UCTAT Newsletter n.81 – settembre 2025
di Elena Mussinelli
Verso la fine degli anni 80, quando ho avviato la mia collaborazione professionale e accademica con Fabrizio Schiaffonati, il dibattito sul rapporto tra piano e progetto era particolarmente vivace: in molti – e anche noi stessi – ragionavamo sui limiti e l’inefficacia dello stumento di piano definito dalla Legge Urbanistica n. 1150 del 1942 (il Piano Regolarore Generale), caratterizzato da modalità operative rigide e settoriali (la “zonizzazione”), e da processualità scalari deterministiche. Una condizione di ineffettualità del piano che necessitava continuamente di ricorrere a “varianti d’area”, per inseguire le mutevoli condizioni di trasformabilità dei diversi contesti urbani.
Guardavamo quindi con interesse a una serie di nuovi strumenti e procedure che puntavano a un rinnovamento della strumentazione di piano, orientati soprattutto a forme di intervento non più di tipo espansivo, ma di recupero e riqualificazione dell’esistente, a partire dall’ingente comparto delle aree dismesse, in primis quelle industriali, ma non solo. Con quantità in gioco rilevantissime: solo a Milano si trattava di oltre 5 milioni di mq. per l’area urbana e di 7 milioni di mq. per il resto della Provincia (Centro Studi PIM, Materiali per il Piano Territoriale Provinciale, Milano, giugno 1995), senza contare gli scali ferroviari.
Ricordo in proposito un contributo del 1996 elaborato per gli Atti del XXVI Incontro di Studio CESET su “Il recupero del dismesso urbano. Scenari normativi, gestionali e progettuali”, nel quale Schiaffonati sottolineava “la notevole arretratezza nella sperimentazione di modalità di pianificazione ed attuazione delle iniziative, che, data la dimensione e la scala, implicano la messa in campo di una diversa strumentazione operativa e disciplinare. Formazione di agenzie, concertazioni con strumenti del tipo accordi di programma, project financing, facility management rappresentano ambiti tecnico-operativi soli in grado di verificare e sostenere la fattibilità degli interventi” (https://www.researchgate.net/publication/307739133_Il_recupero_del_dismesso_urbano_Scenari_normativi_gestionali_e_progettuali, p.242)
L’amministrazione milanese aveva elaborato divesi studi incentrati sul ruolo strategico del passante ferroviario come possibile armatura di riferimento per il recupeo del dismesso (Progetto Passante. Documento Direttore, 1984; Progetto Passante. Studi di Inquadramento nord-ovest/sud-est, 1985; Milano. Documento Direttore Aree Industriali Dismesse, 1988), anche con con quattro “progetti d’area” di scala urbana per alcuni luoghi notevoli della città (Garibaldi-Repubblica, Cadorna, Portello-Fiera, Porta Vittoria): aree ancora disciplinate dal PRG come produttive o di servizio, delle quali – con una notevole innovazione procedurale – viengono prefigurati progettualmente i possibili nuovi assetti, prima di dar luogo a varianti di piano.
Sul versante normativo Regione Lombardia aveva emenato la “Legge Verga” (L.R. n. 22/1986) per la “Promozione di Programmi Integrati di Recupero del patrimonio edilizio esistente”: uno strumento innovativo, che di fatto anticipava i contenuti dei Programmi Integrati di Intervento successivamente introdotti dalla L. 179/1992, pensato per la riqualificazione di edifici e tessuti urbani pubblici o privati in condizioni di degrado con destinazioni finalizzate a soddisfare il fabbisogno abitativo.
Si intravvedeva un principio di coerenza tra una dinamica legislativa orientata a favorire la collaborazione tra pubblico e privato (concertazione, prtenariati, ecc.) nel perseguire programmi complessi di trasformazione della città esistente(per far fronte all’obsolescenza tecnico-funzionale del patrimonio e all’emergere di fenomeni di dismissione e degrado fisico e ambientale) e una evoluzione dello strumento pianificatorio verso modelli meno rigidamente prescrittivi e più simili a quelli dell’esperienza anglosassone (masterplan) e francese (plan directeur). Con documenti guida di pianificazione strategica, quindi non direttamente prescrittivi e cogenti, in grado di definire una visione condivisa e di lungo termine dello sviluppo della città, e progettualità di scala urbana analoghe a quelle che si sperimentavano in Francia con le Zone d’Aménagement Concerté. Strumenti di pianificazione urbana flessibili, che avrebbero dovuto consentire di controllare le modalità di trasformazione di un intorno urbanisticamente significativo individuato dalla pubblica amministrazione, nel quale realizzare operazioni di sviluppo complesse conciliando esigenze urbanistiche, economiche e ambientali, e coinvolgendo al contempo stakeholder e cittadini nella definizione del progetto. Anche attraverso iniziative concorsuali di livello internazionale (Bicocca, Garibaldi Repubblica, Bovisa.
Sempre in questa prospettiva ricordo il nostro impegno degli anni 90-2000, con l’esperienza maturata per la realizzazione di diversi studi di fattibilità di Società di Trasformazione Urbana, (Modugno, Bari; Olbia ) e di Piani Strategici (Novara, Mazara del Vallo, Marsala); con l’opportunità di sperimentare modelli innovativi di cooperazione tra soggetti pubblici (Comuni e città metropolitane, Province, Regioni) e operatori privati, anche con la partecipazione degli stakeholder e delle comunità locali, per prospettare scenari, obiettivi, azioni e interventi pilota di trasformazione urbana.
Tali condizioni operative valorizzavano il ruolo decisionale della pubblica amministrazione relativamente ad aspetti quali l’impianto morfotipologico, le destinazioni funzionali, il dimensionamento volumetrico, i livelli di infrastruttrazione, le dotazione di servizi, ecc., ben diversamente da quanto poi registratosi negli decenni nel contesto milanese (ma non solo), con sviluppi immobiliari caratterizzati da elevatissimi valori di rendita e da volumetrie e densità insediative molto rilevanti, concepiti, attuati e gestiti da operatori privati in assenza di una regia pubblica in grado di orientare i progetti a obiettivi integrati di rigenerazione, anche ambientale e sociale, entro una visione complessiva della città e del suo spazio pubblico.
Interventi quasi sempre autoreferenziali, rinchiusi su sé stessi, risolti in configurazioni formali garantite dalla firma di qualche archistar, ma incapaci di riconoscere e valorizzare i caratteri paesaggistici della città, né di quella storica, né di quella del Moderno. Anzi, la maggior parte delle realizzazioni testimonia piuttosto della loro cancellazione, per una passiva adesione a linguaggi architettonici e spazialità urbane molto lontane dalla peculiare sobrietà milanese, ascrivibili piuttosto agli stereotipi di una immagine globalizzata e spettacolarizzata (anonima e atopica) di quello che Phlippe Daverio acutamente definiva real estate design.
Indipendentemente dall’esito delle vicende giudiziarie che hanno investito amministratori, progettisti e operatori immobiliari, il superamento di questo fallimentare “modello Milano” nella prospettiva di una revisione del Piano di governo del territorio dovrebbe ripartire dal una visione strategica condivisa della città e da progettualità effettivamente radicate alle matrici strutturali costitutive della città stessa, con il riconoscimento delle peculiarità morfologiche e ambientali dei diversi contesti e nel rispetto delle identità storiche e culturali dei luoghi che la compongono.


