UCTAT Newsletter n.20 – febbraio 2020
di Marino Ferrari
È ricorrente il tema delle periferie e della rigenerazione urbana; se ne parla sulla stampa e nei convegni, ne parlano i cultori delle discipline che “governano” il territorio. Nella proposta di legge sull’uso del suolo, DdL proposto dal Forum Salviamo Il Paesaggio, che dovrebbe venire discussa in Parlamento, il tema viene ribadito. Come pure sono condivisibili le ragioni che nel concreto avvolgono la questione urbana anche senza allargarsi alle dimensioni delle megalopoli, nelle quali e per le quali l’assalto delle periferie inurbanti mostra non solo le sue debolezze ma le profonde contraddizioni. Come è risaputo osservando il territorio lombardo “attorno” a Milano, le differenze fra comuni e comuni sono sostanzialmente designate dai cartelli stradali, non solo, ma la mano “aperta” che rappresentava Milano con le rogge- navigli-fontanili a tenerne separate le dita, oggi non è più. Perché, ad esempio, verso la città? Quale metamorfosi ha subito il tanto dimenticato ed abusato “rapporto città campagna”? Una risposta immediata e forse anche ingenua come la mia potrebbe essere che la “cultura metropolitana” ha partorito contemporaneamente molti topolini e molte di loro femmine sempre gravide. E siccome i “topolini” per la ricerca scientifica sono molto uomoassimilabilii, va da sé.
Delle periferie si è introdotto dicendo che sono “uno strappo che va ricucito”; son figlio di sarta e se strappo è vuol dire che qualcosa è stata tolta dalla sua origine e a me sembra proprio che le periferie non lo siano. Anzi, volutamente costruite in parte per annessione amministrativa di comunità esistenti e per lo più per produrre rendite di posizione con tutti gli annessi. Che mi sembra siano dimenticati.
Poi, secondo regole, anche la rigenerazione diventa un motivo conduttore di tutte le analisi e di tutte le proposte, anche mettendoci del verde. Quella del verde è veramente tra le modalità (direi mode) maggiormente seguite, un riempimento verbale ed un solletico alle menti più progressiste (non progressive), dire verde che ci solleva da una parte delle nostre responsabilità, culturali, professionali, civili. Oltre l’economia verde, della quale occorrerebbe documentarsi sul dove sia e sul come stia andando, può trovare spazio la circolarità di tutto, anche gli alberi in centro città. Del resto sono veramente curioso di sapere e poi vedere come viene imbastita (madre sarta…) la circolarità della produzione (per il momento fuori dalle teorie marxiane), il recupero ed il riciclo in una metropoli la cui cultura è fortemente legata e prodotta proprio dal sistema economico, con tutti i pregi (a mio avviso visti i risultati pochi) e difetti (invece molti). Perché ritengo siano entrambi, pregi e difetti, passibili di ri-sanamento e ri-generazione, magari invertendone i valori.
Orbene, le periferie potrebbero rimanere anche dove sono che forse, come testimoniato da alcune, andrebbero anche meglio se avessero servizi efficaci ed una sia pur modesta “democrazia” gestibile, da non confondere con educazione o altro. Poiché oggi si parla e si opera per le smart city, non ci si pone minimamente il problema se le intelligenze artificiose sottraggono viepiù libertà decisionali e partecipazione, ma invece coinvolgono i progetti, che trainano fascino per via delle tecnologie esasperate, e producono “pacchetti” partecipativi avvolti nella carta consapevolezza.
La partecipazione è tale nel momento in cui so quali sono i miei problemi reali ed i miei bisogni e la volontà di risolverli anche conflittualmente. Un intervento di rigenerazione urbana condotto in un quartiere milanese ha visto l’abbattimento di una porzione di muro per collegare il quartiere ad un mercato. Se è vero, direi geniale!
Il verde in città, lasciando perdere per rispetto e tenerezza (per il verde ovviamente) la sua verticalità che ho trovato in natura su alcune “piramidi maya”, gratuitamente…, viene quasi costretto senza una minima progettualità che, intendiamoci, non è il bel disegno, ma l’analisi delle reali condizioni ambientali che passa nel rapporto con il clima, attraverso lo specifico microclima, viene costretto a rapportarsi con la cementificazione urbana. Quindi può essere che alcuni alberi in quel luogo non servano perchènonfannoentrarelaluce(avrebbe detto mia nonna), mentre altri per foggia, dimensione, crescita e resistenza in quel luogo sono perfetti.
Certamente occorre predisporre un progetto di città, di periferia, di territorio, di rapporto rinnovato tra città e campagna, partendo dalla ri-definizione del medesimo. Ed è una ridefinizione economica, produttiva. Ecco un principio di rigenerazione urbana, vale a dire ri-generazione urbana, ovvero dare alla città con tutti i suoi annessi, un nuovo genere. La rigenerazione urbana non è uno strumento, se le togliamo provvisoriamente l’aura, ma un obbiettivo. Gli strumenti sono quelli legati da tempo alla produzione edilizia, che si confonde con quella architettonica che a sua volta converge in quella urbanistica, ormai defunta, ma resuscitata dal Piano (strumento non senatore, ing. arch. inventore costruttore ed altro ancora!). Rigenerando la città in questo senso e partendo (ahinoi) da una nuovaformadella mente si ri-generebbe il rapporto con la campagna, la cultura metropolitana, il contesto territoriale. Forse per Milano anche “riaprire la mano”….
Se non si parte da qui non solo non si va molto lontano, ma si rimane indissolubilmente legati ai molteplici meccanismi che hanno prodotto queste realtà; prima la loro materialità e poi i soggetti. E non il contrario. Sempre rimanendo sul tema delle periferie, quando se ne parla, una delle soluzioni è quella di “ricucirle”; bravi e quale è il filo da utilizzare? La costruzione, l’occupazione di ulteriore territorio (terreno), la sua impermeabilizzazione etc.
Si provi per un momento a mettersi a disposizione del pensiero (idea) lasciando perdere cazzuola, malta e BIM. Liberarsi dalla zavorra “progettuale” vincolata da secoli (non molti) dalla “materialità”, dalla così detta architettura che, pur bella (possiamo anche discuterne) e tanto bella da faticare a leggerla ed interpretarla.
Pensare ai problemi sociali in una visione neanche olistica ma semplicemente sovrastrutturale, in attesa che si concretizzi l’idea, che si materializzi utilizzando la vecchia “tavolozza di colori” e le “vecchie spatole”, ci riporta al punto di partenza, là dove c’è la tana dei topolini.
