UCTAT Newsletter n.77 – aprile 2025
di Duccio Prassoli
Oggi, nelle scuole di architettura, una delle differenze più evidenti rispetto al passato – specialmente confrontando l’epoca pre-internet con quella attuale – riguarda il modo in cui gli studenti, in particolare quelli dei primi anni, cercano e scelgono i propri riferimenti progettuali.
Se in passato la formazione degli aspiranti architetti era inevitabilmente correlata a un’assidua consultazione di riviste e pubblicazioni nelle biblioteche degli atenei, oggi sembra invece orientarsi verso una ricerca condotta all’interno di una più liquida quanto apparentemente infinita libreria digitale. Complice l’immediatezza della ricerca e la pluralità di spunti visivi che in pochi minuti si possono ottenere, si può riconoscere l’avvenuto cambiamento di un paradigma. Dalle scelte formali a quelle tecnologiche per lo sviluppo dei progetti laboratoriali, si coglie spesso una certa superficialità nell’individuazione di soluzioni ritenute appropriate, trascurando quell’idea di conoscenza approfondita del progetto altrui che in passato appariva come necessaria in un’ottica decisionale. Un approccio che, se privo del necessario approfondimento al fine di apprendere la ragione di una forma o la scelta di un materiale, finisce per rilevarsi limitante. Vi è un parallelismo che si potrebbe fare utilizzando due termini inglesi che di primo acchito potrebbero apparire intercambiabili: shape e form. Il primo dei due rappresenta l’aspetto immediatamente percepibile dell’oggetto architettonico, orientato alla dimensione visiva e sensibile. Una descrizione che può essere intesa come ciò che uno studente, legittimatamene alle prime armi, tende ad assumere come riferimento. La form, invece, attiene all’organizzazione spaziale e strutturale, coinvolgendo la dimensione razionale e concettuale del progetto, e corrisponde al necessario approfondimento per comprenderlo appieno — un passaggio che talvolta manca durante i primi anni di formazione. È nella sintesi dialettica di questi due livelli – percezione ed intelletto – che l’architettura trova la propria espressione compiuta. Se la shape è ciò che seduce l’occhio, la form è ciò che convince la mente.
La modalità di reperimento dei riferimenti progettuali sopra descritta non è necessariamente da intendersi in senso negativo. Chi scrive questo testo, di fatto, ha seguito lo stesso percorso, utilizzando social network e siti internet come sostituiti di Casabella e Domus nei primi anni di accademia. Si tratta di un approccio apparentemente più rapido e libero rispetto all’obbligata ricerca cartacea che caratterizzava il secolo scorso. Un approccio che, inevitabilmente e fortunatamente, ci è oggi concesso e che permette a studenti e professionisti di ricercare soluzioni specifiche o specifici progetti con un ampio grado di facilità e immediatezza. Una condizione invidiabile ma che, tuttavia, come per ogni scelta nel nostro ambito disciplinare, richiede senso critico, al fine di poter interpretare, valutare e rielaborare consapevolmente quanto trovato.
Nel riflettere su questo tema, emergono sia aspetti positivi che negativi. In passato le riviste specializzate, poche e ben conosciute, si ponevano come unico verbo della cultura architettonica. Un prodotto editoriale sviluppato da persone colte e informate che davano una loro interpretazione più o meno lusinghiera di un progetto architettonico. Un testo, frutto di un’attenta ricerca sia in termini di informazioni che di critica. Ciò può essere considerato senz’altro come un pregio e di fatto è un qualcosa che continua a sussistere; tuttavia, si rende necessario essere consci che – oggi come in passato – la selezione dei progetti e dei testi che appaiono su carta è veicolata da linee editoriali ben definite e che limitano lo spettro delle pubblicazioni a quelle produzioni architettoniche coincidenti con gli interessi della rivista stessa. Quanto detto non vuole essere una critica e a mio avviso risulta in linea con quanto ci si dovrebbe aspettare da una rivista di architettura con a capo personalità di grande rilievo come è successo in passato. È necessario però, come già detto, avere il giusto senso critico e la consapevolezza che la produzione architettonica non si limita unicamente a un certo tipo di progetti. Contrariamente, le piattaforme digitali offrono – nella maggior parte dei casi – un più democratico e ampio repertorio di opere, ma a scapito di una selezione e di un approfondimento testuale necessario per comprendere appieno il progetto. I siti internet settoriali, che propongono i lavori di professionisti di tutto il mondo, sono spesso accompagnati da testi scritti dagli stessi progettisti, il che limita la lettura a una narrazione celebrativa e priva di una critica oggettiva. Esistono inoltre piattaforme in cui sono gli stessi autori a pagare per pubblicare i propri lavori, trasformando tali spazi in raccolte prive di un filo logico, in cui i progetti non vengono selezionati in base alla qualità, ma alle necessità economiche delle piattaforme stesse. Infine, i social network, che si concentrano più sulle immagini che sui testi, operano secondo algoritmi proprietari (il cui funzionamento spesso resta oscuro), e riflettono i gusti personali di chi le pubblica.
Ciò che si perde, dalla mancata consultazione delle riviste, oltre ai progetti selezionati – le cui descrizioni offrivano un quadro complesso dell’opera – sono gli editoriali, i punti di vista e quei testi che, pur non parlando direttamente di progetti, riflettevano la posizione dell’autore nel dibattito architettonico. Cosa, quest’ultima, che a mio avviso è oggi rarefatta se non del tutto assente. Un azzeramento che, non delegittimando nulla, finisce per approvare indiscriminatamente ogni cosa, determinando la medesima liquidità che è propria agli studenti nella scelta dei loro riferimenti.
Vorrei condividere una proposta che potrebbe essere interessante e utile per comprendere meglio, anno dopo anno, gli orientamenti degli studenti delle scuole di architettura. Chiedere a questi ultimi, alla fine dell’anno accademico, la stampa di una reference che abbiano fatto propria durante i corsi di progettazione. Una sorta di esperimento alla Mnemosyne-Atlas di Aby Warburg, in grado di ricostruire una memoria culturale – attraverso immagini – per valutare nel tempo l’orientamento delle classi nonché la presenza di correnti iconografiche prevalenti.

