UCTAT Newsletter n.57 – GIUGNO 2023
di Filippo Angelucci
Con il verbo attrezzare, tecnicamente, si rimanda a una molteplicità di azioni progettuali che, in una città, sono finalizzate a garantire l’accesso alle risorse e ai servizi necessari per la vita urbana collettiva. Nell’accezione ordinaria dell’espressione “attrezzature collettive”, come definita a partire dalla Circolare 425/1967 del Ministero dei Lavori Pubblici, nel Decreto Interministeriale 1444/1968 e nei successivi strumenti legislativi, attrezzare diventa sinonimo di dotazione di infrastrutture di urbanizzazione primaria e secondaria per la collettività, nel rispetto di quantità minime standard. Tuttavia, senza entrare nel merito dell’evoluzione del concetto di attrezzatura a uso collettivo o delle specifiche difficoltà del reperimento delle aree da attrezzare e delle eventuali indennità di esproprio da risarcire ai soggetti privati (Clemente, 2011, https://wikitecnica.com/attrezzature-territoriali-e-urbane/), ancora oggi, finanche negli ultimi aggiornamenti del Testo Unico dell’Edilizia, il termine continua a sottendere evidenti difficoltà d’interpretazione.
Alcune di esse scaturiscono dalla diversità di contenuti, implicazioni e ricadute sugli spazi della città che si riscontrano nel ricomprendere reti, impianti e spazi verdi attrezzati in un’unica categoria delle opere di urbanizzazione primaria. Analoghe difficoltà emergono dall’accorpare nella non meno eterogenea categoria delle urbanizzazioni secondarie voci quali scuole, asili, attrezzature commerciali, sanitarie, religiose e culturali o spazi e parchi attrezzati di quartiere. Altre complessità sono riconducibili alla necessità di superare il concetto di attrezzatura come insieme di risposte esclusivamente basate su parametri quantitativi di soddisfacimento di indici, standard, indicatori di prestazione; prassi queste ultime che, perfino nelle migliori condizioni di puntuale rispondenza alle norme, non sembrano aver sempre garantito oggettivi livelli d’innalzamento della qualità di spazi e servizi urbani.
L’attrezzare porta con sé significati e contenuti ben più ampi. Come si riscontra in rete e nella letteratura specialistica o grigia, è il verbo stesso “attrezzare” che rimanda alla possibilità di stabilire nello spazio della città sia relazioni immateriali, sia connessioni fisiche da intessere tra le diverse entità artificiali e naturali che interagiscono in un contesto urbano. Il significato del verbo è legato direttamente al termine “attrezzo” che si fa risalire al francese antico attraits (attratti)proveniente dal verbo latino attrahĕre (tirare a sé, attrarre). Da queste radici etimologiche sembra che, sia l’oggetto dell’attrezzare, sia lo stesso contenuto dell’azione possano essere interpretati non solo in termini di giustapposizione di dispositivi tecnici per compiere specifiche attività.
Gli attrezzi, le attrezzature si portano con sé, sono o dovrebbero essere rimovibili, ma assumono anche un ruolo di attrattori. L’attrezzare comporterebbe tra le sue finalità l’attrarre flussi, funzioni, persone, energie. È in tale contesto che si gioca un altro passaggio fondamentale, come precisa il vocabolario Treccani, nel distinguere fra l’attrezzamento (https://www.treccani.it/vocabolario/ricerca/attrezzamento/) quale operazione e modo di fornitura di attrezzi e strumenti per svolgere determinate azioni o erogare specifici servizi, e l’attrezzatura (https://www.treccani.it/vocabolario/attrezzatura/) che andrebbe oltre il modo di dotarsi di attrezzi, spingendosi verso l’arte e la tecnica di attrezzare (disporre, distribuire, ponderare e relazionare, quindi, nello spazio).
In merito a questa capacità di ripensare le attrezzature urbane come componenti che fungono da attrattori è però necessaria una distinzione.
Se si fa riferimento alle attrezzature puntuali a prevalente consistenza edilizia e alle grandi reti infrastrutturali, tendenzialmente destinate a espletare la loro funzione attrezzante entro intervalli di lungo periodo, è più immediatamente riconoscibile la capacità di attrarre flussi, funzioni e utenze e di fungere da condensatori/attrattori sociali, produttivi ed economici rispetto ad ambiti di influenza che si estendono dal quartiere, all’intera città e al territorio. E nonostante tutto, molteplici sono gli esempi di grandi edifici di servizio e di infrastrutture che hanno perduto, in tempi brevi, la loro capacità attrezzante.
Al contrario, se si considerano le attrezzature caratterizzate come spazialità intermedie, quelle che si possono ricondurre a entità in prevalenza costituite da spazi pavimentati, vuoti, superfici e masse vegetative, bacini d’acqua, microarchitetture e dispositivi tecnici di supporto alle funzioni collettive, il quadro appare completamente diverso. In questa seconda famiglia di attrezzature, il progetto si confronta più direttamente con la continua variabilità di utenti, funzioni e dinamiche di produzione, consumo, scambio e appropriazione delle risorse di una città. È in quest’altro ambito d’intervento che l’attrezzare andrebbe pensato e sviluppato come un sistema coordinato di azioni progettuali ad assetto variabile; cioè in evidente contrapposizione con gli indirizzi spesso espressi da norme tecniche e regolamenti che ereditano ancora una concezione dell’attrezzatura urbana in termini di oggetti quasi-residenziali.
Soprattutto facendo riferimento agli spazi aperti a uso collettivo, pubblici o privati, queste sfumature di senso e di finalità riportano il tema dell’attrezzatura urbana e l’impiego di determinati dispositivi attrezzanti in una dimensione nuova. Non è certo questo il luogo per ipotizzare azzardate traiettorie di sviluppo progettuale. È però utile riassumere alcune pratiche ricorrenti che, per prime, inibiscono o eludono proprio quella ricerca di risposte coerenti con le molteplici vocazioni spazio-funzionali che sembrano essere contenute nella definizione stessa di attrezzatura urbana.
Il circuito/trappola dell’horror vacui. Non si può negare che una delle pratiche più diffuse sia riconducibile a un ancestrale horror vacui che si manifesta, anche nelle città contemporanee, quando siamo in uno spazio aperto, per un quasi automatico bisogno di rintracciare riferimenti o risorse essenziali per la nostra sopravvivenza.
L’attrezzatura della città si traduce in arredo urbano. Termine, quest’ultimo, con cui norme e regolamenti cercano di disciplinare il decoro urbano, l’occupazione di suolo pubblico, i gradi di accessibilità, inclusione e attrattività degli spazi aperti o, più di recente, l’approvvigionamento energetico per i veicoli elettrici. L’attrezzare si limita all’impiego di prodotti da catalogo (panchine, fioriere, pensiline, cestini portarifiuti, lampioni) o di dispositivi specialistici (rampe, rastrelliere, parcometri, colonnine di ricarica per veicoli elettrici, pensiline fotovoltaiche). In sintesi, si tratta di una pratica che riduce l’attrezzatura a mera trasposizione nell’ambiente urbano delle tecniche dell’arredamento degli interni, nell’accattivante suggestione della città intesa come grande casa collettiva. Di fatto, però, una pratica che, attraverso il congestionamento degli spazi urbani aperti di servizio e infrastrutturali, non fa che produrre i junkspace che Koolhaas identifica nella cosiddetta “non più città”, estendendo quei processi di omologazione e decontestualizzazione che si ritenevano appartenere solo ai non lieux degli edifici contenitore citati da Marc Augé.
Il circuito/trappola dell’horror pleni. È di certo la modernità che, nel ricercare alternative alla concezione classica o borghese dell’architettura degli spazi urbani, ha determinato le condizioni culturali per avviare il progressivo svuotamento delle spazialità intermedie infrastrutturali e di servizio della città. Troppo pieni e sanitariamente problematici gli spazi pubblici della città storica; troppo esclusivi a uso ricreativo della borghesia dominante gli spazi ottocenteschi, a discapito degli insediamenti periferici, privi di attrezzature, delle classi operaie e proletarie.
Su questi principî s’innesta quel senso dell’horror pleni – non nel significato più volte auspicato da Gillo Dorfles – bensì limitato a uno svuotamento che fa della “liberazione” e liberalizzazione dello spazio pubblico il principale espediente per un’apparente democratizzazione della città. Si determina così un processo che, in realtà, riducendo l’attrezzatura alla sola dotazione di reti infrastrutturali essenziali di urbanizzazione, produce spazi generalisti delle possibilità, dove tutto può accadere. Confidando fin troppo su uno spontaneismo responsabile di autogestione del patrimonio spaziale pubblico della città, questa pratica ha spesso condotto a una paradossale e imprevista altra forma di congestione: l’aggressione deregolamentata dello spazio pubblico, in questo caso, attuata da iniziative private di appropriazione e frammentazione dei beni spaziali comuni della città.
Il circuito/trappola dell’horror quietis. Come se non bastasse, c’è una terza tipologia di azioni che si sovrappone alle due precedenti. Essa si contraddistingue per l’abile capacità di cavalcare il mainstream della provvisorietà delle trasformazioni. È un sistema di pratiche riconducibile al sempre più diffuso senso dell’horror quietis, ultimo effetto dell’avanzare del principio di massimizzazione a tutti i costi della vivacità degli spazi aperti urbani. La paura della quiete è ormai diventata uno dei principali motori di avvio dei processi di disneyfication, foodification, touristification, mediterraneizzazione, smartification che sono alla base dell’avanzare della gentrificazione delle città. Il mito delle attrezzature urbane totalmente rimovibili è strumentalizzato a favore di una trasformazione continua degli spazi aperti, fatta di colonizzazioni e decolonizzazioni con attrezzature eterogenee che rispondono solo alla programmazione di calendari di eventi o tatticismi estemporanei che danno voce a presunte creatività bottom up.
Ne risulta il totale annullamento delle capacità performative degli spazi attrezzati di garantire condizioni di calma, pausa, benessere psico-percettivo e rigenerazione sensoriale per le persone. Gli spazi così attrezzati negano le più elementari funzioni di supporto e servizio alla collettività, prediligono alla sosta e agli intervalli l’attraversamento veloce e l’accesso consumeristico ai prodotti, in una città che oscilla fra il Paese dei Balocchi di Collodi e la Sofronia di Calvino.
Il processo di accumulazione di oggetti/attrezzi indotto dall’horror vacui, il non meno preoccupante fenomeno dell’attrezzamento privatistico degli spazi collettivi, generato dall’horror pleni, e gli incessanti cicli per attrezzare e de-attrezzare le città, causati dall’horror quietis hanno come comune denominatore la capacità di condurre inesorabilmente il complesso tema dell’attrezzatura urbana entro un’entropica congestione dello spazio.
Che cosa fare? In che direzione riorientare il progetto per evitare che la triade arredare, svuotare, vivacizzare continui a operare verso il sistematico annullamento del ruolo vitale delle attrezzature urbane?
È evidente che immediate risposte non possano essere rintracciate nella ridefinizione, seppure in termini d’innalzamento prestazionale, di oggetti di arredo tipologicamente e funzionalmente chiusi, sui quali molti regolamenti, disciplinari e norme tecnico attuative purtroppo continuano a insistere. Anche lasciare gli spazi come vuoti indeterminati – magari agendo sulle componenti di superficie con trattamenti cromatici, campi gioco, decorazioni e con le ormai consolatorie installazioni di street-art, oppure attraverso l’indiscriminata e più recente formula dello urban greening – in realtà, contribuisce solo a rinviare le sfide insite nel progetto delle attrezzature urbane a date ancora tutte da definire. Sembra convincere ancor meno l’ipotesi dell’intensificazione dei flussi e delle attività, con tutto quello che essi comportano in termini di dotazione attrezzante, perché rischia di demandare le potenzialità del progetto degli spazi attrezzati pubblici a specifici target di utenza: operatori economici (spesso privati) che sarebbero autorizzati a una trasformazione personalizzata dello spazio collettivo, o categorie più intraprendenti di utenti, creativamente dotati, che si collocherebbero anche involontariamente come unici interlocutori e operatori progettuali dal basso.
Invece di tentare facili soluzioni, è necessario piuttosto definire i campi d’indagine per riorientare il progetto delle attrezzature collettive urbane, senza cadere nei tre circuiti/trappola finora enunciati. In realtà, alcuni ambiti appaiono già configurarsi come potenziali opportunità di approfondimento.
Innanzitutto, emerge una necessità di affiancare alla pratica progettuale, intesa nella sua tradizionale accezione di sistema coordinato di azioni operativo-esecutive, una parallela attività di progettazione delle traiettorie plurime del progetto delle attrezzature. Un processo aperto, continuo e pluridisciplinare, da ripercorrere volta per volta attraverso innovazioni di paradigmi, approcci, metodi e strumenti, per esplorare la diversità degli scenari che potrebbero presentarsi nell’iter del progetto e delle sue varie forme di attuazione.
Esperienza questa che dovrebbe caratterizzarsi per i suoi contenuti specificamente legati a una progettazione sperimentale e tecnologica dell’architettura delle attrezzature urbane, opportunamente bilanciata fra competenze progettuali esperte e specialistiche dedicate al governo, al monitoraggio e all’indirizzo delle dinamiche generative del progetto, e competenze esperienziali e co-progettuali, da coinvolgere in senso partecipativo per testare, adattare e correggere in progress gli interventi.
È inoltre importante un ripensamento delle relazioni e connessioni fra contesto, contenitore e contenuto. Il progetto delle attrezzature urbane, infatti, continua spesso a considerare in un’ottica unidirezionale e scalare, dall’alto verso il basso, il contesto ambientale come esclusivo generatore di sollecitazioni esterne, il sistema degli spazi vuoti e delle quinte edilizie solo come un contenitore di attrezzature e, queste ultime, come semplici prodotti-contenuto. L’articolazione degli spazi intermedi urbani, però, è molto più complessa e non può ridursi a una compartimentazione per scale e oggetti. Essa comprende molteplici interazioni pluridirezionali e incrociate, estese, intermedie e locali, tra componenti eterogenee che comunque contribuiscono a definire i gradi di attrezzabilità di uno spazio per finalità pubbliche o collettive. La progettazione delle attrezzature urbane dovrà quindi sempre assumere anche una connotazione ambientale ampliata, estendendosi a proiettare più visioni evolutive e interattive tra agenti, attori, mezzi, spazi, luoghi, tempi, cause, quantità, comportamenti, funzioni, tecnologie.
Un non ultimo ma possibile ambito d’indagine concerne la rimodulazione delle definizioni stesse riguardanti l’attrezzatura urbana in relazione alle sue capacità performative: da un punto di vista ontologico, per coglierne le sfumature di significato e le potenziali vocazioni funzionali che restano ancora progettualmente inespresse; sotto l’aspetto tecnologico, per comprenderne i livelli di interazione con i principali processi di transizione (ecologica, digitale, energetica, socioeconomica) in atto; in termini teleologici, al fine di indirizzarne le finalità per supportare, attrarre, includere, difendere, convogliare risorse, energie e informazioni. In merito a questo terzo ambito, il tema delle attrezzature urbane sarà chiamato a confrontarsi con dimensioni nuove e informazionali del progetto. Si dovrà preferibilmente operare nel campo delle concettualizzazioni di processo, procedurali, di prodotto, relazionali che possono indirizzare e integrare sinergicamente le attività di modellizzazione, valutazione, sviluppo, realizzazione e adattamento degli interventi.
Al progetto si chiederà così di assumere anche una connotazione tecnologico-ambientale per orientare e governare, in senso circolare, regolativo e co-evolutivo, sia il complesso sistema di variabili che influisce sull’attrezzabilità degli spazi della città, sia la rispondenza bilanciata prestazionale delle attrezzature urbane alle esigenze pubbliche, collettive e private, e sia le coerenze fra capacità attrezzanti ed evoluzione dei contesti ambientali d’intervento.
