UCTAT Newsletter n.77 – aprile 2025
di Luca Marescotti
Cassio: Reputation, reputation, reputation! O, I lost my reputation! I have lost the immortal part, Sir, of myself, and what remains is bestial. My reputation, Iago, my reputation.
Iago: As I am an honest man, I thought you had received some bodily wound; there is more offence in than in reputation. Reputation is an idle and most false imposition; oft got without merit, and lost without deserving; you have lost no reputation at all, unless you repute yourself such a loser.
William Shakespeare, Otello Atto II, scena III
Ci fu un tempo, negli anni Ottanta, in cui credevo che l’informatica potesse essere applicata all’ammodernamento della pubblica amministrazione; con un certo ottimismo vedevo nella tecnologia un possibile alleato di coloro che erano mossi dalla volontà di cambiare. Erano gli anni in cui l’Ibm aveva intrapreso un percorso per inserirsi nel mondo civile attraverso nuovi calcolatori centrali e soprattutto con i primi calcolatori personali con un ambiente informatico distribuito assieme a MIT e a Digital (Digital Equipment Corporation): era il Project Athena che si sviluppò per quasi un decennio (1983-1991). Nella sua estensione europea toccò il Politecnico di Milano con investimenti in hardware e in progetti congiunti: un sistema centrale, il 4381, collegato a calcolatori personali e a stazioni di lavoro grafiche con il programma CADAM, aperto a docenti, studenti e personale amministrativo delle due Facoltà. All’improvviso, le schede perforate apparivano oggetti di un passato lontano travolto da radicali innovazioni informatiche proposte da Ibm, Olivetti, AT&T, Xerox, Hewlett-Packard, Honeywell, Siemens, Tektronix, per dirne alcune, tutte in gara.
L’università si apriva all’emergere di nuove abilità e, di conseguenza, con nuove esigenze nella consapevolezza che ammodernare significava non cambiare pensiero, non abbandonare la progettualità ma svilupparla in un ambiente nuovo, dinamico e in una crescita esponenziale. Il nostro compito era sperimentare e riversare nella didattica le idee, un vero e proprio salto che avrebbe spinto lo stesso Ateneo a proporre un piano strategico per il breve e il medio termine pensato per tutti i corsi di studio: il Progetto Prometeus avviato nel 1986.
Ammodernare per me non significava comprare hardware e software, ma avviare progetti congiunti per indagare le potenzialità informatiche in un superamento delle tradizionali barriere tra le due facoltà. Vedevo l’emergere di un linguaggio interdisciplinare, costruito tra pari capaci di scambiarsi saperi senza arroganze e ostilità.
L’urbanistica convenzionale allora era settoriale, separata dalle opere pubbliche, dalla mobilità e dai trasporti, “disturbata” al suo interno dalla carenza di quantificazioni nelle analisi dello stato di fatto e nelle previsioni e nel governo della sua attuazione e gestione. La stessa rappresentazione grafica era fortemente limitata dalle bassa qualità delle stampe a contatto in bianco e nero e sembrava fatta apposta per non essere comprensibile. La proposta di unificazione delle legende urbanistiche avanzata da Astengo decenni prima non era riuscita a limitare fantasiosi personalismi rappresentativi adottati in ogni comune e modificabile da piano a piano.
Sollecitato dalle potenzialità delle innovazioni informatiche, giusto per dare un’idea, la mia attenzione alla cartografia, strumento essenziale di analisi delle risorse territoriali e urbane, non poteva fermarsi alla cartografia numerica ma doveva aprirsi ai sistemi informativi geografici visti come ampliamento dei sistemi informativi aziendali: se questi agevolavano i rapporti gestionali, quelli attraverso la geolocalizzazione dei dati permettevano non solo di guidare le politiche territoriali coordinando le risorse umane ed economiche, ma anche di valutare i risultati e di mettere a punto le eventuali e necessarie varianti. L’avvento delle cartografie digitali e dei sistemi informativi geografici poteva sostenere nuove speranze; lo studio delle potenzialità dei sistemi informativi geografici significava indagare i benefici che potevano derivare dall’integrazione dei dati gestionali interni alle pubbliche amministrazioni mantenendo un controllo continuo e trasparente delle condizioni del territorio (lo stato di fatto), delle previsioni urbanistiche, delle loro attuazioni e dei rapporti con i cittadini: al centro anzi stava certamente l’informazione e la conoscenza trasmessa ai cittadini, certo non assimilabili a clienti, con quella terminologia aziendale e inopportuna che poi sarebbe dilagata persino nelle università. Le aree erano misurabili, le destinazioni d’uso e i servizi correttamente quantificabili, tenendo sotto controllo nel tempo non solo attuazioni e variazioni, ma anche eventuali impatti ambientali di cui già allora si iniziava a scrivere, tanto che con Marina Alberti parlavamo di sistemi informativi ambientali. Il mio infrangere frontiere veniva mal visto anche nel dipartimento di Scienze del Territorio; lì e fuori di lì, in effetti, l’innovazione tecnologica non intaccava le procedure convenzionali. Quando proposi di chiamare a contratto Alberti ottenni un rifiuto categorico dal dipartimento, e lo stesso accadde anni dopo quando proposi al preside della Scuola di architettura di chiamare a contratto Luis Inostroza su quegli stessi temi. In tanti anni nulla era cambiato.
Imperterrito, come ogni ingenuo, facevo trasparire il mio entusiasmo scientifico nelle conferenze. Credevo nella dimensione scientifica dell’urbanistica, allora si parlava addirittura di “scienze del territorio”, nella sua natura autonoma, evitando quei riduzionismi che la relegavano a pratica amministrativa, ad appendice della geografia, della giurisprudenza o dell’architettura o dell’ingegneria, per quanto si potesse ragionevolmente intersecare con queste discipline. Di conseguenza, ritenevo anche che si potesse articolare un programma di lavoro teso a irrobustire la struttura teorica della disciplina e a permettere di valutare – verificare o falsificare – le ipotesi che reggevano i diversi “esperimenti” di organizzazione territoriale. In fondo, anche se era già evidente allora quanto l’impatto umano stesse coinvolgendo l’intero pianeta, era assai più facile investire nell’acquisto di beni piuttosto che nella formazione dei tecnici o nella trasparenza, nell’efficienza e nell’efficacia dei piani urbanistici.
Forse fu questo entusiasmo a farmi invitare come relatore al “Convegno europeo sui sistemi informativi per la difesa del suolo e la tutela del territorio” promosso da MondOperaio presso l’Hotel Parco dei Principi nel maggio del 1991[1]. Di fronte alla platea piena di politici, tecnici e amministratori mi parve finalmente di aver trovato ascolto; forse finalmente si poteva incidere sulla prassi. Fu questione di pochi attimi, poiché maturarono altri eventi in solo nove mesi e quelle porte si chiusero definitivamente, le avventure di un mariolo, così fu definito, diede l’avvio alla stagione di Mani pulite e al crollo della Prima Repubblica.
Iniziata su altri temi toccò anche l’ambiente urbanistico milanese con le vicende di Ligresti. Quando si prospettò di invitare l’assessore all’urbanistica al Politecnico l’attesa fu vana. L’assessore non si presentò in quel clima esasperato in cui la più semplice delle domande era “ma lei poteva non sapere?”. Sarebbe stato difficile offrire spiegazioni convincenti. Forse questa non era la domanda giusta, forse era troppo tardi per fare domande, poiché la questione reale che da tempo vivevamo riguardava piuttosto come la politica dovesse affrontare la modernizzazione e trovare nuove risorse intellettuali per dare all’urbanistica una dimensione corale. Se prima la pressione politica lasciava pochi margini, ora la velocità degli eventi spingeva l’emergere di altre forze.
Come si poteva gestire altrimenti tutto questo se da una parte l’urbanistica non era mai al centro dell’attenzione politica, persino nella riforma del Titolo V della Costituzione, e dall’altra si cercava di spezzare la catena di comando con la distinzione, o separazione, tra funzioni politiche e funzioni amministrative. Il nodo politico dell’urbanistica invece non fu risolto allora e non si è risolto ora. Né cambiarono gli atteggiamenti: del passato prossimo che dire sul disquisire su Salva-Milano, va bene o non va bene? solo Milano o tutta Italia? E dell’oggi: qual è la conoscenza del territorio offerta del piano? come sono gestiti i flussi informativi tra i diversi livelli tecnici e politici? si può essere al comando e non poter disporre di quantificazioni dello stato di fatto, dei fabbisogni, delle previsioni del piano e delle attuazioni? degli obiettivi e dei metodi?
Ma tanto a nulla serve disquisire, perché così vanno le cose, trainate dal montare degli eventi.
Ecco quindi a giusto proposito la sollecitazione di Pier Luigi Celli per rileggere l’Otello, per andare oltre allo spunto del dialogo tra Cassio e Jago e mettere in luce la scomparsa della vergogna. Così scrive in senso generale e senza fare nomi; lascia a ciascuno il compito di trovare riferimenti: “Oggi chi ha potere, un potere qualsiasi, da quello politico a quello imprenditoriale, si sente legittimato a stabilire i suoi criteri di valutazione di comportamenti e decisioni che, proprio perché personali, non prevedono ripensamenti”[2]. Mi attira la sensazione che nelle parole dell’Otello si trovi un riscontro delle teorie sul capitale sociale: qui è reputazione, ma il dramma evoca fiducia, autorevolezza, certezza, parole ricorrenti di cui abbiamo bisogno, individualmente e socialmente.
Ed ora, eccomi: non mi sento più di rivolgere quelle domande, piuttosto penso importante cercare di comprendere come sia stato possibile dare concretezza a questo particolare Modello Milano, capace di cancellare tutto il resto, quel tutto che era la sua interpretazione normale. Non c’è – non c’era – nessun altro desiderio se non quello di capire. Capire per rimediare. Per non tradire la fiducia di quella parte della società che l’aveva sostenuto. Per mantenere l’autorevolezza. Senza dover mentire a se stessi.
Dunque, due o tre temi per concludere.
Il primo riguarda il Modello Milano, che – in senso generale – è tutto un insieme di attività, dal design alla moda, dall’industria al sistema dell’istruzione, dall’arte alla finanza, un modello quindi che non si incentra nella sola costruzione della città, mentre quell’altro Modello Milano, nei termini giornalistici attuali che sottintendono “urbanisticamente parlando”, è un fare non pianificando (doing without planning), uno sviluppo spontaneo che spontaneo non è, ma che appare improvvisato, incontrollato, casuale: quel che risulterà si vedrà dopo. Forse potrebbe essere corretto affermare che quel che resta della cosiddetta urbanistica si è appoggiata a questo sentire e lo ha sfruttato, forse a scapito proprio di quel primo modello più generale. Il problema quindi è vedere come sviluppare risorse territoriali, risorse sociali e risorse economiche per rafforzare il Modello Milano, quello culturale, progressista, produttivo.
Il secondo riguarda la costruzione e il consolidamento del capitale sociale. Non si tratta allora di cercare (imporre o immaginare) una catena di comando, quanto condividere una visione etica del comando e delle responsabilità ad ogni livello. A ciascuno il suo, con rettitudine, o con giudizio se si preferisce, affinché il valore del Modello Milano non si identifichi soltanto nella rendita fondiaria, tema ingiustamente obsoleto, su cui sarebbe opportuno che nell’università si tornasse a discutere.
La scommessa potrebbe essere proprio quella di rafforzare il Modello Milano con la stabilità di un consenso trasversale, tra redditi diversi, intendo. Il consenso diviene sotto un certo aspetto una delle dimensioni del capitale sociale che permette di realizzare strategie di medio e lungo periodo, garantendo la stabilità del governo. Sotto un’altra luce quel consenso richiede una solida e positiva reputazione, quella shakespeariana di Cassio, quella che Iago demolisce così bene descrivendola “Reputation is an idle and most false imposition; oft got without merit, and lost without deserving”. Iago dà voce alla critica neoliberistica che afferma l’inesistenza del capitale sociale: “you have lost no reputation at all, unless you repute yourself such a loser”.
Se ne può fare a meno, ma questo implica trattare il consenso con altri mezzi, per esempio con gli assegni di un falso signor Bonaventura con in testa una forma di formaggio, un pagliaccio che si atteggia a Joker.
Il terzo si apre con una serie di domande: dove è finita l’urbanistica? sarà mai possibile recuperare una visione comune tra stato e regioni sul pianificare? Sarà mai possibile uscire dalla prassi riduzionista per farne una scienza con una visione socialmente condivisa?
A questo proposito e su queste pagine molto si è già scritto, e per me grande interesse, e tra questo per ritornare al tema con cui ho iniziato scelgo un passo di Bosio:
“Sarebbe stato ragionevole controbattere queste contestazioni producendo una valanga di documenti e studi atti a dimostrare la correttezza dei provvedimenti emessi. La risposta del Sindaco e dell’Assessore è stata, invece, per ricorrere a un eufemismo, meno ferma di quanto auspicato anche da quei funzionari comunali cui accadde di istruire pratiche adesso giudicate controverse e sul merito delle quali si è acceso un dibattito alimentato più dagli articoli di giornale che da riscontri oggettivi.
Il fatto è che rispondere colpo su colpo è possibile quando si dispone di argomenti solidi, quando ci si può avvalere di studi e regole ben congegnate e sperimentate. Nel caso in questione scontiamo la carenza di un quadro dello stato di fatto che ha avuto come conseguenza la compilazione di norme di attuazione altrettanto imperfette. Il corredo d’informazioni del vigente PGT è davvero poca cosa e questo appare ancor più evidente effettuando un confronto con i documenti del PRG del 1975-1980, anni in cui non si disponeva della facilità attuale di accesso a banche dati e di informazioni in tempo reale.”[3]
Manca ancora molto per una cultura capace di utilizzare appieno le potenzialità dei sistemi informativi geografici o, meglio, ambientali, e a questa formazione avrebbe dovuto e dovrebbe rispondere proprio l’università.

[1]Luca Marescotti, “L’informatica per il governo e la gestione del territorio” in MondOperaio, n.3, marzo 1991, supplemento, pp. XII/XV.
[2]Pier Luigi Celli, “La scomparsa della vergogna”, La Repubblica, 29 marzo 2025, p. 15.
[3]Elio Bosio, UCTAT Newsletter, luglio 2024.
