UCTAT Newsletter n.58 – luglio 2023
di Paolo Aina
Gli spazi cittadini di Milano si propongono quasi sempre come spazi dedicati al consumo e come tali consumati il più rapidamente possibile; il passante vi deve transitare velocemente, solo un selfie davanti alle vetrine dei marchi famosi e dei monumenti più celebri gli danno un po’ di tregua.
A pensarci bene i selfie non sono un ricordo come le foto scattate con le vecchie macchine fotografiche dai nostri parenti, o le diapositive proiettate in quelle tremende serate a casa degli amici da cui era difficile sfuggire, questo tipo di fotografie se le guardiamo ci accorgiamo che registravano due presenze contemporanee: il soggetto fotografato e il fotografo ben presente anche se non raffigurato: fissavano i suoi ricordi di quel tempo e di quel luogo.
Il selfie oltre a fissare quel momento ha qualcosa di ribelle: io sono in primo piano, il marchio famoso e il monumento fanno da sfondo; il bisogno di essere lì e fotografarsi sconfina con l’affermazione di esistere non più come appartenenti a una comunità ma come singolarità gettate nello spazio pubblico.
Uno spazio che è pubblico solo perché non è recintato ma non ha nessun significato speciale per i cittadini, può essere anche solo un vuoto senza particolari qualità formali.
Gli spazi della città vecchia sono più ambiti, forse per la loro maggiore attenzione al benessere di chi li frequenta, per il disordine controllato delle vecchie costruzioni e per la traccia delle mani e dei gesti di chi le ha edificate.
Mi domando allora come mai una città che si applica con tanta tigna attraverso una caterva di norme, codicilli, eccezioni e regolamenti non riesca a produrre un buon posto dove fermarsi: un luogo appena costruito che abbia lo stesso fascino degli spazi che abbiamo avuto in eredità, qualche luogo dove sostare senza pagarne il dazio, qualche posto dove la Milano che non si ferma riprende fiato e diminuisce l’affanno.
Perdere le attività produttive e puntare tutto sui servizi pare essere il destino di quasi tutte le città occidentali, lo spazio perde allora le sue caratteristiche di singolarità e si declina semplicemente dal punto di vista della presenza degli impianti e della dimensione delle superfici: l’impiegato Fantozzi alla ItalPetrolCemeTermoTessilFarmoMetalChimica passava indifferentemente dalla scrivania in una stanza ad un’altra scrivania in un sottoscala svolgendo le stesse mansioni.
La scomparsa del lavoro manuale e delle differenze tra gli spazi che le diverse lavorazioni richiedono annulla le differenze spaziali e azzera le diverse qualità; ma soprattutto, nell’indifferenza spaziale, distrugge il proprio ubi consistam.
Qualche tempo fa alcuni architetti teorizzavano una nuova sistemazione degli uffici: il posto di lavoro non era più personale ma in un certo senso, chi primo arriva meglio alloggia: trovava un posto e lo occupava.
Il proprio ubi consistam diventa piccolo piccolo, non esiste più nei modi della fisica classica, è tutto trasferito nello spazio astratto dei dispositivi elettronici.
Il nostro corpo ha però bisogno di uno spazio fisico, di una superficie, di un volume: di qualche metro quadrato e di conseguenti metri cubi.
In poche parole di effettive costruzioni che ci riparino e ci proteggano: in poche parole abbiamo bisogno di un alloggio dove stare per vivere, di un alloggio dove stare per lavorare.
Abitiamo a Milano o vi siamo solo alloggiati?
Mi ricordo che abitare deriva da habere in particolare significa avere consuetudine in un luogo e da qui mi pare di capire come mai gli spazi delle vecchie città siano più accoglienti, perché non solo noi ne abbiamo consuetudine ma pare che anche loro, di noi, abbiano abitudine.
Le nuove architetture invece che continuamente vogliono essere moderne o addirittura contemporanee senza tener conto che già domani il contemporaneo si è passatizzato si pongono come oggetti di consumo o alla moda che proprio per il fatto di essere così rapidamente sottoposte al consumo non riescono a prefigurare un futuro.
Le nuove costruzioni si pongono come solitudini senza rapporti con l’esterno, circondate dai loro risicati giardini spesso solo da guardare dove è proibito giocare per non rovinarne la vista come se il vivere si riducesse al solo guardare.
Per tornare al titolo “propizio è avere dove recarsi” porrei l’accento sul recarsi che all’origine aveva il significato di ammucchiare.
Come potremmo interpretare questo “ammucchiare” per la costruzione di uno spazio?
Penso che una buona spiegazione sia quella che tiene conto delle storie che sotto il cielo alto e vecchio di questa città si sono stratificate che ancora sono presenti e ci fanno differenti dagli abitanti delle altre città.
“E però dice lo Filosofo che l’uomo naturalmente è compagnevole animale”.
Sono proprio le storie comuni che ci fanno compagnevoli per questo motivo le buone costruzioni devono parlarne in modo tale da recuperare un minimo senso della comunità cittadina, un minimo senso di appartenenza.
Non dobbiamo scordarci che la città non è solo un presente, è una macchina del tempo, un oggetto sincronico: ci ricorda adesso che lì visse un personaggio famoso, là accade qualcosa di notevole e che un quadro del 1910 rappresentò una rissa in Galleria.
È vero gli abitanti non sono solo autoctoni, con il passare del tempo le immigrazioni hanno cambiato la percezione degli spazi e forse non si riconoscono più i personaggi ricordati dalle lapidi, le loro case però restano con la loro forma convenzionale a far da quinta alle vie dove sui binari passa il tram tipo 1928.
Credo sia passato il tempo in cui si pensava che “La stabilità è la proprietà peculiare dell’eternità” nonostante le città in qualche modo si stabiliscano come eterne.
Se nel passato era un’illustre personaggio a dare risalto alla costruzione con la perdita di un linguaggio comune sono gli edifici costosi (belli? forse) a dar lustro agli abitanti, si abita lì per censo così i ricchi abitano tutti insieme e chi non può permettersi una spesa cospicua andrà ad abitare in case meno appariscenti che qualche volta si ingegnano a fare il verso alle loro sorelle che compaiono sulle riviste di architettura.
La qualità del costruito sembra dipendere solo da ciò che appare agli occhi e ciò che vediamo ha un non so che di artificioso, girando per la città non scopriamo nulla che abbia la naturalezza del necessario, come un tacchino il costruito fa la ruota e gloglotta fino alla noia.
Nello stesso modo sono noiose le sistemazioni urbanistiche approntate perché i lotti non abbiano una forma strana e difficile per il disegno della planimetria. Tutto questo poi senza parlare delle questioni ambientali, della Terra, dell’Acqua, dell’Aria e del Fuoco che varrà la pena di affrontare una prossima volta quando l’estate sarà finita.

