UCTAT Newsletter n.78 – maggio 2025
di Matteo Gambaro
Era il mese di gennaio 2015 quando conobbi Giuseppe Rebecchini, importante architetto e professore universitario romano, allievo di Ludovico Quaroni. Lo incontrai nel suo studio di via dei Banchi Nuovi, ubicato nel cuore del centro storico di Roma, subito dopo piazza dell’Orologio, nell’ansa del Tevere di fronte a Castel Sant’Angelo.
Rebecchini è stato professore ordinario di progettazione dell’architettura, inizialmente allo IUAV di Venezia e poi a Reggio Calabria, dove ha svolto buona parte della sua carriera accademica, e quindi nell’ultimo decennio di ruolo tra Ferrara e La Sapienza di Roma. Parallelamente all’insegnamento universitario ha svolto una intensa e significativa attività progettuale con la realizzazione di opere pubbliche, in particolare numerose sedi universitarie italiane.
Il motivo dell’incontro era la partecipazione al concorso “Progetto Flaminio. Concorso internazionale di progettazione per il quartiere della città della Scienza” di Roma, bandito da Cassa Deposito e Prestiti in accordo con l’Amministrazione comunale. Si trattava della rigenerazione dell’ex Stabilimento Macchine Elettriche di Precisione dell’Agenzia del Demanio, collocato tra via Guido Reni e viale del Vignola nel quartiere Flaminio. Una zona caratterizzata dalla presenza di importanti opere di architettura del Ventesimo secolo: il Foro Italico di Del Debbio, oltre il Tevere, il villaggio olimpico di Monaco e Luccichenti, Libera, Moretti e Cafiero, costruito nel 1960, il palazzetto dello sport di Nervi, il Parco della Musica progettato da Renzo Piano e il Museo MAXXI di Zaha Hadid costruito sul lato opposto della strada.
L’ambizioso obiettivo del concorso era la trasformazione dell’area di oltre cinque ettari in un nuovo brano del tessuto urbano cittadino, prevedendo l’insediamento della Città della Scienza e di un mix residenziale, commerciale e terziario articolati lungo il nuovo sistema di spazi pubblici e verde, destinati a circa 2.000 abitanti.
Il raggruppamento, guidato da Giuseppe Rebecchini, prevedeva il coinvolgimento del nostro gruppo del Politecnico di Milano: Fabrizio Schiaffonati, Elena Mussinelli, Andrea Tartaglia, oltre al sottoscritto, incaricati di sviluppare in particolare approfondimenti sugli aspetti di progettazione ambientale, anche se Rebecchini ha sempre condiviso le scelte progettuali con una logica partecipativa aperta e attenta alle peculiarità di tutti i componenti del gruppo.
La giornata di lavoro con Rebecchini è stata molto gradevole e proficua, e si è articolata in tre momenti e lughi differenti: lo studio di architettura, raggiunto attraversando il primo cortile, grande spazio aperto ottenuto a seguito del recupero dei locali di una ex attività artigianale, arredato con grandi e semplici tavoloni in legno da disegno, nel quale abbiamo visionato gli elaborati grafici e approfondito gli aspetti organizzativi e la documentazione da produrre con l’aiuto di una sua collaboratrice; quindi il suo appartamento, poco lontano, a pranzo, con la presenza anche della moglie Marta Calzolaretti, con cui ha sempre condiviso l’attività progettuale e di ricerca. È stato il momento in cui abbiamo approfondito l’approccio culturale e le scelte morfo-tecno-tipologiche e discusso molto sul tema del contesto ambientale e del rapporto con le preesistenze. Ricordo che Rebecchini mi sollecitava a pensare il progetto come occasione per esprimere una visione culturale chiara, anche in rottura morfologica e figurativa con i manufatti esistenti: un approccio critico, attento all’esistente ma anche sufficientemente indipendente, mai mimetico. Ritornando a Milano in treno, nel tardo pomeriggio, sfogliando i libri che mi aveva regalato, lessi con compiaciuto stupore il testo introduttivo ad un suo volumetto, intitolato “Idee di architettura. Il momento iniziale del progetto”, scritto da Laura Thermes, che si concludeva affermando che: “… l’opera di Giuseppe Rebecchini… potrebbe essere definita come il frutto di un realismo critico”. Credo che sia la corretta sintesi di quello che Rebecchini mi ha trasmesso.
Il terzo luogo è stato l’automobile con cui, dopo pranzo, abbiamo fatto il sopralluogo al quartiere Flaminio. Sostanzialmente imboccando la via Flaminia da piazza del Popolo e percorrendola per circa due chilometri abbiamo raggiunto l’incrocio con via Reni e l’area di progetto. L’ultimo tratto della via è caratterizzato dalla presenza della tipica palazzina romana di cinque-sei piani, simbolo dell’espansione edilizia e denigrata come esempio della rendita fondiaria, sul cui commento abbiamo dissertato a lungo, citando casi paradigmatici e vere eccellenze progettate da Lafuente, Monaco, Luccichenti, Moretti, Ridolfi, Libera e molti altri protagonisti dell’architettura italiana negli anni Sessanta. La mia ottima conoscenza dell’opera di Julio Lafuente, dovuta all’attività di relazione a due tesi di laurea, aveva stupito molto Rebechini.
La visita è stata accurata, abbiamo percorso in lungo e in largo il quartiere Flaminio e perimetrato l’area dell’ex stabilimento del Demanio, acquisendo un’idea precisa della consistenza del tessuto urbano, del sistema viabilistico e più in generale dello spirito del luogo. Terminato il sopralluogo Rebecchini mi ha poi accompagnato alla stazione Termini per il viaggio di ritorno.
Il progetto che abbiamo predisposto nelle settimane successive era costituito da due ambiti distinti tenuti insieme dall’ampio spazio pubblico prospicente all’edificio del MAXXI. La Città della Scienza, configurata come una grande piastra sollevata 15 metri da terra, con copertura verde percorribile dai pedoni, da cui si elevavano piccole torri di altezza variabile destinate ai laboratori in collegamento diretto con il museo della scienza sottostante e con la promenade verde in copertura. La posizione delle torri, ruotate rispetto alle grandi bucature nella piastra consentivano l’ingresso della luce e dell’aria ai piani inferiori e all’enorme spazio libero a tripla altezza: una vera e propria piazza attrezzata, attraversata al primo e secondo piano da larghi ponti pedonali.
L’edilizia residenziale privata era invece concentrata in un’area rettangolare ad ovest della Città della Scienza. Un complesso costituito da una “lama” alta circa 33 metri che delimitava la grande piazza centrale, da 8 moduli 20x20x19 di altezza, sorta di palazzine romane, e da un’altra “lama” alta circa 25 metri per le abitazioni sociali. L’idea era di costruire un quartiere di palazzine, esclusivamente pedonale, con stessa volumetria ma con soluzioni architettoniche differenti.
Un giardino lineare, lungo più di 300 metri, bordava tutto il lato sud dei suddetti interventi e separava dalla porzione più a sud dell’area in cui era previsto il recupero di un grande manufatto industriale e la realizzazione di una torre cilindrica di oltre 70 m.
La giuria del concorso non ha però ritenuto il progetto meritevole di essere ricompreso nella lista dei sei finalisti e nel mese di giugno del 2015 ha decretato vincitore il progetto elaborato dallo studio di Paola Viganò, associata temporaneamente con la società di Ingegneria D’Appolonia Spa di Genova.
Al di là dell’esito del concorso, che ha colto di sorpresa molti osservatori e critici, eliminando peraltro i grandi dell’architettura contemporanea tutti presenti, l’occasione ci ha consentito di condividere una importante esperienza progettuale con Giuseppe Rebecchini, architetto colto e di lunga e comprovata competenza, gentilissimo e attento alle considerazioni espresse anche dal sottoscritto, allora giovane architetto alle prime esperienze su progetti così complessi. Porterò nella memoria il ricordo di un vero signore romano.


