UCTAT Newsletter n.79 – GIUGNO 2025
di Fabrizio Schiaffonati
Percorrendo la via Sant’Arialdo dopo l’Abbazia di Chiaravalle la prima svolta a sinistra conduce all’abitato di Poasco, frazione di San Donato Milanese. Un antico nucleo agricolo, la grande cascina Ronco, la chiesa parrocchiale, poche case, nella tessitura di tracciati irrigui, cresciuto dagli anni settanta con un Piano di edilizia economica della legge 167 fino a saldarsi con la limitrofa frazione di Sorigherio. Un insediamento complessivo di 2500 abitanti nel verde del Parco Agricolo Sud in una triangolazione tra le Abbazie di Chiaravalle, Viboldone e Mirasole, a qualche chilometro dal Centro di Milano in un contesto naturalistico e ambientale attrattivo di nuovi nuclei familiari. Una vasta area del sud-est milanese non inglobata dalla conurbazione periferica che conserva ancora tracce delle bonifiche cistercensi e del paesaggio lombardo.
Nel 1980 con Marco Lucchini e Renato Calamida a Poasco abbiamo progettato alcuni edifici per un Consorzio di cooperative d’abitazione, particolarmente attivo per la partecipazione dei promotori delle diverse iniziative. Due case a schiera ed una in linea, di una attività professionale con altri nostri progetti di edilizia residenziale a Milano ed hinterland.
Questi edifici sono al centro dell’abitato, in un lotto del Piano di edilizia economica e popolare completato da altre case a schiera di Gino Valle e Marica Redini. Un complesso in un razionale impianto urbanistico con differenti cifre espressive e tecnologiche delle architetture, ma di una comune ricerca tipologica. La nostra a setti portanti gettati in opera con chiusure esterne in mattoni faccia a vista e vetrocemento; la loro con un sistema di prefabbricazione pesante per le strutture portanti che per i pannelli di facciata, prodotti fuori opera e assemblati a secco. Una sistema da loro già impiegato in edifici multipiano di diverse località. Una scelta inconsueta per case a schiera, ma di forte impatto figurativo per le coperture a falde di ogni unità abitativa che disegnano un suggestivo sky line che richiama le coeve Residenze alla Giudecca e anche immagini di villaggi nordici.
In un necrologio dell’11 giugno sul Corriere della Sera ho appreso della morte di Marica Redini, docente a Roma e stretta collaboratrice di Gino Valle. Con lei ho avuto una assidua frequentazione in occasione delle iniziative promosse dalla SITdA, Società Italiana di Tecnologia dell’Architettura, e del Coordinamento dei dottorati di ricerca dell’area della Tecnologia dell’Architettura. Una comune appartenenza accademica a un settore disciplinare che raggruppa centinaia di docenti delle Facoltà di Architettura. Il modo d’intendere l’insegnamento ci univa, con l’obiettivo di coniugare la cultura del progetto con la conoscenza delle tecniche dei processi produttivi, per fornire quindi agli architetti in formazione strumenti e metodi per una corretta esecuzione delle opere. Un approccio che non può prescindere dalla pratica del cantiere e dall’aggiornamento sulle innovazioni tecnologiche che si susseguono.
Non mancavano occasioni per scambiarci opinioni e informarci su quanto stavamo progettando. Anche per un mio particolare interesse per il suo lavoro con un indiscusso Maestro dell’architettura, che avevo avuto modo di frequentare in occasione di una commissione di un concorso di architettura di cui facevamo parte. Per la precisione un concorso rivolto agli studenti di diverse Facoltà, seguiti dai loro docenti, sponsorizzato dall’azienda leader Fantoni per promuovere l’impiego di pannelli di fibra medium-density in edilizia e per elementi di arredo urbano.
Ero incaricato della organizzazione dell’iniziativa, con una commissione composta da noti architetti, tra cui Gino Valle che aveva progettato lo stabilimento della Fantoni in provincia di Udine. Ci accompagnò nella visità organizzata per i docenti dei diversi gruppi di studenti, tra cui Eduardo Vittoria, durante la quale avemmo modo di approfondire la conoscenza delle peculiarità di quel prodotto. Valle ci illustrò anche la sua architettura e gli interventi di consolidamento dopo il terremoto del Belice.
Ad accoglierci c’era anche il cavalier Fantoni che ci ospitò ad Udine. Durante la visita e a cena ebbi modo di apprezzare il suo spirito imprenditoriale e l’impegno nella promozione del concorso anche dalle pagine di alcuni quotidiani nazionali. Lo rividi poi a Milano durante i lavori dei due gradi di giudizio della commissione e la premiazione dei vincitori.
Nello sviluppo dei lavori della commissione e per conferenze per la stampa specializzata, con Valle mi incontrai più volte anche perché di frequente era a Milano, dove negli anni settanta aveva avuto uno studio in via Circo e stava realizzando un importante progetto di edilizia economica in località Vaiano Valle. Due edifici multipiano ad Elle ricomposti in una semicorte a C, sulla via Piero Bottoni e retrostanti ad un’altra residenza progettata da Lorenzo Berni. Un complesso di grande qualità tipologica e tecnologica dove dialogano due diversi approcci, l’involucro in mattoni di Berni e il prefabbricato pesante di Valle, della ditta Valdadige, lo stesso di Poasco. Gli edifici di Vaiano Valle di Valle e Berni sono stati oggetti di mie lezioni, perché emblematici di una non comune cultura tecnologica e architettonica.
Una curiosità tra Poasco e Vaiano Valle intercorre meno di due chilometri. Nei pressi dell’Abbazia di Chiaravalle si svolta a destra sulla via Vaiano Valle e subito dopo a sinistra sulla via Poasco-Sorigherio. Un paesaggio che senza dubbio ha ispirato quelle opere.
Di questi nostri progetti con la Redini ragionammo più di una volta. Mi chiedeva dello stato degli edifici e del gradimento degli abitanti per la mia conoscenza di alcuni cooperatori e per un altro progetto di cui ora parlerò.
Nel 1988 con Elio Bosio ci si incontrava settimanalmente durante le sedute della Commissione Edilizia del Comune di Milano, di cui facevamo parte. Un collega del Politecnico con una particolare affinità culturale e professionale, architetto di molte iniziative della più importante cooperativa a proprietà indivisa. In Commissione era frequente dover valutare progetti di edilizia economica e popolare. Ci scambiavamo opinioni in uno spirito collaborativo, stimolando il confronto anche con i professionisti che chiedevano un conferimento, in particolare per gli interventi di maggiore importanza che contemplavano una progettazione a scala urbanistica, in comprensori di 167 o per piani straordinari di edilizia del Comune e della Regione. I finanziamenti non mancavano e le occasioni di dibattito e confronto politico e culturale nella città erano frequenti.
Bosio al corrente di quanto fatto da me con Calamida e Lucchini a Poasco, avendo predisposto nello stesso periodo il planivolumetrico di un lotto della 167 all’ingresso del paese, mi stimolò a metter mano ad un complessivo progetto ambientale nello spirito della legge Galasso che promuoveva i Piani Paesistici. Un “Piano-Progetto” esteso a tutto l’abitato, col recupero della grande cascina e la realizzazione di nuovi servizi, in una visione coordinata che allora si auspicava per superare l’approccio solo normativo dell’urbanistica. Come nel pensiero di Pierluigi Cervellati, ma anche di Paolo Portoghesi, in una sperimentazione proposta a Bologna.
Una “auto committenza”, la nostra, come nei progetti didattici.
Ci siamo chiesti nello spirito del “progetto partecipato”, perché non coinvolgere gli abitanti sentendo la loro opinione e illustrando quanto stavamo facendo?
È stata cosi organizzata una squadra, con Luigi Triberti e Stefano Mattiuzzo stabili collaboratori dello studio di una non comune volontà coniugando l’impegno lavorativo con gli studi universitari, a cui si sono aggiunti l’amico Paolo Aina per le sue competenze paesaggistiche ed Ermanno Ronda.
Non entro nel dettaglio del progetto che è documentato in Calamida Lucchini Schiaffonati Architetti (Maggioli Editore, 2014), e di cui riporto alla fine dello scritto alcune illustrazioni. Un masterplan con la morfologia delle nuove costruzioni a completamento delle residue possibilità edificatorie, il disegno particolareggiato del verde e dello spazio pubblico, della viabilità ciclabile e pedonale. Un progetto impegnativo con spirito disinteressato, con grandi planimetrie, disegni e prospettive accuratamente disegnate, spiegato in un incontro con gli abitanti in una sala del bar di Poasco. Documentazione poi presentata al sindaco di San Donato Milanese che, incredibilmente, si dimostrò risentito e indispettito della nostra iniziativa, probabilmente vista come una indebita interferenza. Avevamo pensato a ben altra accoglienza, per il nostro spirito disinteressato.
Un modo di “Progettare la periferia” alzando lo sguardo sulle relazioni spaziali dell’architettura con l’ambiente, il contesto sociale, i bisogni delle persone che la vivono. Una sensibilità che sembra essersi perduta con una evanescenza dell’urbanistica sempre più materia giuridica e una architettura autoreferenziale. Gli anni ottanta sono stati tempi diversi. Ci si interrogava sulla qualità complessiva della città, in primis della periferia dopo il grande sviluppo del dopoguerra, sulla fondamentale funzione dei Piani attuativi per una armonica morfologia delle costruzioni. Una aspirazione alla bellezza della città come esito di un buon governo dell’urbanistica.
La necessità di “Progettare la periferia” era sentita come uno stimolo anche per le urgenze ambientali di cui andavamo prendendo coscienza.
Quella stagione mi è tornata alla memoria ricordando Marica Redini.





