Recensione del libro “Giancarlo De Carlo/Attualità dell’opera”

UCTAT Newsletter n.25 – luglio 2020

di Francesco Karrer

Dopo un lungo percorso di studio, incontri e convegni sulla figura e l’opera dell’architetto Giancarlo De Carlo, soprattutto da parte di Federico Bilò, Antonio Clemente e Alberto Ulisse – i curatori del volume “GDC/Attualità dell’opera”, Sala Editori, Pescara 2020 -, quasi in coincidenza con il centenario della sua nascita, viene organizzata una giornata di riflessione alla quale partecipano anche molti studenti della Facoltà di Architettura dell’Università Gabriele D’Annunzio, sede di Pescara.
I curatori e gli autori che hanno concorso a comporre il volume (Antonella Alici, Alessandra Bianco, Claudio Varagnoli, Domenico Potenza, Donatella Radogna, Ettore Valdini, Franco Esposito, Lorenzo Pignatti, Luigi Mandraccio, Paola Misino, Pasquale Tunzi, Sara D’Ottavi), tengono una impegnativa giornata seminariale, nella quale l’opera di De Carlo viene sottoposta ad una lettura ricca e articolata.
Operazione quella della giornata seminariale coraggiosa non solo in sé, ma soprattutto perché svolta alla presenza di studenti oramai disabituati a misurarsi con le difficoltà di comprendere il pensiero e l’opera di una personalità quale quella di De Carlo, teorico dell’architettura e dell’urbanistica e delle complicate interrelazioni tra le due dimensioni ed attitudini, che deve avere chi si cimenta con la costruzione dello spazio fisico. Ma De Carlo è stato anche costruttore sapiente, non solo un teorico.
Abituati oramai al disegno quasi in sé delle forme spaziali, per gli odierni studenti di architettura risalire ai perché di quelle forme, cioè al pensiero del progettista (e del suo tempo, come da lui interpretato), è un esercizio divenuto non abituale.
La difficoltà del seminario stava anche nella comunicazione e quindi comprensione della modalità della rappresentazione delle forme spaziali dell’architettura di De Carlo, essenziali, senza alcuna compiacenza e ridondanza (anche grafica).
Minimali, ma dense. Ricognitive e progettuali insieme. Tutte da svelare, nell’ottica – come sosteneva Jean Buadrillard – di una sorta di “economia politica del segno”.
Pensare allo iato temporale tra il momento nel quale quelle figure sono state disegnate, colmarlo, per spiegarne il senso non è cosa semplice. I profili di lettura del pensiero e dell’opera di De Carlo, comprensivo del richiamo agli autori che hanno fatto la storia dell’architettura e dell’urbanistica nel mondo e contributo alla sua formazione, sia contemporanei che antecedenti il periodo storico nel quale ha agito De Carlo, sono molteplici. 
Gli autori del volume hanno evitato, opportunamente, di ricordare De Carlo persona, gentile e distante, a volte quasi scorbutico, cosa che probabilmente non sarebbe stata possibile a chi lo ha conosciuto, frequentato o ne ha sentito solo parlare al suo tempo. La figura che così emerge è tutta nel pensiero e nelle opere che ci ha tramandato.
Tra le quali non solo quelle dell’architetto ed urbanista, ma anche quelle del teorico dell’architettura e dell’urbanistica, del professionista colto, progettista multiscalare, capace di dominare tutta la complessità del costruire lo spazio fisico.
Mi riferisco alla grande attività di animatore culturale a livello internazionale, giustamente ricordata a partire dalla sua rilettura del CIAM di Otterlo del 1959, alla partecipazione ai lavori del Team X, alla organizzazione e animazione del laboratorio internazionale ILAUD, alla rivista “Spazio e Società” sino al premio Tercas (ricordato nel contributo di Esposito)  e di studiosi di grandi maestri, da Wright, a Le Corbusier, a William Morris e agli italiani Pagano e Persico, i suoi maestri più vicini ovviamente.
E, a proposito di formazione va la mia gratitudine personale, che non posso non testimoniare, per la possibilità che De Carlo ha dato agli studenti della mia generazione di conoscere il pensiero urbanistico nel mondo: la direzione della collana, per Mondadori, “Struttura e forma urbana” nella quale autori esteri potevano essere conosciuti anche a noi provinciali studenti italiani. Ricordo spesso che quando iniziai a studiare architettura il bagaglio dei libri internazionali disponibili in italiano era costituito da tre/quattro testi, classici ed ancora importanti oggi, ma certo non esaurienti per la comprensione del mondo.
La progettazione e realizzazione di collane, all’epoca, era considerato un impegno da parte di alcune personalità: Paolo Ceccarelli e Marsilio editori, Ludovico Quaroni e Mazzotta editori, Vittorio Gregotti e la Fabbri editori, ecc..
Opportunamente, nel libro si ripropone – lo fa Antonio Clemente nel suo contributo -, la copertina della collana “Struttura e forma urbana”. Che peraltro nel gioco di parole che sottende, esprime molta della complessità del pensiero di De Carlo. Con un modo che non è mai tramontato tra gli architetti ed urbanisti – un tempo comune a molti altri intellettuali, filosofi, sociologi ed anche giornalisti -, alle prese con il tentativo di svelare quale sia la struttura della forma e la forma della struttura. Non è un “calembour”, al contrario, è qualcosa di basico, fondativo. Soprattutto del rapporto tra l’architettura e l’urbanistica, oggetto notoriamente di tanta riflessione colta e nello stesso tempo di molto pressappochismo.
Bene fa Clemente nel suo contributo a ricordare il punto di vista di De Carlo in proposito: l’urbanistica precede e l’architettura segue, ma nell’urbanistica è in nuce l’architettura. Relazione che vale anche nel senso contrario.
I contributi dei diversi autori sono molto ricchi anche se brevi. Il che ne facilita la lettura. Difetta, forse la spiegazione del perché del taglio dei diversi contributi.
Il libro, stimola però a trovarne un senso, la interdipendenza.
Bilò, si cimenta nella ricerca del nocciolo dell’architettura di De Carlo, individuando nei termini: specificità, autografia eteroclita e centralità.
Misurandoli con i concetti di contesto ed ancor di più di luogo. De Carlo ha letto e progettato soprattutto luoghi, specifici, puntuali, superando il generico contesto. Ne deriva una sorta di minimalismo. Oggi diremmo di sobrietà: la sua architettura e la sua urbanistica sono “shrinking”.
La ricerca di Bilò è supportata –  ma il collegamento va svelato – dalla ricostruzione di Alici e Potenza; il primo indaga gli anni della formazione con lo studio di autori del livello appunto di Wright, Le Corbusier e soprattutto Morris. Il secondo, gli anni della maturità con i taccuini di viaggio, ripetuti, in Grecia. Alla ricerca di conferme.
La dimensione del disegno è indagata da Tunzi, che svela appunto la dimensione di sobrietà, di rifiuto di ogni ridondanza o di “over design” che sia. Il disegno di De Carlo è funzionale, serve a comprendere ed a progettare, anche per il cantiere, nelle opere ex novo come nei restauri di edifici antichi.
Vadini descrive il rapporto di De Carlo con il Mezzogiorno.  Il suo peregrinare tra Bari e Matera, per alcuni anni, a cavallo dell’inizio della seconda guerra mondiale. Ricorda il suo ragionare sull’abitazione e lo spazio rurale. È l’inizio dell’avventura che poi altri, intorno ad Adriano Olivetti, porteranno avanti dando luogo all’architettura neorealistica italiana. Prima sperimentata a Matera e dintorni e poi diffusa in tante periferie di città italiane. Al centro, sempre, la casa. Un obbligo per l’architetto appreso dagli insegnamenti di Morris. Nel contributo di Varagnoli vengono ricordati i precedenti dell’interesse di De Carlo per ciò che è “spontaneo”, depositato in gran parte nello spazio rurale: nel 1951 cura per la Triennale la mostra sull’architettura spontanea (Pagano nel 1936 aveva allestito una analoga mostra).
Pignatti illustra il cuore del Collegio del colle di Urbino. Cioè il sistema delle relazioni interne al Collegio prendendo spunto da un disegno che oggi leggeremmo utilizzando la teoria dei grafi/flussi di relazione. Anche nella ricostruzione della vicenda del progetto per il recupero del Monastero dei Benedettini di San Nicolò, l’Arena a Catania, riletta da Ulisse, si ritrova questo approccio alla comprensione della stratificazione tipica degli edifici antichi.
Il “Progetto guida di Catania induce al confronto con il Piano Programma per il centro storico di Palermo. A Catania De Carlo è «dominus», a Palermo deve vedersela con Samonà! I tratti metodologici essenziali non differiscono anche se si tratta in un caso di un singolo complesso architettonico e nell’altro di un intero centro storico.
La “struttura” (si ritorna al tema della struttura della forma e della forma della struttura) del Collegio, di Urbino fatta di relazioni, di flussi! De Carlo ne cerca la forma, in verticale ed in orizzontale.
Bianco, illustra una casa. In questo caso, borghese, quella del suo amico e grande animatore culturale nelle Marche, Livio Sichirollo. Una casa, parzialmente distrutta e ricostruita. Nel progetto ritrova l’unità tra il prima e il dopo nel paesaggio, nel luogo, che consente la ricostruzione del prima del luogo della casa e poi della casa stessa.
Che consente di superare le inevitabili diversità tra il manufatto di prima e quello di dopo.
Nel volume non si dimentica il De Carlo teorico e attore della partecipazione del pubblico nel processo progettuale. E’ questa forse la dimensione nella quale De Carlo realizza al massimo il pensiero e l’esperienza maturata in tante occasioni. Ed anche il suo carattere. Così come nella esaltazione dell’autocostruzione di cui scrive Varagnoli, messa in contrapposizione con la capacità di De Carlo di dialogare anche con agguerriti operatori immobiliari (il caso del progetto di Colletta di Castelbianco, ricostruito da Mandraccio). E, più in generale, con le varie committenze.
Nella partecipazione del pubblico/utente al processo progettuale di alloggi, c’è la capacità esplorativa – che tanto aveva riguardato i luoghi delle sue architetture -, ed ora il chi abiterà quegli alloggi.
Il metodo è lo stesso. Cambia il materiale. Anche nel caso della partecipazione del pubblico, c’è la conoscenza delle esperienze estere e la pratica dell’«advocacy planning» seppure limitata al caso di alloggi operai.
D’Ottavi e Radogna, si cimentano con questa capacità, in generale e nel caso di esperienze concrete: Villaggio Matteotti a Terni, soprattutto.
Il contributo di Misino affronta il tema degli Interni, indagato per mezzo del progetto di concorso per l’ampliamento del Museo della Storia locale di Salisburgo; un’architettura in ipogeo.
Oltre all’interesse in sé per quella esperienza, non coronata di successo, essa a me ha ricordato due piccoli episodi delle mie frequentazioni, rare ma preziose, ancora studente e poi giovane docente: il titolo del contributo mi ha fatto ricordare un po’ il clima degli anni dell’arrivo di De Carlo allo IUAV di Venezia.
Il “gioco” accademico – per l’urbanistica condotto a livello nazionale soprattutto da Astengo, Marconi e Piccinato -, fu tale che la prima cattedra che gli fu assegnata era proprio “Architettura degli Interni”!
Il secondo ricordo riguarda l’architettura ipogea propria del museo di Salisburgo.  Ragionando sugli spazi ipogei, i tunnel e le gallerie ferroviarie e autostradali – anticipando molto i tempi – una volta mi disse che questi andavano progettati pensando già in origine a quando non sarebbero serviti più come tali.
L’idea della riconversione, dell’economia circolare, iniziava già ad affacciarsi in lui. Grande intuizione a conferma che la conoscenza di quanto avveniva nel mondo ha sempre ispirato il pensiero di De Carlo: in questo caso la nascente cultura ambientalista espressa nello slogan “dalla culla alla bara”. 
Se non bastasse la qualità dei contributi, a volte, piccoli, ma efficaci cameo, molto intrigante è il volume in sé. Come fatto materico. Piccolo, pesante in rapporto alla dimensione, prezioso.
In epoca di virtualità, un piacere possederlo. Un omaggio ad una tradizione, anche un po’ narcisistica, ma che tanto importante è stata nella storia dell’architettura e, non posso non riconoscerlo, anche dell’urbanistica. Un libro quindi non solo da leggere, ma da conservare.