UCTAT Newsletter n.79 – GIUGNO 2025
di Andrea Bosio
Racconti di architettura
Raramente nella storia dell’architettura si parla delle relazioni che si celano dietro il progetto di costruzioni diventate oggetto di studio e ammirazione. Il più delle volte ci si sofferma esclusivamente sui loro aspetti spaziali e funzionali, considerando l’abitante tipo come entità astratta e dando per scontata la relazione tra architetto e committente. Talvolta, la storia di queste relazioni diventa, invece, aspetto di fondo del racconto architettonico, specialmente quando esse, volontariamente o meno, sfidano le convenzioni sociali oppure presentano aspetti emotivamente coinvolgenti o intriganti. La genesi di residenze iconiche come Ville Savoye di Le Corbusier oppure Farnsworth House di Mies van der Rohe costituiscono illuminante esempio del tormentato dialogo intercorso tra i progettisti e i ricchi committenti, e un progetto come quello di Vanna Venturi House, costruita per la madre dal giovane Robert Venturi, rappresenta un manifesto del localismo americano non solo per il suo linguaggio ma anche per la simbolizzazione dell’affetto dell’architetto per chi l’avrebbe abitata.
È accaduto anche che uno stesso edificio fosse oggetto di narrazioni opposte, fino a modificarne l’attribuzione. Tra il 1926 e il 1929 Eileen Gray realizza, per sé e per il marito Jean Badovici, a Roquebrune-Cap-Martin,la Villa E-1027, uno splendido esempio di architettura razionalista che alcuni dopo anni vedrà Le Corbusier, intenzionato a coniugare l’amore per la natura con quello per il suo ristorante preferito, costruire a pochi metri di distanza il suo Cabanon e dipingere sui muri della villa confinante, con atteggiamento arrogante e provocatorio, otto grandi murales. Eileen Gray, ferita da tale comportamento e umiliata da illazioni sessiste su una sua presunta bisessualità da parte di colui che considerava un amico, abbandona la villa che per anni, stante la prossimità al Cabanon e la presenza dei murales, sarà dai più erroneamente attribuita al maestro svizzero.
Un caso emblematico è quello di Casa Schindler, progettata da Rudolph Schindler nel 1922 a West Hollywood in California e considerata come il primo modello di casa moderna per il connubio di spazi individuali e ambienti condivisi. Pensata in origine per una coabitazione tra il progettista, la moglie e un’altra coppia di amici, cela nel disegno di un ambiente domestico per due coppie, dotato di cellule singole per i quattro occupanti in cui dormire e lavorare, e di spazi di condivisione inclusivi anche di “nidi per dormire” sul tetto, la volontà di condividere uno stile di vita non strettamente monogamo e non necessariamente eterosessuale. Tale intento progettuale è poco raccontato, forse in ragione del fatto che l’esperienza di coabitazione originale durò poco e che in seguito la casa venne occupata in maniera più tradizionale, o, forse, anche qui a causa di un’altra presenza ingombrante, quella di Richard Neutra, che vi soggiornò brevemente per poi rompere con Schindler tutti i rapporti causa divergenze sia personali che lavorative. Andrew Holden, professore di architettura ad Harvard, considera tale progetto un esempio di funzionalismo “queer,” che concepisce la casa come una macchina dell’abitare senza tuttavia sovraimporvi ipotetici modelli famigliari o relazionali come uniche modalità d’uso dello spazio, pur caricando gli ambienti di tensione nell’espressione dei ruoli e nella relazione tra i generi. E sulla convinzione di dover risvelare questa vera natura omessa del funzionalismo incentra nel 2022 un laboratorio di progettazione con oggetto di studio e di rielaborazione proprio Casa Schindler, pensata nella sua originale intenzione. [1]
Spazi, funzioni, persone
In questi stessi termini, in un passo contenuto all’interno di Sexuality and Space (1992), un libro culto per la critica architettonica anglosassone ma poco conosciuto in Italia, Beatriz Colomina riflette su come le omissioni relative ad alcuni aspetti dell’architettura di Adolf Loos abbiano portato ad una narrazione parziale e incompleta dell’aspetto funzionale.[2] Riferendosi al modello spaziale del Raumplan spesso utilizzato da Loos, Colomina sottolinea come l’idea di scatola teatrale, caratterizzata dalla possibilità di traguardare verso spazi più ampi e utile ad allargare la percezione dei piccoli ambienti, sia stata associata principalmente a ragioni di economia di spazio, trascurando la fondamentali implicazioni che una tale configurazione spaziale incentrata sui principi gerarchici di dominio e subordinazione ha nel definire, invece, gerarchie basate sul ruolo sociale e il genere. Attraverso questa prospettiva Colomina osserva che nella Villa Muller del 1930 il salotto o stanza delle signore (Zimmer der Dame), centro spaziale e funzionale della casa, assume il ruolo di uno spazio di intimità, tuttavia controllato all’interno dell’abitazione dal salone principale ed esternamente dalla finestra posta nel volume sporgente del salotto che consente di avvertire la presenza degli abitanti.
La riflessione di Colomina sulla teatralità dell’architettura domestica di Loos si rivela ancora utile e significativa oggi per evidenziare quanto gli spazi domestici, al di là della loro mera funzionalità, siano intimamente connessi a ruoli di genere, modelli di comportamento, e dinamiche di potere e di controllo. E ci invita a riflettere su come l’architettura di Loos possa essere letta non soltanto nella sua dimensione spaziale ma anche in quella temporale e psicologica imperniata sul rapporto tra interno ed esterno, tra l’osservare e l’essere osservato, quasi ad anticipare di decenni il concetto di social eye formulato da Jane Jacobs.
E’ curioso come la concezione multidimensionale del progetto propria del Raumplan, pur ricordata come una delle innovazioni spaziali che ha anticipato e informato alcuni principi fondanti del Razionalismo, venga raramente messa in pratica nell’architettura contemporanea, se non in luoghi di interesse pubblico come teatri, biblioteche e musei, mai in progetti di residenza. Probabilmente a causa della sottovalutazione della dimensione teatrale della vita domestica della quale, invece, vengono affrontati con grande attenzione gli aspetti funzionali, di igiene e di salubrità, distraendo i progettisti dalla altrettanto fondamentale riflessione sui molteplici usi dello spazio da parte degli abitanti e sulle loro relazioni, e riducendo, in definitiva, il progetto a un mero esercizio applicativo di norme e regolamenti con, al più, una personale interpretazione di temi formali.
Una funzionalità piegata al risparmio di spazio
Dalla perdita di una cultura del progetto volta a individuare, accogliere e gestire le complesse dinamiche della vita di relazione domestica, consegue l’affermarsi di una pratica progettuale attenta unicamente al disegno dell’involucro, dove la distribuzione planimetrica è abbozzata ma non ragionata con il risultato di edifici per abitazione dove è la forma esterna a determinare la qualità dello spazio interno e le caratteristiche dei singoli alloggi. In assenza di una politica per la casa che incoraggi e sostenga la ricerca e la sperimentazione di nuovi modelli abitativi, le nuove residenze, in una città come Milano dove i flussi turistici sono in costante aumento e dove si è diffusa la pratica degli affitti brevi, privilegiano sempre di più un concetto di tipo alberghiero e di residenza temporanea a discapito di soluzioni distributive pensate per lunghe permanenze e per favorire la vita di relazione.
La superficie del soggiorno viene così contenuta nel minimo delle dimensioni, peraltro assai poco generose, stabilite dal regolamento edilizio, e lo spazio per cucinare è quello strettamente necessario per contenere un frigorifero, una piastra elettrica di piccole dimensioni, e un forno microonde. Non più “laboratorio” di cucina, ma “strumento” per preparare un frettoloso caffè mattutino e per riscaldare un pasto pronto acquistato nel mini market sotto casa o recapitato da un corriere in bicicletta. Un’idea di ambiente domestico conformata più alle richieste del mercato immobiliare che ai bisogni della maggioranza della popolazione. E un’idea che trova diffusione anche grazie a strumenti come Pinterest e Instagram e che non necessita dell’apporto di progettisti formati da anni di studio e di pratica e di architetti che con cultura e passione si confrontino con i bisogni reali delle persone.
Quella che si sta affermando è una pratica professionale che, sottomessa all’imperio del committente, si esaurisce nell’applicazione dei regolamenti vigenti (cosa che, come messo in luce da recenti vicende, ha dato luogo a discutibili interpretazioni) e mascherando questa resa, anche morale, con la ricerca delle più insolite soluzioni di facciata, rischia di cadere nel grottesco. Conclusa da anni, temiamo per sempre, la stagione della sperimentazione sui tipi dell’edilizia residenziale finanziata da Stato e Regioni, l’architetto si adatta a distribuire l’arredo necessario in spazi sempre più ristretti, ridotti dal recente decreto Salva Casa del 2025 alla superficie minima abitabile di 20 mq, insufficiente per garantire sia il benessere psico-fisico degli abitanti che quello di igiene e salubrità. E così il progetto residenziale si limita al disegno dei mobili d’arredo che diventa una mortificante resa alla pratica del maquillage compiuto su interventi di mera speculazione edilizia. Niente che ricordi gli esemplari di progetti d’interni redatti non soltanto per le residenze della grande borghesia ma anche per l’edilizia popolare.
L’indebolimento della ricerca si riflette negativamente anche su quei modelli abitativi considerati innovativi come, a esempio, il co-housing e il co-living, dove si affronta il tema della razionalizzazione di alcuni spazi dell’abitazione anche con l’intento di alleviare possibili situazioni di solitudine e di disagio sociale. Senza dimenticare organismi residenziali che potremmo definire “speciali” (ricorrendo a questo aggettivo unicamente per sottolinearne la purtroppo ancora limitata diffusione), come le residenze per persone con disabilità fisica e psichica e neurodivergenti, per la popolazione anziana lgbt e per soggetti vulnerabili che necessitano di un rifugio, per le donne vittime di maltrattamenti domestici e per i giovani esposti a violenze omotransfobiche.
Nonostante la buona volontà accade frequentemente che gli spazi di queste residenze vengano progettati replicando un canone piuttosto convenzionale desunto da modelli di residenze destinate a comunità di tipo tradizionale, fondate sulla famiglia mononucleare, su vincoli matrimoniali e genitoriali e lontani, dunque, da una qualità degli spazi diversa da quella di cui necessiterebbero le persone non catalogabili in questa norma. Per quanto aperto alla sperimentazione progettuale, l’architetto non addestrato culturalmente ad affrontare temi che esulino dalla norma, sarà indotto ad applicare gli standard abitativi del modello tradizionale di famiglia al cui benessere è dedicata la razionalizzazione degli spazi. A istruire il progettista di questi alloggi “speciali” e ad arricchire la sua cultura umanistica e scientifica, provvedono in molte situazioni gli stessi abitanti che indicano come gli spazi possono essere organizzati in funzione di una vita di relazione ricca e positiva anche se condivisa con individui di sensibilità ed esperienza profondamente diverse.
Riconsiderare i luoghi domestici
Perché l’architettura dello spazio domestico possa esprimersi in termini innovativi con la capacità di interpretare gli infiniti nuovi modi di fruizione di questo spazio e di avanzare conseguenti suggerimenti e proposte, occorre che i progettisti si impegnino a riconsiderare l’alloggio analizzandone le funzioni e pervenendo successivamente a una sintesi ottenuta attraverso il dialogo con i bisogni e i desideri attuali della società. Operazione che necessita di essere coadiuvata da una reale conoscenza dei processi storici che hanno interessato comportamenti e costumi, come sostiene l’architetto statunitense Joel Sanders, specializzato in progettazione inclusive e autore di Stud: Architecture of Masculinity, una brillante critica dello spazio domestico diventata un punto di riferimento nella teoria architettonica “queer,” dove si sostiene come il ruolo di genere sia stato storicamente funzionale alla costruzione dello spazio architettonico. [3]
Questa diversa modalità di affrontare la progettazione trova conferma nell’analisi dello spazio della cucina, oggetto nel tempo di innumerevoli sperimentazioni riferite all’organizzazione degli spazi, ai materiali, alle tecnologie. Sperimentazioni che si sono proposte di ottenere miglioramenti tanto sotto il profilo economico quanto sotto l’aspetto funzionale contribuendo a facilitare il lavoro della donna, sollevandola da inutili fatiche ma conservando per lei il ruolo di casalinga. Un approccio al tema dal quale non riesce a liberarsi completamente l’architetta viennese Grete Lihotzky quando, nel 1926, progetta la Cucina di Francoforte, iconico modello di funzionalità applicata all’existenzminimum. Un tentativo, per quanto embrionale, di porre l’accento sul tema dell’emancipazione femminile che non compare, pochi anni dopo, nel modello di cucina proposto da Piero Bottoni per la Casa elettrica di Luigi Figini e Gino Pollini, realizzata nel 1930 in occasione della IV Triennale di Monza. In questo caso anche la stampa femminile presenta le innovazioni introdotte dal progetto esclusivamente come un’occasione per ridurre le fatiche della moderna casalinga.
L’odierna diminuzione dello spazio per cucinare, tendenza che ha origine negli anni Stati Uniti degli anni ‘50 con l’unione della zona cottura con lo spazio living, poco ha a che vedere con una reale critica al ruolo della donna nella famiglia bensì sembra più ammiccare a un modello di vita dipinto in film come After Hours, diretto da Martin scorsese nel 1986, o in serie televisive come Sex and the City, dove la vita domestica, quando divergente da un modello famigliare tradizionale, è solo una piccola parentesi di una vita spesa tra il lavoro in ufficio e il divertimento tra cocktail bar, ristoranti e discoteche. Questa consuetudine di consumare pasti all’esterno dell’abitazione, assunta a necessità per condurre una vita sociale, appare lontana dalle possibilità economiche di gran parte degli Italiani. Dunque lo spazio cucina così ridotto diventa un simbolo di elitismo e di disuguaglianza economica, elementi questi causa di un’ingannevole percezione di aver eliminato la storica disparità di genere legata a questo spazio domestico attraverso la totale eliminazione della necessità di cucinare.
La camera da letto è l’ambiente domestico che risente maggiormente di una impostazione progettuale assoggettate a un modello relazionale di stampo tradizionale, ovvero fondato su una concezione lineare delle fasi della vita e su una meccanica correlazione tra la natura del soggetto e il comportamento sociale e affettivo. Vale la pena riflettere sulla consuetudine di indicare la camera da letto di maggiore superficie come “camera matrimoniale,” una definizione che ancora poco più di mezzo secolo fa nel nostro paese trovava corrispondenza in un rapporto assolutamente ineguale tra uomo e donna, dove la legge contemplava il delitto d’onore e condannava la donna che fuggiva da un marito padrone e dove l’unico tipo di divorzio era quello narrato nel film del 1961 Divorzio all’italiana, diretto di Pietro Germi e vincitore di un premio Oscar. Un termine, quello di camera matrimoniale, che perduta ogni connotazione obsoleta è diventato sinonimo di quella camera per due persone che ancora, in tanti regolamenti edilizi, viene resa obbligatoria nel progetto delle nuove abitazioni, accettando la norma di una coppia che, separata per tante ragioni durante il giorno, deve trascorrere la notte in simbiosi. Mentre alla persona che trascorre la notte in solitudine è concesso solamente uno spazio ridotto.
Una città come Milano, dove la presenza di grandi aziende italiane ed estere attira la presenza di lavoratori con residenza temporanea, e dove comunque è in costante aumento la presenza di nuclei familiari costituiti da una sola persona, si persevera nel realizzare le abitazioni ricorrendo a vecchi criteri rinunciando a sperimentare principi di flessibilità, da tempo invocati ma ostacolati anche dall’arretratezza normativa, che permetterebbero, soprattutto ai giovani studenti che popolano i sempre più numerosi studentati, di organizzare lo spazio abitato in funzione di una vita che non si limita allo studio e al riposo ma che, grazie a una conquistata autonomia dal proprio nucleo familiare, si misura con nuove esperienze e sensazioni, fatte di sentimento e di sessualità, di politica e di partecipazione, di amicizie e conflitti. Alloggi progettati in funzione di una loro possibile trasformazione secondo il sorgere di nuove esigenze e diverse scelte di vita che vadano al di là dell’essere single o in coppia. Un importante campo di studio destinato a risvegliare tanti architetti da una colpevole catalessi culturale che colloca la cultura del progetto in posizione arretrata rispetto all’evolversi della società.
Dallo stereotipo abitativo ad un nuovo funzionalismo “queer”
Senza una riflessione seria e onesta su come l’immaginario della vita domestica e delle sue dinamiche relazionali influisca sul modo di progettare, l’architettura rischia di diventare sempre di più appannaggio di vecchi stereotipi culturali, alla cui demolizione o modifica si potrà ricorrere solo attraverso l’arredamento o con strumenti non architettonici. Sarà dunque la cultura degli architetti che in primis dovrà espandersi, prendendo atto con curiosità e apertura di quanto siano innumerevoli i modi di vivere e di intendere gli ambienti domestici, mettendo in discussione la presunta conoscenza e la ragione di costumi e regole sociali e relazionali connesse allo spazio domestico. Soprattutto, non avendo paura di confutare modelli progettuali storici e radicati nella disciplina.
Questo modo di porsi nei confronti dell’architettura non è, come molti credono, un atteggiamento nuovo. Adolf Loos a suo tempo fu capace di comunicare con grande spirito critico i suoi dubbi e le sue convinzioni sia su temi prettamente disciplinari che su aspetti del vivere sociale, come documentano i suoi articoli scritti per varie riviste e raccolti nel libro Come ci si veste? [4] L’imporsi dei dettati funzionalisti del Razionalismo da una parte e l’esuberanza formale dell’Art déco dall’altra hanno messo in secondo piano la capacità critica e analitica di Loos nei confronti della società, relegandolo quasi ad un architetto di passaggio. Oggi si dovrebbe invece raccoglierne lo spirito applicandolo alla nostra società, anche con l’ausilio di strumenti digitali come l’intelligenza artificiale, per ricominciare a percepire lo spazio architettonico, in primis quello domestico, in più dimensioni oltre le tre cartesiane.

Bibliografia di riferimento
[2]Beatriz Colomina. “The Split Wall: Domestic Voyeurism,” In Sexuality and Space. A cura di Beatriz Colomina (Princeton Architectural Press: New York, 1992).
[3]Joel Sanders. Stud: Architecture of Masculinity (Princeton Architectural Press: New York, 1996).
[4] Adolf Loos. Come ci si veste? (Skira: Milano, 2026)
