Torno a casa

UCTAT Newsletter n.78 – maggio 2025

di Paolo Aina

Da più di un anno vedo le immagini della distruzione che viene perpetrata nella Striscia di Gaza, gli immani resti di quelle che erano le case dei palestinesi, eppure noto che, quando è possibile, gli abitanti ritornano là dove hanno inanellato le storie delle loro vite lì dove si trovava la loro abitazione.

Tornano a casa anche se la casa non esiste più e mi chiedo come mai questo avvenga, come mai una casa continui ad esistere anche quando non ha più pareti.

Nel linguaggio la parola casa è usata in molti modi ma sia in termini spaziali che metaforici indica la propria presenza nel mondo: lo spazio fisico in un luogo e lo spazio spirituale che si abita.

In sostanza la propria identità.

Io sono così vecchio da ricordarmi che da bambino vidi qualche maceria della guerra e mi colpì il fatto che nei piani degli edifici sventrati le pareti interne erano di colori diversi.

Allora non pensavo alla distruzione, guardavo i colori con curiosità e allegria, solo adesso mi accorgo che quei colori erano un’affermazione; un io/noi siamo qui, qui sogniamo, qui esistiamo, qui amiamo, qui mangiamo, qui dormiamo, qui viviamo…

Qui abbiamo una piccola superficie, una stanza, “Una stanza tutta per sé” come si afferma e si racconta in un  famoso libro.

La costruzione del sé ha bisogno di uno spazio personale in cui riconoscersi e dove essere riconosciuti, anche le città hanno questo problema: ogni città si distingue dagli spazi e dagli edifici che la compongono diversi in luoghi diversi che proprio per la loro diversità vengono identificate e collocate nel mondo.

L’architettura si occupa dello spazio e pertanto dovrebbe essere il modo con cui si affronta questo problema.

La via che si è intrapresa è purtroppo un altra, è la via della costruzione indifferenziata, la stessa in ogni luogo senza curarsi delle particolarità della regione in cui viene edificata.

Alla fantasia e sapienza collettiva, diverse per ogni sito, noi architetti, “…laureati ci muoviamo soltanto tra piante dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti” e contrapponiamo una bulimia  adolescenziale che interviene con una tecnica sempre più complicata ma analoga per ogni luogo: deserto, giungla pluviale, climi temperati, climi gelidi senza considerarne le specificità.

L’uso di metodi costruttivi analoghi genera forme analoghe o, nel migliore/peggiore dei casi, delle performance, tecniche appunto, che mostrano meraviglie non certo adatte a “fare belle rovine”.

La modernità ha preteso di rimuovere ogni stratificazione storica; solo un’affannosa pretesa di essere aggiornati senza pensare che una costruzione va ben al di là nel tempo e qualsiasi “up to date” sarà quasi subito “out of date”.

A conferma di ciò è il fascino dei centri storici.

A Milano raramente un turista andrà a visitare Piazza Selinunte, Piazza Maciacchini e per caso capiterà in Largo Augusto a meno che non vi alloggi.

Probabilmente noi siamo il nostro cibo, il nostro vento, il nostro sole, la nostra pioggia, il nostro paesaggio, le nostre case, le nostre città lì siamo ficcati e non ci è facile uscirne.

Il problema è che spesso non siamo il paesaggio e la città moderna, siamo il paesaggio e la città antica, siamo i portici e le rogge, le cascine e i fontanili, le “buone cose di pessimo gusto” e il possibile buon gusto dei nostri familiari.

Ancor prima di diventare architetti abbiamo vissuto in spazi che non ci erano raccontati come architettonici ma semplicemente come casa: “Andiamo a casa, Vieni a casa, Vai a casa, Torna a casa”…

Quella casa, se non è passata per il Rasoio di Occam del moderno, è riconoscibile e riconosciuta: ha un portone incorniciato, finestre a volte quadrate, a volte rettangolari, qualcuna tonda , balconi e balconcini, mattoni, intonaco, colori che diversificano l’esterno così come ogni abitante personalizza i propri interni.

I materiali e le tracce della manualità che li ha posti in opera ancorano gli edifici al luogo, c’è una sorta di complicità che si è stabilita tra la facilità di reperimento dei materiali e una capacità di messa in opera tramandata e collaudata, l’edificio viene effettivamente costruito e conserva la fatica che è costata per farlo.

Queste corrispondenze, la luce, gli odori, il cielo contribuiscono in modo essenziale a far sì che dopo un allontanamento si possa dire: “Qui ho le mie radici, qui sono a casa”.

Così come Ulisse ritrovò a Itaca le radici dell’ulivo su cui era stato costruito il letto dove aveva dormito con Penelope e che, per questa sua caratteristica, non poteva essere trasportato altrove .

Noi ci riconosciamo in quelle “… delicate sculture rappresentanti il miracolo di S. Teofilo o i quattro figli di Aimone.”

Infine vorrei ricordare che anche gli extraterrestri hanno una casa a cui vogliono tornare benché siano stati accolti e accuditi sul nostro pianeta,

“ET… telefono casa”

Ecco una casa e una città disegnata da bambini e una città immaginata da Paul Klee:

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