UCTAT Newsletter n.70 – SETTEMBRE 2024
di Alessandro Ubertazzi
Sono sempre stato animato da una grande curiosità. Con i miei occhi ho visto il mondo: l’ho letto per poi estrarne un succo squisitamente umano.
In realtà, ancora oggi, un bravo progettista dovrebbe avere grande capacità e conoscenze tecniche tali da poter leggere con occhio colto, “rinascimentale”, la realtà che gli sta intorno.
Uno dei motivi per cui il nostro Paese è affascinante ed è considerato bello non risiede tanto nella naturalezza dei suoi luoghi quanto nella loro artificialità. Tra i luoghi che possono essere definiti perfettamente naturali non vi è più nemmeno la cima del Monte Bianco: quelli che conosciamo e viviamo normalmente come “paesaggi” sono il frutto di un incessante, immenso lavoro umano che dura da almeno tremila anni: derivano da una grandiosa fatica e da una straordinaria capacità di volgere intelligentemente a fini utili la natura che ci comprende.
Nei paesaggi del nostro Paese ci sono moltissime tracce che sottovalutiamo regolarmente ma sono proprio quelle che ci attirano: si tratta di un vastissimo spazio caratterizzato da peculiarità che si manifestano diverse di luogo in luogo, di città in città.
La valorizzazione delle risorse del territorio si è così moltiplicata in meravigliosi casi di bellezza e di coerenza.
In realtà, la bellezza è un fatto molto strettamente legato alla sensibilità personale e alla cultura di ciascun essere all’interno della collettività cui appartiene.
Peraltro, ci sono molti tipi di bellezza: profonda, stratificata, virtuale, poco profonda, poco radicata.
Per l’essere umano, la bellezza è una cosa sicuramente necessaria quanto l’aria che respira. Ognuno ha la sua, risultato di una propria propensione, di una propria attitudine a guardarsi intorno ma soprattutto a porsi nei confronti degli altri.
Ognuno di noi ha una propria identità e, se questa non è sottoposta ad alterazioni forti e traumatiche, si evolve secondo le leggi della natura tanto che ciascuno si riconosce nella sua continuità e nella sua graduale diversità.
L’immagine è quella parte del nostro aspetto derivante dal suo utilizzo cosciente: è ciò che noi vogliamo si veda di noi non solo nel confronto con gli altri ma anche con noi stessi. Tutti noi siamo incessantemente sospinti a modificare il nostro aspetto per sentirci “a posto”, appropriati, adatti, graditi o seducenti. La bellezza è quindi il risultato di uno sforzo culturale, di un progetto della propria persona più che qualcosa che esiste a priori e che ci viene proposto dall’esterno.
Per me, che col tempo sono diventato sempre più esigente, la cosa più importante di una donna è che essa parli, che si esprima, che, al di là delle sue regolarità fisiche o della sua aderenza a certi canoni, sia in grado di riferire dei propri stati d’animo, del proprio pensiero, della ricchezza che ha dentro di sé. E’ evidente, a chi la vuole intendere, che questa condizione si rivela da lontano.
Ci sono probabilmente degli esseri umani deboli ai quali l’intelligenza altrui fa orrore e che si accontentano dell’esteriorità, del canone, delle proporzioni delle fattezze. lo non mi accontento di questo, non mi importa proprio. Anzi, devo dire che diffido davvero di questa condizione e la considero perfino pericolosa.
Il riconoscimento della altrui bellezza riguarda come noi ci aspettiamo che le persone debbano essere fatte per appartenere a una collettività che condivide molti valori e molte conquiste e, al tempo stesso, è qualcosa suscettibile di incremento, di miglioramento, di lavoro.
Potenzialmente belli si nasce; belli, però, si diventa. Ho conosciuto persone non perfettamente proporzionate, non precisamente vicine al canone della bellezza greca, ellenistica, ma decisamente belle e affascinanti. Ci sono persone che, nella loro sottile imperfezione, sono belle come non può essere bella una persona dai tratti regolari che, al contrario, appare perfino stucchevole. La bellezza è un nostro giudizio di completezza psicofisica sugli esseri che ci stanno intorno, essa è fortemente accentuata dalla bellezza mentale, dalla ricchezza interiore.
Il governo e il controllo della propria immagine portano alle conseguenze più diverse: vi sono ad esempio delle popolazioni che ritengono di essere negativamente difformi dal canone accettato dai più che oggi sembra esser quello corrispondente alla cosiddetta civiltà occidentale dei consumi. Ci sono popolazioni (come, per esempio, la cultura giapponese e anche quella cinese) che desiderano allinearsi con questo tipo di visione. Quelle popolazioni si sono infatti accorte che, oggi, ci sono altre forme di bellezza diverse dalle loro tradizionali e, di conseguenza, oltre alla chirurgia funzionale hanno accelerato perfino la clinica e la chirurgia dell’aspetto.
Diversamente dal passato, oggi esistono delle alternative alle culture locali e si avverte la curiosa tendenza che esse manifestano ad uniformarsi al suddetto modello occidentale. La bellezza non può essere considerata un valore assoluto mentre il desiderio di bellezza è, comunque, una esigenza fondamentale dell’essere umano.
Naturalmente esistono varie “vie” alla bellezza.
Caratterizzarsi e quindi omologarsi a una comunità è certamente un bisogno naturale dell’essere umano quanto quello di distinguersi da tutti gli altri. Basterebbe infatti omologarsi ai caratteri specifici del gruppo e trovare al suo interno la propria diversità.
Secondo me non c’è niente di più desiderabile della diversità.
La bellezza dell’abito e del modo di portarlo non dipendono dalla firma che c’è sopra. Mi piace che una persona indossi un abito perché è bello e non perché esso reca una certa firma: non sempre, infatti, le firme garantiscono bellezza.
Dobbiamo fare una distinzione tra la bellezza degli oggetti e quella delle persone. Le persone hanno il compito umano di entrare in rapporto con le altre, di parlare di sé e, di volta in volta, di essere aggiornate, attuali, appropriate, coerenti. Gli oggetti, invece, se sono belli continuano ad esserlo.
Indubbiamente la bellezza è qualche cosa che dall’umano si trasfonde poi nell’architettura. Credo che, implicitamente, ogni architetto metta nelle sue opere quell’ideale di bellezza che ha vagheggiato nella vita attraverso le donne o gli uomini che ha conosciuto. Ognuno di noi architetti porta, nella proposta progettuale, gli aneliti e le speranze, i desideri e perfino i sogni di bellezza che gli competono. In questo senso l’architettura potrebbe essere letta come l’archivio delle bellezze pensate, delle bellezze conosciute e poi materializzate.
L’oggetto è frutto di un processo intellettuale come quello del design e non può non prescindere dalla ricerca di una grande e sintetica semplicità. Quando un oggetto ap-pare eccessivamente ridondante o di forma troppo complessa, sicuramente lì non c’è design e soprattutto non c’è bellezza.
L’arte non ha solo il compito di darci la bellezza ma, soprattutto oggi, anche quello di consegnarci delle idee e, per me, queste sono la vera bellezza. L’arte non ha l’appannaggio della bellezza bensì della proposta delle idee, il racconto delle vicende del mondo, del proprio tempo.
Nota.
1.
Questo testo è tratto e rielaborato da Elogio della bellezza nella intervista rilasciata da Alessandro Ubertazzi a R. Sanvincenti in “Must” n. 18 (Speciale Beauty), DDE, Milano, giugno-luglio 2009, pagg. 48-49; esso è stato ripreso anche nel testo Riflessioni sulla bellezza, pubblicato in “Notes” n. 21 dall’Ordine degli Architetti della Provincia di Lecco, marzo 2010, pagg. 3-4.
Le immagini sono tratte dal testo di Elisabetta Benelli (a cura di) “Bellezza, eleganza e lusso; design e moda nel pensiero di Alessandro Ubertazzi”, Alinea Editrice, Firenze, novembre 2009, Codice ISBA 978-88-6055-420-8.
Opere della collezione di Alessandro Ubertazzi:

“Danzatrice”.
Opera anonima in alluminio fuso (h. 170 mm) di evidente gusto futurista forse parte di un trofeo.

“Contenitore per talco”.
Contenitore in ceramica smaltata (67x122x80 mm) [manifattura italiana?] anni ‘30-’40.

“La giovinezza e la vecchiaia”.
Placchetta raffigurante la bellezza e il decadimento di una “vanitas” (diam. 89 mm) in bronzo fuso a cera persa; area fiamminga, XVI secolo.

“Nudo femminile sorridente”.
Placca tonda di bronzo “fuso in terra”, non firmata né datata (diam. 156 mm), probabilmente usata anche come posacenere, ambiente italiano, inizio del XX secolo.
