Ruralità come valore umano. L’antitesi città-campagna e le sue alterne vicende nel tempo

UCTAT Newsletter n.71 – ottobre 2024

di Alessandro Ubertazzi

La sorprendente quantità e varietà dei paesaggi che conosciamo e che abitiamo è il frutto diretto di quella civiltà contadina che informa ancora oggi profondamente i nostri comportamenti e, più in generale, la nostra cultura.

Nonostante già dalla fine del 1700 in Inghilterra (e assai più tardi nel nostro Paese oltre che nel resto del mondo occidentale) abbia cominciato a manifestarsi quel fenomeno fortemente innovativo che gli storici sono soliti definire “Rivoluzione Industriale”, le città che ci ospitano sono sostanzialmente dimensionate su di un sistema di comunicazioni rapportato al ripetitivo e conservativo mondo agricolo. Si spiegherebbero così le aspre contraddizioni evidenziate dai centri storici delle città antiche, che sembrano collassare sotto la spinta sempre più incontrollabile di una generale richiesta di mobilità.

L’antinomia città-campagna esprime tuttora in modo semplice la complementare diversità del sistema rurale da quello urbano, ma i termini del problema cominciano a mutare significato.

Il potente desiderio di “nuovo”, che si era rivelato con l’ingresso nel XX secolo, aveva indotto i Futuristi a intravedere nella macchina e, soprattutto, nel movimento, nella velocità e nel coraggio nuovi miti d’un mondo che volgeva ormai le spalle all’Arcadia.

Eppure, durante il regime fascista, l’Italia (che aveva ospitato le più innovative avanguardie artistiche dei nostri tempi) sostanzialmente riprendeva, enfatizzandolo, il vecchio mito della “terra”, seppur coniugato a quello della “macchina”: spesso, nella iconologia propagandistica, contadini in primo piano spiccano a torso nudo sullo sfondo di un oceano di spighe mature, forse accompagnati dal ruggito delle mietitrebbie.

L’ipotesi vagheggiata di conquistare un impero sembrava allora fondarsi su un esercito armato più di vanghe che di baionette e comunque su una idea di agricoltura “madre della società” cui faceva da contraltare un’industria “matrigna”, tetra e inquietante, quale veniva magistralmente raccontata da Sironi.

Era il periodo in cui, non solo nel nostro Paese, l’agricoltura cercava nuovi spazi con un formidabile impegno di “bonifica”, che riprendeva la tradizione, iniziata nel neolitico, di sottrarre territori alla natura selvaggia, alla natura naturale.

In quel tempo le bandiere di molti partiti socialisti si fregiarono del martello e della falce quasi per ribadire simbolicamente l’alleanza degli operai con gli agricoltori (2): questi ultimi costituivano, peraltro, la gran parte della popolazione attiva.

Al di là degli schieramenti, la fine del secondo conflitto mondiale sanciva immancabilmente il gap tecnologico-culturale accumulato dai protagonisti della guerra: la ricostruzione e la messa a profitto delle cognizioni tecnologiche acquisite con l’occasione avviarono le città di cultura occidentale al fenomeno della conurbazione: masse umane sempre più consistenti furono sottratte alla campagna per essere coinvolte nel processo di industrializzazione.

Nel frattempo la riforma agraria, concepita per una equanime ridistribuzione del bene agricolo a coloro che vi erano effettivamente addetti, innescava di fatto un forsennato e involutivo processo di parcellizzazione delle campagne, le cui conseguenze si lamentano ancora oggi: essa, infatti, inibisce una moderna e diffusa produttività.

Fin dalle prime trasmissioni EIAR, attraverso le quali già all’inizio degli anni Trenta l’Italia contribuiva alla nascita della comunicazione di massa, il Regime aveva emesso una profetica sentenza: “il villaggio deve avere la radio”. Curiosamente, proprio all’interno della più contadina delle certezze si annidava il germe che avrebbe letteralmente sconvolto i millenari equilibri secondo i quali l’agricoltura sembrava significare solo nutrimento: di fatto essa corrispondeva a una visione del mondo.

La città globale di cui si parla, cablata e interfacciata, tende oggi a coincidere con tutto il territorio abitato dall’uomo: obbiettivamente, prima la radio e poi gli altri media (fra cui eminentemente la televisione) resero progressivamente equipollenti tutti i luoghi umani.

Nel frattempo, l’antitesi “città-campagna” subì alterne e curiose vicende.

Quasi per sconfiggere l’inabitabilità e l’anti-igienicità delle antiche città inglesi ma soprattutto di quelle coinvolte dalla prima rivoluzione industriale (tristemente famose per i loro malfamati slums) l’architetto Howard aveva introdotto un modello insediativo-residenziale che avrebbe avuto col tempo uno straordinario successo in tutto il mondo: la città-giardino. Si trattava di una indefinita sequenza di case unifamiliari accostate, dotate di un piccolo giardino sul fronte e di un orto sul retro: la campagna dunque veniva alla città, vi entrava sminuzzata in mille campicelli privati.

Più che per la disponibilità del piccolo orto o di un frammento di verde, la ragione del successo di questa pseudo-urbanistica (che, oltre ad aver improntato vaste parti di città di tutto il mondo, ha codificato la “casetta unifamiliare” tanto cara alla cultura anglosassone) consistette, e consiste tuttora, in una sorta di idealizzazione della campagna, nella sua trasformazione in stereotipo.

Mentre con l’avvento della città-giardino la contrapposizione fra città e campagna sembra risolversi nella crasi fra le due realtà, è con lo sviluppo dell’idea di vacanza che si manifesta di nuovo, prepotentemente, la ricerca di valori alternativi all’urbanesimo. Forse sospinti dalla necessità di un benefico rapporto con gli elementi naturali, sappiamo che furono soprattutto gli Inglesi, nel periodo fra le due guerre, a inaugurare l’epopea delle vacanze intese come rito sociale che esorcizzasse l’alienazione urbana e costituisse un timido e generico tentativo di abbandonarsi alla naturalità. Peraltro, già in passato la villeggiatura costituiva uno svago abituale presso le classi più abbienti: essa implicava il semplice ritorno ai luoghi agricoli che erano stati spesso anche la culla della famiglia e certo la loro fortuna. E’ in quel contesto culturale che si sono formati vocaboli come “villa”, “villano”, “villereccio”; mai come in quel momento città e campagna furono luoghi tanto differenti e distinti.

Lo sviluppo frenetico, che l’edificazione ha evidenziato nelle città di natura occidentale dal secondo dopoguerra a oggi, non spiega da solo il sorgere di un prepotente bisogno di ruralità soprattutto alla luce del processo di “equalizzazione” di tutto l’ambiente umano.

Per molti versi la costituzione di una nuova alleanza fra l’uomo e l’ambiente “naturale” ha il suo parallelo nella evoluzione della vacanza di massa, sia al mare che in montagna.

In armonia con il pluralismo culturale che si sta affermando in tutte le manifestazioni umane rispetto ai modelli di vacanza praticati fra le due guerre, quello odierno si è fortemente diversificato nelle correnti accezioni: vacanze di massa propriamente dette, vacanze culturali, vacanze estreme, eccetera. La vacanza costituisce comunque un ritorno del corpo alla natura, la sua liberazione, la ricerca della sua espressività e della sua comunicatività. Rispetto alla rituale ma superficiale affermazione della necessarietà della campagna (che precede la insorgenza delle istanze ecologiste) oggi la ruralità è una richiesta di emozioni articolate e complesse che può essere assimilata al desiderio di un rapporto significativo con il proprio contesto, con il proprio ambiente.

Superata la dicotomia città-campagna, emerge oggi la problematica dell’ambiente nella sua globalità: la generica e astratta nozione di “territorio” (che deve essere semplicemente “pianificato” secondo matrici di ordine quantitativo) viene progressivamente sostituita con quella più completa e complessa di “ambiente” (che deve essere “progettato” per divenire contesto umano).

L’attività di pianificazione territoriale (che dispone quantità su aree considerate geometricamente) viene gradualmente integrata o sostituita da quella della progettazione ambientale (che è essenzialmente una operazione culturale vólta a introdurre nel contesto umano livelli ragionati di qualità).

La semplice pianificazione territoriale ha tuttavia dissipato importanti risorse ambientali, incurante dei valori e delle qualità che esse manifestavano: se si prescinde da quello edificato (che coincide con la città propriamente detta e che pure presenta complesse problematiche di tutela o di valorizzazione), tutto il resto dell’ambiente umano consiste in una vasta gamma di manifestazioni: si tratta di ibridi dovuti alla intersezione dell’attività dell’uomo con la natura.

In un paese come l’Italia, abitato da millenni, quasi tutto il territorio extraurbano è il frutto affascinante di scelte umane, è “natura artificiale” con l’eccezione di poche porzioni inaccessibili; la gran parte del paesaggio che ricordiamo e desideriamo porta le tracce evidenti d’una incessante operosità, di una diffusa antropizzazione che ha profondamente modificato il contesto originario.

Il fascino dei paesaggi (del nostro e di altri ambienti di analogo spessore culturale) risiede proprio nei significati che essi nascondono e che, sempre più spesso, l’umanità vorrebbe frequentare, conoscere e apprezzare.

La ruralità potrebbe essere definita come il complesso di manifestazioni umane fondate sulla produttività della terra. In questo senso i termini “rustico”, “campagnolo”, “paesano”, “campestre”, “villano”, “agreste”, “pecoreccio”, “cafone”, “villico” e “bifolco”, che pure rivelano specificità di riferimenti a tutto o parte del fenomeno, sono però da considerarsi equivoci, riduttivi o detrattivi della sua appetibilità soprattutto culturale.

Il crescente desiderio collettivo di difendere l’ambiente, questo ambiente significante, dallo scadimento e da una irragionevole quanto inutile violazione corrisponde, forse inconsciamente, alla volontà di una riappropriazione delle radici da cui stiamo rapidamente distaccandoci.

Il discorso può portare comunque lontano soprattutto se si indaga sulle responsabilità che esso evidenzia.

Lo spettacolo della natura artificiale, lo spettacolo del lavoro umano sulla terra per trarne frutti e per rendere domestico l’ambiente naturale (anche con l’aiuto della macchina e, certamente, anche con modalità industriali) coincide con la manifestazione della ruralità in quanto alto valore umano oggettivo, in quanto storicizzato insegnamento di coerenza comportamentale.

La incentivazione delle forme spettacolari (o anche solo eloquenti) fra le mille accezioni di realtà rurali che raccontano la storia dell’uomo, dovrà essere riconosciuta come forte urgenza tanto per gli studiosi quanto per gli amministratori.

I primi dovranno classificare, censire e interpretare i luoghi da difendere o da valorizzare; dovranno proporre modi corretti per sostenere economicamente realtà antropologiche significative ma non necessariamente gratuite; dovranno insegnare i modi per salvare necessari documenti di umanità dalla distruzione o da una inopportuna metamorfosi. I secondi dovranno accogliere con intelligenza le reliquie di una antica ruralità e al tempo stesso accorgersi della necessità di accedere a una nuova ruralità fondata sulle macchine, non meno significativa della prima; dovranno, ad esempio, riflettere sul significato di “parco” che non è solo uno strumento di tutela di generici valori naturalistici ma soprattutto di eloquenti valori umani che devono essere costantemente rielaborati, all’interno di precise regole.

Troppo spesso nel nostro Paese la bellezza artificiale non viene apprezzata e viene confusa scioccamente o furbescamente con la bellezza naturale: in tal senso, un bosco coltivato secondo antiche regole forestali non è un importante bene di genere naturalistico bensì di tipo antropologico, ancorché ottenuto impiegando specie vegetali.

Checché ne dicano i “soloni” di un ecologismo miope e settario, boschi coltivati sono tipici esempi di manufatti umani disponibili a impieghi nuovi, più complessi e intelligenti che non possono essere sbrigativamente classificati e vincolati come intangibili realtà naturalistiche.

E’ utile infine ricordare che il tanto divulgato “agriturismo” è uno dei modi, oggi in voga, per accostarsi al mondo rurale: noi preferiremmo che, da semplice contatto con la

natura agreste, questa prassi evolvesse verso forme di più completo rapporto con il mondo rurale e le sue problematiche, con i suoi valori, e perciò divenisse un modo cólto (che implica, fra l’altro, la formazione di nuova occupazionalità) per incontrare la storia dei luoghi dell’uomo.

Milano sud, Stefano Topuntoli, 08/09/1988.

Note.

1.

Questo testo costituisce sostanzialmente la riedizione di Ruralità come valore umano. L’antitesi città-campagna e le sue alterne vicende nel tempo, in “HF Habitat Flag” n. 2 anno VII, Calegari, Milano, febbraio 1991, pagg. 54-61.

2.

Curiosamente la DDR (la Repubblica Democratica Tedesca) volle distinguersi da quella iconografia assumendo come simbolo nazionale un compasso con il martello per sottolineare un’esplicita differenziazione tecnologica dal modello sovietico ancorato a una visione fortemente agricola dello sviluppo.

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