UCTAT Newsletter n.22 – aprile 2020
di Oscar Eugenio Bellini, Matteo Gambaro, Martino Mocchi
La centralità dell’alloggio collettivo e della “casa privata” come ambiente privilegiato da porre sotto osservazione va di pari passo al riconoscimento di alcuni ambiti in cui l’emergenza ha rivelato le maggiori contraddizioni e inadeguatezze. Il “caso” delle residenze per anziani, ormai al centro della cronaca quotidiana, rappresenta un chiaro indicatore, che ha evidenziato una totale impreparazione delle istituzioni a far fronte alle necessità epidemiche, favorendo in molti casi il diffondersi del contagio, suscitando paure e rivolte da parte di utenti e opinione pubblica. Un discorso similare potrebbe essere esteso alle prigioni e a quelle che convenzionalmente di chiamano “residenze speciali”.
Sebbene abbia avuto minor spazio sulle pagine della cronaca, anche il caso della residenzialità studentesca si dovrebbe inquadrare in questo scenario, viste le oggettive difficoltà che tali ambiti hanno vissuto nel far fronte all’emergenza, coinvolgendo una serie di operatori quali Atenei, Cooperative, Gestori privati, Collegi ecc.
Per provare a fare chiarezza sugli scenari che potranno portare a un miglioramento della situazione, risulta significativa una recente intervista apparsa sul Giornale dell’Architettura (17/4/2020), in cui l’ex ministro della giustizia Flick – riflettendo sulla trasformazione della città in funzione dell’esperienza COVID-19 – introduce una distinzione fondamentale tra il concetto di “emergenza” e quello di “eccezione”. Mentre «l’eccezione è una deroga “normale ma minoritaria” alla regola, l’emergenza è una “situazione temporanea” destinata a venire meno con la scomparsa delle sue motivazioni in fatto; quindi richiede il ritorno alla normalità delle regole».
Tradotto nel linguaggio dell’architettura, ciò significa iniziare a riflettere sulla relazione tra un approccio “correttivo” e puntuale della situazione in atto, volto a introdurre soluzioni “eccezionali” all’interno dei contesti abitati, lasciando immutata la regola generale, e una revisione più “strutturale” di alcuni modelli abitativi e comportamentali, con la finalità di produrre un cambiamento delle condizioni stesse della “normalità”, rendendola in grado di accogliere e sostenere nuove prevedibili “crisi temporanee”.
La natura di alcune proposte avanzate fino a questo momento sembra orientarsi verso il primo di questi versanti, rivelandosi particolarmente fragile proprio in relazione agli ambiti che stiamo considerando, che necessiterebbero al contrario di una complessa revisione in chiave progettuale di quanto fino ad ora realizzato. Un ripensamento delle relazioni tra aree private e aree collettive, spazi filtro e distributivi, edifici e città. In una maggiore continuità funzionale e fruitiva, che possa diventare occasione per nuovi scambi e più articolate interazioni sociali.
Rispetto al tema della residenzialità studentesca, tale prospettiva si può al momento concentrare attorno a tre linee di azione.
La prima è relativa, anche in vista della realizzazione di nuovi interventi, a una necessaria evoluzione del concetto di “residenza” come semplice struttura in grado di offrire un “posto letto”. Un format datato, che ha rivelato proprio in questa occasione i suoi limiti più evidenti, che dovrebbe lasciare spazio a una considerazione più aperta di tali ambienti, per soddisfare le molteplici esigenze dello studente fuori sede. Ad esempio, la mancanza di considerazione in fase di progetto dell’importanza di sezioni abitative autonome e autosufficienti per un numero limitato di utenti (8/12), dotate di spazi comuni “intermedi” e facilmente controllabili (anche in termini di affollamento), a integrazione e/o sostituzione di quelli tradizionali e condivisi, ha rappresentato un limite evidente. A ciò si uniscono le possibilità offerte dalla previsione di spazi per l’integrazione e la socializzazione informale tra i giovani, a scapito della centralità della sola “stanza” o dei soli spazi aperti a tutti, che hanno rappresentato uno dei principali elementi critici.
Tale riflessione porta con sé il difficile tema del rapporto tra residenze studentesche e contesti urbani, a vantaggio di uno scambio più articolato e reciproco di funzioni “utili” e/o “collaborative” tra studenti e cittadini (pensiamo agli anziani), che avrebbe potuto giocare in questa situazione di emergenza un ruolo rilevante, anche dal punto di vista sociale e assistenziale.
Il secondo elemento critico è relativo all’assunzione delle residenze universitarie come veri e propri “dispositivi didattici”. Il successo delle forme della didattica a distanza, che hanno permesso agli Atenei di non interrompere la propria offerta formativa e di mantenere le scadenze dei calendari accademici, non può essere considerato un indicatore da estendere alle residenze per studenti, che invece hanno dovuto rinunciare al proprio ruolo “formativo” in senso più ampio. Il successo degli strumenti digitali che hanno permesso la delocalizzazione temporanea tra studenti e docenti non può essere considerata la base per una sostituzione dei rapporti tra gli individui, che devono essere al contrario sostenuti da adeguate forniture, spazi e strutture.
Il terzo aspetto da sottolineare è relativo alla necessità di disporre di adeguati protocolli e/o piani di intervento da attuare in caso di situazioni emergenziali, con cui governare le diverse criticità esterne, in un coordinamento tra i soggetti e gli enti coinvolti e la conseguente prevedibile frammentazione delle responsabilità. Una situazione che rende necessario almeno un chiarimento delle relazioni tra gestori esterni, Atenei, Enti locali, Istituti sanitari, soggetti politici e amministrativi.
I tre punti sollevati rappresentano alcuni dei possibili riferimenti per un ripensamento del dibattito sullo student housing, anche a fronte dell’apertura del Sesto bando nazionale previsto dalla Legge n. 338/2000 per il sostegno della residenzialità studentesca fuori sede, che richiederà un impegnativo ri-aggiornamento dello scenario normativo e tecnico di riferimento.
