Questa città non è un albergo per studenti: ripartiamo dal Marchiondi

UCTAT Newsletter n.71 – ottobre 2024

di Andrea Bosio

Lo scorso 20 settembre è stato presentato a Palazzo Marino il progetto di recupero e di rifunzionalizzazione dell’ex-istituto Marchiondi, progettato da Vittoriano Viganò tra il 1953 e il 1957 per ospitare un nuovo modello di riformatorio giovanile, e lasciato in stato di completo abbandono dagli anni Ottanta. Su progetto dello Studio BCMA, il complesso brutalista verrà recuperato secondo una strategia di restauro conservativo e concesso in comodato d’uso gratuito per quarant’anni al Collegio delle Università Milanesi per ospitare 167 posti letto per studenti fuori sede oltre ad attività collettive mirate a studi di tipo artistico. Al di là della natura conservativa del progetto e dunque della sua logica di continuità funzionale con l’edificio preesistente, la scelta di rifunzionalizzare l’edificio a studentato non sorprende e si pone infatti in linea sia con l’attitudine del settore edilizio milanese che negli ultimi anni ha promosso la costruzione di numerose residenze per studenti, sia con la strategia corrente e futura dell’Amministrazione comunale che sostiene la necessità di creare ulteriori posti letto per gli studenti fuorisede, nella previsione futura di maggiore affluenza universitaria. Il tema si affianca a quello dolente del caro affitti e dei costi di acquisto nel settore residenziale che sta portando alla progressiva espulsione dalla città la fascia medio bassa di potenziali acquirenti o affittuari, accanto alla progettazione di alloggi sempre più piccoli. Il modello di città che Milano sembra preferire è dunque quello abitato da soggetti temporanei piuttosto che da nuclei sociali stanziali, tanto che a guardare la pianta e le metrature degli alloggi residenziali medi disponibili sul mercato ci si chiede se ci sia oggi una differenza sostanziale tra uno spazio concepito per un periodo temporaneo di studio e uno spazio pensato per una vita stanziale a lungo termine.

Quello che però pare evidente, a guardare il panorama delle residenze studentesche già edificate, è come le alte rette richieste per l’affitto di un posto letto in questi nuovi complessi spesso non paiano giustificate da un’architettura che sembra non permettere nè una decorosa qualità di vita interna, nè una qualsivoglia relazione con il quartiere in cui sono inseriti. Gli edifici costruiti all’interno dello Scalo Romana per gli atleti olimpionici prima e i futuri studenti poi si distinguono in particolar modo per la loro povertà di linguaggio architettonico e per l’anacronismo delle soluzioni formali e spaziali, con volumi bucati uniformemente da piccole finestre e assenti di qualsiasi loggia o balcone, e dunque caratterizzati da una generale impenetrabilità. Anche gli studentati del brand Aparto non brillano per innovazione architettonica e spaziale, così che se l’edificio in Via Ripamonti tenta almeno in parte di relazionarsi formalmente con la struttura preesistente dell’ex-Consorzio Agrario, quello in Via Giovenale si configura come un blocco di cemento grigio che sembra volersi porre in contrasto con il contesto invece di cercare con esso un qualsiasi dialogo. Questa impenetrabilità, quasi conflittuale con il contesto, che sembra essere specificamente programmata per i progetti di studentati milanese – si veda anche la riqualificazione in studentato dell’edificio in Via Muzio Attendolo 8 -, trova una motivazione funzionale nel fatto che queste strutture spesso incorporano funzioni che consentono di evitare gli spostamenti per la città come piscine e palestre, ristoranti, sale comuni, lavanderie, e cinema. Tale scelta funzionale è d’altronde motivata da una generale tendenza globale a declinare il campus universitario come un recinto chiuso piuttosto che come un complesso di funzioni all’interno della città, come dimostra il recente progetto dello studio SANAA per l’Università Bocconi, concepito in totale contrasto con l’edificio prospiciente della sede storica dell’università progettato da Giuseppe Pagano che ancora adesso si caratterizza come un esempio di architettura sobriamente urbana.

In questo panorama, il progetto di recupero dell’ex-istituto Marchiondi potrebbe rappresentare dunque un’opportunità di cambiamento di rotta sia nell’architettura sia nell’urbanistica milanese, in primo luogo perché si tratta di un edificio di proprietà del Comune che si è scelto di recuperare con finanziamenti pubblici – anche se il Sindaco, in conferenza, ha ritenuto opportuno puntualizzare che con il ricorso a fondi privati il processo sarebbe stato più veloce – in secondo luogo perché si è scelto un recupero conservativo al posto di una ristrutturazione sostanziale o peggio ancora di una demolizione con ricostruzione. Durante la presentazione è stato dato grande rilievo al carattere di recupero totale del manufatto e alla sua valorizzazione tanto materica quanto spaziale, prevedendo partizioni aggiuntive necessarie per rendere possibile una rivoluzionata fruizione dello spazio nel rispetto del linguaggio poetico di Viganò. Anche se l’attuale reinvenzione spaziale non cancella totalmente i segni di una originale articolazione funzionale improntata a sistemi pedagogici ed educativi da tempo superati, resta il fatto questi segni possono essere accolti come spunto per incoraggiare la sperimentazione di nuovi e positivi modelli di relazione nelle residenze universitarie e più in generale negli spazi di relazione destinati ai giovani. In origine l’edificio si caratterizzava infatti per soluzioni innovative che si proponevano di mitigare il suo carattere di istituzione totale propria del riformatorio ricorrendo a sottolineare, tramite grandi vetrate, il rapporto tra interno ed esterno, separando lo spazio di vita dei ragazzi da quello di sorveglianza degli educatori e, infine, differenziando gli spazi destinati alle diverse funzioni pedagogiche.

Un discorso analogo ma opposto può essere fatto in ragione di come l’edificio si relazionava in origine con il contesto e come questo è cambiato nel tempo. Localizzato tra il Quartiere degli Olmi e Baggio, quest’ultimo conformato come un antico nucleo urbano poi inglobato nel Comune di Milano nel secondo decennio del secolo scorso, l’ex-Istituto Marchiondi si trova in posizione periferica rispetto al centro città, in una zona in origine contraddistinta da una carattere quasi rurale per la convivenza di un nuovo contesto peri-urbano con l’esistente paesaggio agricolo lambente la città storica. Connotato principalmente da complessi di edilizia popolare e medio-borghese – si veda per esempio il quartiere La Viridiana, progettato negli anni Settanta dagli architetti Luigi Caccia Dominioni e Vico Magistretti-, Baggio è sempre stato considerato come archetipo della periferia urbana. Le lente trasformazioni sociali odierne – con iniziative culturali all’interno dell’ex Ospedale Militare, cinema all’aperto e passeggiate organizzate all’interno del Parco delle Cave- e infrastrutturali – con il prolungamento della metropolitana previsto per il 2025- stanno progressivamente ri-centralizzando questa porzione di città. E’ in questi aspetti che giace la particolarità dell’operazione di rifunzionalizzazione dell’ex-Istituto Marchiondi in un nuovo studentato, in quanto, contrariamente ad altre realtà di residenza studentesca presenti a Milano, esso non si trova oggi né in aree di grandi trasformazioni urbane né in zone già interessata da fenomeni di gentrificazione, bensì in una zona periferica caratterizzata da processi ancora in divenire.

Casualmente, o forse no, la presentazione di progetto nobile e civile come quello del recupero del Marchiondi avviene poi in un momento in cui l’attenzione sul quartiere di Baggio è attirata anche da fatti meno nobili e civili riguardanti le tante trasformazioni e realtà del quartiere, come il sequestro da parte della Magistratura del cantiere delle Residenze Lac a confine del Parco delle cave, o le ombre che si proiettano sul destino della piazza d’armi della caserma Santa Barbara a motivo del difficile rapporto tra Comune e la società proprietaria dell’area, o, soprattutto, per le inchieste sulla intollerabile condizione dei giovani reclusi nell’istituto penale minorile Beccaria, che dista in linea d’aria dal riformatorio Marchiondi circa due chilometri. Non sembra, invece, un caso che alle caratteristiche morfologiche e sociali del contesto in cui si colloca il progetto si sia accennato quasi di sfuggita nella presentazione del progetto. Anche il breve filmato introduttivo, che si è soffermato dettagliatamente sul progetto architettonico con l’ausilio di rappresentazioni 3d, ha trascurato di raccontare della relazione dell’edificio con il quartiere, privilegiando l’informazione sui dati quantitativi dell’operazione e corredandola con immagini generiche reperibili in qualche banca fotografica del web.

Si è, invece, diffusamente trattato dell’utenza della risorta struttura, pensata per essere fruita da studenti fuori sede che rappresenteranno, a detta dell’Amministrazione comunale, una corposa fetta di popolazione futura e una risorsa per Milano. Questa narrazione dell’architettura non localizzata nello spazio e pensata per soggetti transitori dimentica tuttavia che la città è storicamente costruita e vissuta da una popolazione stanziale che concepisce la propria abitazione come “la casa”, in virtù del fatto che essa sorge in un preciso luogo, con un certo orientamento, in una strada ben caratterizzata dai suoi edifici e dai suoi servizi. E’ davvero un peccato che pensando al destino di questo edificio si aderisca acriticamente alla tendenza in atto a una sorta di elisione, nei fatti o nella narrazione, del paesaggio urbano come spazio del passeggio lento e della sosta. Una tendenza, questa, che si ripropone anche nel mondo del lavoro e dello studio, sempre più lontani da modi connotati da lentezza e riflessione. Una particolare attenzione all’interno del video di presentazione prodotto dal Comune è stata invece data al concetto di attrattività, intendendo con ciò la volontà di richiamare verso i luoghi dei nuovi progetti altri soggetti, tanto per una possibilità di residenza quanto per una significativa offerta di servizi destinati anche, se non principalmente, ai residenti del quartiere. Intento legittimo se non fosse per il fatto che il concetto di attrattività può essere declinato in modi tra loro molto diversi. Un conto è l’attrattività di un nuovo quartiere residenziale edificato con ricchezza di verde e di servizi e collegato al resto della città con un efficiente servizio pubblico; altro è l’attrattività di alcuni quartieri di Milano, come quello del Ticinese, dove l’attrattività si esprime con una esasperazione della presenza turistica, con il moltiplicarsi dei luoghi della ristorazione a discapito degli storici negozi, così da generare una condizione di disagio anche profondo nella persone che qui vivono.

Sorge il sospetto che attrattività rischi di diventare sinonimo di sostituzione, se non di espulsione. Un progetto come quello presentato per il cosiddetto Quadrilatero di San Siro autorizza questo sospetto, laddove il tema della riqualificazione di un quartiere ad alta criticità viene affrontato ricorrendo a un modello simile a quello di CityLife o Porta Nuova, senza un preliminare coinvolgimento degli abitanti di questo grande nucleo di edilizia popolare e il Municipio 7 in un progetto partecipato, coinvolgimento nato dalla consapevolezza che, se governati con intelligenza e interesse al bene comune, da situazioni di crisi possono nascere esemplari interventi di riforma urbana. Conseguentemente, il dissenso civile verso tali operazioni sembra avere come unico sfogo le tante associazioni di civili cittadini promotrici di iniziative di protesta, e le sempre più consuete e incisive pubblicazioni di inchiesta. Lo scorso anno il pamphlet L’invenzione di Milano scritto da Lucia Tozzi si è fatto voce dei tanti che denunciano l’attuale fase di trasformazione della città, puntando l’attenzione sulla generazione di immagini urbane glamour che si sostituiscono all’impegno che una pubblica amministrazione dovrebbe avere a incoraggiare e dirigere la realizzazione di affabili contesti urbani pensati per assicurare la migliore qualità della vita della persone che li abitano o che su di essi, per motivi di studio o di lavoro, gravitano.

Se si condivide questo modo di porsi nei confronti delle situazioni di criticità presenti nella città, il progetto del Marchiondi assume particolare importanza non soltanto per il suo riscattare dal degrado un significativo esempio di architettura ma, in primo luogo, perché comporta necessariamente una riflessione, oggi più che mai necessaria, sulla storia di modelli educativi applicati in passato a giovani definiti “problematici” e dunque collocati in spazi appositi e diversi, e sugli spazi entro i quali le nuove funzioni prenderanno vita. Spazi che non possono che essere ben diversi da quelli progettati da Vittorio Viganò per un edificio collocato ai margini della città, anzi, da essa allontanato, dove i giovani “ospiti” trascorrevano l’intera giornata all’interno degli ampi spazi della struttura che, seppur concepiti per essere il più possibile luminosi e accoglienti, mostravano una volontà di controllo in elementi come le passerelle aeree dalle quali gli educatori monitoravano comportamenti individuali e collettivi.

Ripercorrere la storia del Marchiondi, Istituto racchiuso in una struttura bella e luminosa ma impermeabile al mondo esterno, significa affinare la comprensione del valore politico della costruzione del concetto di “normalità” – di pensiero, di corpo, di comportamento e di sessualità-  e della responsabilità dell’architettura nel poter essere, a servizio di tale costruzione, uno strumento tanto di inclusività quanto di discriminazione in quanto riflessione materiale di un pensiero culturale del tempo. Significa riflettere sulla necessità di affrontare le problematiche giovanili nella grande città non soltanto in termini di repressione o di coercitiva prevenzione, bensì riflettendo e applicando un approccio al tema basato sull’empatia, nel solco di pedagogisti come Rudolf Steiner e Maria Montessori, ricordando che l’apporto disciplinare dell’architettura è sempre risultato, nel bene come nel male, fondamentale. In ultimo, significa sforzarsi di concepire spazi per l’apprendimento e l’accrescimento conoscitivo come spazi di vita collettivi che superino antiquate gerarchizzazioni di ruolo, di classe, di aderenza alla norma, rendendo l’architettura attività creativa al servizio della mutevolezza e fluidità della società.

Angelo Bugatti, architetto responsabile del progetto di recupero, ha puntualizzato con fermezza, a evitare una errata interpretazione del reale significato della proposta sua e dei suoi colleghi e forse per scansare l’omologazione con la narrazione proposta dai rappresentanti del Comune, che il progetto avanzato non deve essere incluso nell’incerto catalogo delle rigenerazioni, bensì inteso come una ossigenazione dell’originale progetto di Viganò, di cui un nuovo e più affabile utilizzo è reso possibile da un intervento capace di farne riemergere i forti valori formali e il profondo valore poetico, riproponendo con linguaggio attuale originali materiali e tecniche costruttive. Questo atteggiamento verso il recupero del patrimonio storico e culturale collettivo, enfatizzato anche dalla rappresentante della Soprintendenza ai beni archeologici, trova forza anche e soprattutto dalla sua attuazione attraverso risorse pubbliche, escludendo dunque contaminazioni con operazioni immobiliari generate da interessi esclusivamente privati. Per tale ragione sembra necessario che il Comune e il Collegio delle Università milanesi, cui sarà affidata la gestione del servizio, espongano un programma che sia conseguente alla proposta di ossigenazione presentata dallo Studio BCMA, dove il delicato recupero degli elementi architettonici sia pensato non in funzione di una mera valorizzazione dei valori di forma ma come indispensabile sostegno per un progetto di apertura verso istanze del quartiere che al momento più che assicurato viene auspicato. A questo proposito, sarebbe importante conoscere quale futuro viene prefigurato per il centro diurno per disabili attualmente ospitato all’interno di un edificio nell’area di intervento e adiacente la struttura, affinché un progetto concepito per ospitare non esordisca con l’allontanare. Ci si auspica dunque che il modello di partecipazione che si vorrà attivare con gli abitanti e le associazioni del Municipio 7 parta da un solido pensiero programmatico degli spazi interni che sappia inclusivamente prefigurare una vita per i nuovi ambienti, e non, come sta avvenendo per la futura Nuova Biblioteca Europea (BEIC), che gli architetti lascino il compito ai cittadini di riempire di funzioni un vuoto seppur scintillante involucro attraverso le classiche ma semplicistiche soluzioni partecipative delle tavole rotonde.

Non ci resta che restare in attesa, vigile, per verificare se quanto pensato dai progettisti e auspicato dalla Soprintendenza ai beni ambientali si realizzerà oppure se, ancora una volta, ci troveremo a fare i conti con un’altra enclave per (ricchi) studenti, avulsa dal quartiere e abitata da persone che, in assenza di un accattivante sistema di spazi e percorsi pedonali lungo il quartiere e dal quartiere, si adegua a una fruizione della città per balzi da un punto all’altro utilizzando – almeno questo è un dato positivo – la rete del trasporto pubblico. Da questo punto di vista, sebbene la resurrezione dell’edificio del Marchiondi, per quanto significativa, non sia, sotto il profilo degli investimenti, una delle grandi opere pubbliche di Milano, può tuttavia rappresentare un tassello esemplare all’interno del complesso sistema dei poli universitari milanesi. Tale possibilità coincide però con la capacità dell’architettura di attivare processi sociali oltre che educativi, attraverso i quali i suoi abitanti, anche se temporanei, possano sentirsi parte del quartiere e della sua comunità oltre che della città, partecipando alle attività sociali, impegnandosi in attività di lavoro attinenti al loro indirizzo di studi e non, e in ultimo, forse, anche decidere di stanziarsi permanentemente diventando così essi stessi parte della storia del quartiere.

Plastico dell’Istituto Marchiondi.
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