le quali viene a contatto, dalle “esperienze” che compie. Ma al tempo stesso deve mantenere – è bene che mantenga – una certa costanza, una “continuità”, pur nella mutevolezza delle condizioni e nella varietà delle espressioni. Milano, tra molte altre città, ha iscritto nel proprio DNA una spiccata tendenza al cambiamento, all’aggiornamento, all’adeguamento continuo allo spirito del tempo presente. Lo ha fatto però, in momenti passati e nei casi migliori, sapendo custodire quanto di “proprio” vi era in sé (giacché tutti gli enti – individuali o sociali – sono sempre costituiti in percentuali variabili da qualche cosa di sé e qualche cosa degli “altri”, indissolubilmente frammiste). Sapersi modificare per rimanere fondamentalmente se stessi rappresenta forse il “segreto” per conseguire un corretto e positivo bilanciamento identitario.
Negli anni più recenti Milano si è trovata al centro di un rinnovato e per certi versi addirittura inedito “interesse”, frutto di una congiuntura favorevole e di una buona gestione. Dopo la crisi sistemica di tangentopoli, e nonostante la crisi economica del 2008, prolungatasi in Italia anche oltre il termine raggiunto in altri paesi occidentali, Milano è riuscita nell’impresa di guadagnare considerazione e attenzione internazionali, grazie a un mix di efficienza amministrativa, attrattività finanziaria e vivibilità urbana, favorita dalle sue dimensioni contenute, da un buon sistema di trasporti e da un rafforzato utilizzo degli spazi aperti (spesso anche ad opera dei privati). Da tutto ciò è conseguito un convergere sulla città di investimenti anche stranieri, tradottisi in interventi come quelli di Porta Nuova e CityLife, a cui se ne sono aggiunti in seguito numerosi altri di minore entità, nonché il presentarsi di una grande opportunità qual è stata quella dell’Expo 2015.
Nella situazione odierna Milano si trova a dover gestire il “patrimonio” della propria identità (al punto d’incontro tra “tradizione” moderna e spinte innovative di marca internazionalista) avendo la responsabilità di non consegnarla per intero alle dinamiche del mercato. Gestione non facile, essendo le occasioni di trasformazione (o – come si usa dire al giorno d’oggi – di rigenerazione) urbana sotto il controllo quasi esclusivo di operatori privati, sempre più di frequente del tutto sradicati dal territorio, dalla sua conoscenza e dai “suoi” interessi. Maggiore fortuna – e terreno più fertile – l’amministrazione pubblica potrebbe trovare nell’indirizzamento (individuazione, progettazione, manutenzione) dello spazio urbano, vero campo di applicazione di una politiké téchne (arte o scienza della polis) correttamente intesa. Spazio urbano che, sulla base delle “informazioni genetiche” depositate nell’acido nucleico di Milano, costituisce il materiale primario della collettività, e come tale particolarmente bisognoso di essere “curato”. È qui che la città ha sempre riposto – e può continuare a riporre – la propria “anima”, libera da condizionamenti mercantili e da utilizzi esclusivamente settoriali: nello spazio pubblico che – lungi dall’essere un “mitico” residuo di altre epoche o dal dover essere condannato in quella contemporanea allo status di non-luogo – costituisce tuttora la linfa vitale della società e della città, come abbiamo ben distintamente percepito in occasione della reclusione forzata nel corso della recente crisi pandemica. Ed è proprio qui che l’attuale amministrazione milanese si produce in interventi fin troppo deboli, al più temporanei o palliativi, come quelli di riqualificazione provvisoria di spazi quali piazza Castello o piazza Dergano, o come il piano piantumazione 2019/2020: interventi anche meritevoli, ma evidentemente non sufficienti.
La questione del verde è certamente centrale per una città come Milano che ne ha sempre sofferto la mancanza. Tuttavia, l’elementarità con la quale questo viene concepito e impiegato desta non poche perplessità: ciò che salta agli occhi con lampante evidenza è la totale assenza di qualsiasi “disegno” che oltrepassi la semplice piantumazione di alberi. Negli ultimi tempi l’albero, nelle sue diverse essenze e declinazioni (isolato, a filare, oppure – secondo le nuove retoriche milanesi – nella configurazione del “bosco” o della “foresta”), si presenta come un vero e proprio passe-partout, un rimedio universale, se non addirittura un feticcio, investito del potere, con la sua sola presenza, di risolvere ogni possibile problema, sociale e ambientale. Una sovrastima evidente, alla quale non bisogna compiere l’errore di contrapporre una superficiale negazione della necessità del verde; piuttosto risulta indispensabile pianificare una sua collocazione entro un disegno strategico (meglio che “tattico”) più complessivo.
La medesima critica potrebbe essere rivolta al trattamento milanese dello spazio pubblico più in generale. Le consuete lagnanze e polemiche sulla sua presunta “sparizione” dalle nostre città – e da Milano in modo particolare – non devono distogliere dallo comprensione del fatto che quanto manca davvero è la qualità di quegli spazi; una qualità che al contrario si può agevolmente riscontrare, ad esempio, in numerose città scandinave: a Copenhagen, a Stoccolma, a Malmö. Qui e altrove lo spazio pubblico è inteso come un’occasione di integrazione di attività, servizi, mobilità, verde.
A Milano non mancano gli spazi pubblici: questi si lasciano individuare in tutti quei luoghi che offrono occasioni di socialità, non esclusi neppure quelli caratterizzati da finalità commerciali: non soltanto piazze e parchi, dunque, ma anche stazioni, mercati, impianti sportivi, e persino comuni marciapiedi. È ripartendo dalla persuasione che lo spazio pubblico c’è, ed è sotto gli occhi di tutti, e che il problema semmai è quello di renderlo davvero rappresentativo delle molteplici identità collettive a cui ciascuno di noi – nei diversi momenti delle nostre giornate e vite –, in maniera del tutto connaturata appartiene, che è quantomeno possibile pensarne il progetto: un progetto che, per riuscire a essere tale, deve attingere la propria forza da un’idea di città che sappia nutrirsi del suo tempo e del suo spazio, vale a dire della sua storia e della sua architettura. Tempo e spazio, ovvero storia e architettura di Milano. Storia e architettura che oggi è necessario far ritornare a incontrare, senza alcuna nostalgia del passato, ma piuttosto per dare vita alla città del futuro.
