UCTAT Newsletter n.64 – FEBBRAIO 2024
di Elena Mussinelli
Negli ultimi decenni il quadro normativo in materia di urbanistica, edilizia e opere pubbliche si è enormemente dilatato, nel tentativo di meglio governare il rapporto tempi/costi/qualità degli interventi. I centri che producono norme si sono moltiplicati (dalle sedi comunitarie alle autonomie locali) e le norme stesse sono sempre più numerose e dettagliate in ragione dei diversi ambiti applicativi (ambiente, paesaggio, patrimonio culturale, salute, sicurezza, infrastrutture, ecc.) e anche del loro carattere più o meno prescrittivo, di indirizzo o volontario. Uno scenario esigenziale molto dinamico impone inoltre contune revisioni e adattamenti, per adeguare le norme alle rapide trasformazioni socioeconomiche, culturali e tecnologiche.
Cercando di risolvere ogni problema con un apposito regolamento che in qualche modo limiti l’agire libero e responsabile di cittadini e progettisti, nel contesto italiano si è determinata una vera e propria “inflazione legislativa”, con la stratificazione di una anomala quantità di norme, spesso non coordinate, quando non del tutto incoerenti o conflittuali, con effetti anche diametralmente opposti a quelli attesi. Norme non di rado mal scritte, difficili da leggere e da applicare, che generano confusione e dubbi interpretativi (e continui contenziosi), rendono complessi e farraginosi gli adempimenti burocratici, sovraccaricano l’azione amministrativa e aumentano i costi regolativi e gestionali che gravano sui cittadini, sulle imprese e sugli stessi enti pubblici. Mentre continuano a latitare verifiche e controlli.
Un accanimento regolatorio che, come sottolinea Marco Romano nel suo Liberi di costruire, finisce col “ridurre i desideri degli uomini a diritti codificati nella dottrina della pianificazione, imposti da governi illuminati e pedagogici a cittadini riottosi e ignari del loro stesso bene, significa cancellare quello che li rende uomini: la diversità dei loro individuali progetti di vita”. Ma poi del tutto disallineato dalla realtà che ci circonda, dove tutto viene normato perché tutto possa essere concesso…
Norme e vincoli per la tutela e la qualità dell’ambiente e del paesaggio, valutazioni di impatto, prescrizioni per limitare il consumo di suolo, indicatori di resilienza climatica, ecc., in uso ormai da molti anni, non sembrano infatti aver prodotto gli effetti sperati, come testimoniano il degrado delle periferie urbane, il continuo incremento dei suoli erosi da nuove urbanizzazioni e infrastrutture, o il dissesto idrogeologico dei territori più fragili. Anzi, più si amplia l’orizzonte delle cosiddette policies, più la pianificazione sembra incapace di dare forma a spazi urbani di qualità, in una sorta di analfabetismo di ritorno dimentico delle regole grammaticali e sintattiche di costruzione della città europea. Sostituite da astrazioni, quali le “piazze tattiche” o le social street, del tutto inadeguate a determinare una organica configurazione della struttura urbana.
Tutte le maggiori città si sono ormai dotate di piani per la resilienza climatica, per la forestazione e la biodiversità, ecc., e non c’è grande progetto di trasformazione urbana che non possa vantare una certificazione green. Eppure si può legittimamente proporre di sostituire un parco alberato di oltre 50mila mq con del verde pensile in copertura a un centro commerciale… (si veda San Siro a Milano): operazioni immobiliari di greenwashing in assenza di verifiche e controlli dell’ente pubblico.
Simili criticità sono evidenti anche nel comparto delle opere pubbliche dove, dopo trent’anni di provvedimenti congiunturali (sospensioni, deroghe temporanee, decretazioni d’urgenza, procedure e competenze speciali, variazioni delle soglie, ecc.), è stato recentemente varato un nuovo Codice degli appalti (d.lgs. n. 36/2023): un testo di oltre 150mila parole al quale si affianca il vastissimo corredo normativo e procedurale del PNRR.[1] Testi complicati, pieni di rimandi, molto difficili da interpretare, a fronte di una realtà degli uffici tecnici italiani caratterizzata da carenza di personale e competenze spesso inadeguate rispetto all’esigenza mettere a terra in tempi brevi opere e investimenti molto rilevanti (“Poco più della metà dei dipendenti comunali a tempo indeterminato, il 54,9% è in possesso di un diploma di scuola superiore come massimo titolo di studio conseguito. Il 18,1% ha terminato gli studi con la scuola dell’obbligo, il 27% ha conseguito la laurea breve o magistrale, o titoli superiori”, Rapporto Ifel 2023; si veda anche il Rapporto “Osservatorio RUP 2023. Criticità, soluzioni e fabbisogni formativi”).
Una ennesima riforma della riforma, senza alcuna significativa attività di monitoraggio che abbia verificato gli effetti derivanti dall’applicazione della norma previgente, per correttamente finalizzarne la modifica.
La questione normativa è certamente di non facile risoluzione: non si tratta infatti solo di operare una pur necessaria semplificazione, o di rimuovere regolazioni inutili, obsolete o ingiustificate, ma di assicurare quella che viene definita la “qualità della regolazione”, come previsto sin dal 2001 dalla Regulatory Reform adottata dai Paesi Ocse e Apec: per norme trasparenti, concettualmente e semanticamente precise, chiare e comprensibili nei termini, negli obiettivi e nei comportamenti richiesti, e soprattutto caratterizzate da contenuti derivati da progettualità consensuali e condivise.
Responsabilità, consenso e condivisione credo rappresentino le parole chiave per un possibile ripensamento del rapporto tra progetto e norma, anche per la necessità di operare sperimentalmente, in deroga alle regolamentazioni vigenti, per poi condurre al loro rinnovamento. Mentre invece mi sembrano prevalere approcci di tipo deduttivo, supportati da procedimenti algoritmici per il calcolo di indicatori e parametri che legittimano ogni scelta: dove la conformità alla norma fa schermo all’assunzione di precise responsabilità.
Con un ribaltamento concettuale e operativo rispetto all’agire progettuale creativo, responsabilmente induttivo, che sperimenta e innova, anteponendo al criterio della conformità formale i principi dell’adeguatezza prestazionale e della rispondenza alla domanda.
Stupisce infine, in questo scenario, lo scarsissimo rilievo assegnato alla “cultura normativa” nei corsi di studio in Architettura, col risultato che laureiamo studenti che non hanno mai sentito parlare di codice degli appalti, di valutazione di impatto ambientale o di criteri ambientali minimi: affrontare o meno simili tematiche nei laboratori progettuali è infatti una scelta discrezionale dei docenti, che in prevalenza tendono a considerarle esornative e comunque rinviabili a un futuro apprendimento in ambito lavorativo. Quando invece l’attenzione critica al paradigma normativo dovrebbe informare da subito la cultura del progetto (anche per le responsabilità etiche, sociali e professionali che comporta), assumendo norme e vincoli come elementi che attraversano, e condizionano, l’interno processo progettuale, anche stimolandone la creatività.

[1] Un Codice di 128 pagine e un piano di 273 pagine, con 13 decreti-legge con 2 allegati e 1 regolamento, 10 documenti sul Do Not Significant Harm (con le relative 318 pagine di linee guida e un manuale di 171 pagine), 14 circolari (con 23 allegati, inclusi 2 linee guida, 5 istruzioni tecniche e 1 protocollo) e 13 manuali tecnico-operativi per i Comuni emanati dalle Amministrazioni Centrali: pressoché impossibile calcolare il numero complessivo di pagine, probabilmente diverse migliaia…
