UCTAT Newsletter n.26 – settembre 2020
di Paolo Aina
SLP, SU, ST, SF, SQ…
Sono questi i parametri a cui tradizionalmente si fa riferimento quando si inizia a progettare un edificio, un quartiere, un pezzo di città.
Sono parametri quantitativi in vigore da molto tempo che non prendono in considerazione le qualità che un progetto può avere se non possono essere tradotte in numeri.
Il territorio è inteso solo in termini economici come fonte di reddito, una superficie astratta, un tempo stesa sulla carta da lucido e ora illuminata sullo schermo di un computer.
La triade vitruviana: utilitas, firmitas, venustas trasformata dalla modernità in funzionalità, tecnica/tecnologia e linguaggio ha finito per diventare autoreferenziale e abbruttente.
La pioggia, il sole, il cielo, gli alberi, la Terra stessa non sono inclusi; alle difficoltà che l’ambiente può mettere in campo si fa fronte con la tecnica/tecnologia; costruire un edificio, una città non ha più bisogno di confrontarsi con il Mondo, risponde solo ai parametri prodotti dallo stesso metodo costruttivo che sembra perseguire e superare qualsiasi impossibilità.
Lo sforzo di ingegnerizzazione e di produzione di nuovi materiali a volte porta a concepire e realizzare qualcosa che è fine a se stesso: oggetti più che edifici, quartieri che sono popolati da pezzi di design separati da spazi verdi anch’essi progettati non per essere vissuti ma per essere guardati: panchine dove è impossibile sedersi perché sono piazzate al sole, spazi che non rimandano a nessuna vista, solo slarghi alla fine di percorsi assolati.
Guardare senza usare sembra essere l’unica possibilità che ci è data, fermarsi è possibile solo a pagamento, la città da posto dove stare insieme si è trasformata in un supermercato.
Questo modo di procedere ha portato ad una situazione imbarazzante, le città sempre più estese e mal costruite recano notevoli danni; si sono trasformate in isole di calore, hanno impermeabilizzato il suolo, hanno reso difficile la vita agli alberi, agli animali e agli abitanti.
Gli eventi degli ultimi mesi hanno svelato ciò che a lungo abbiamo dimenticato: la Terra, il Mondo con la sua continua trasformazione e con l’indomabilità della vita che ha dimora su di esso.
Prendere coscienza di questo ci riporta indietro nel tempo quando la costruzione delle case e delle città doveva per forza venire a patti con l’intorno esistente, da qui l’analisi del fegato degli animali e le altre pratiche di fondazione.
Ricorrere alla “magia” non è proprio nelle corde della modernità, analizzare però la direzione dei venti, la percentuale di umidità dell’aria, il soleggiamento e le temperature stagionali, la quantità della pioggia, la misura dell’inquinamento atmosferico queste sono analisi che andrebbero considerate e dovrebbero far parte dei brief progettuali con le indicazioni funzionali e quelle del significato che vogliamo attribuire ai manufatti.
Se le pratiche di analisi del terrestre sono facilmente ricavabili dai dati che vengono raccolti da svariati enti e la funzionalità degli edifici e dello spazio pubblico è ben manualizzata dall’inizio delle pratiche costruttive, il significato che i manufatti vogliono esprimere è un campo minato delimitato dai sacerdoti del linguaggio architettonico.
Fin dall’inizio, costruire ha significato oltre che darsi un riparo anche darsi un posto e un’identità. Ognuno articolava questi presupposti come meglio credeva all’interno di una libertà collettiva delimitata dallo spazio fisico che la costruzione avrebbe occupato.
Le città europee avevano una varietà di forme e colori di cui ammiriamo ancora oggi gli esiti e spazi in cui ancora oggi ci si sente benevolmente accolti.
Pare che questo variegato disordine non sia più gradito, le amministrazioni tendono o ad un ordine noioso o verso l’esaltazione delle acrobazie costruttive.
La costruzione è diventata “architettura” e si è ossificata in un linguaggio che poiché ha dei canoni esclude la spontaneità e l’ingenuità dell’errore e con essi la tenerezza che le vecchie città ci comunicano.
Se alla sua nascita l’architettura moderna ha generato speranze con il proposito di migliorare la casa e la vita di tutti ora con l’inseguimento del “si fa perché si può fare” la pratica dell’architettura, intesa dal coté del dare un senso agli edifici e allo spazio che generano, ha perso credibilità.
Ricominciamo con umiltà ad ascoltare i bisogni: quelli della cura per la vita dell’ambiente, quelli del bisogno di un benessere legato allo spazio, quelli del capire e del farsi intendere con semplicità,
quelli del rafforzare l’identità della comunità e della città raccontando le sue storie.
Dimentichiamo l’impossibilità di costruirsi una veranda, quella di abitare in un loft, quella di piantare alberi esotici nel proprio giardino, quella di dipingere le facciate di un colore inusuale, quella di avere dei balconi non striminziti…
Il primo passo del viaggio per un nuovo modo di costruire, un nuovo modo di fare architettura e di fare l’architetto per ringiovanire questa antica disciplina è quello che ci racconta Marcel Proust:
“Il solo vero viaggio, il solo bagno di Giovinezza, non sarebbe quello di andare verso nuovi paesaggi, ma di avere occhi diversi, di vedere l’universo con gli occhi di un altro…”
