Una Roma indimenticabile

UCTAT Newsletter n.77 – aprile 2025

di Matteo Gambaro

Era la fine dell’estate del 2014 quando mi recai a Roma per una visita approfondita al quartiere EUR, volevo vivere di persona l’atmosfera di quella straordinaria opera di urbanistica e di architettura progetta per l’Esposizione universale del 1942 e completata, a causa della guerra, solo nei decenni successivi. Un quartiere giardino in cui convivono le costruzioni dei maestri dell’architettura italiana, sostanzialmente ricostruito a partire dagli anni Cinquanta e poi completato negli anni Sessanta, in occasione delle Olimpiadi, e progressivamente fino all’epoca contemporanea. Una grande opera collettiva che ha travalicato le vicende della storia.

In quell’occasione soggiornai nel piccolo appartamento che mi mise a disposizione l’amica e collega Carola Clemente. Ci incontrammo per la consegna delle chiavi nel cuore di Trastevere, in piazza San Cosimato, ri-progettata dalla collega Federica Ottone, con Lorenzo Pignatti, nel 2006, e raggiungemmo in pochi minuti a piedi la via dei Panieri, ubicata nelle immediate vicinanze della caserma del Comando dei Carabinieri di Trastevere.

Il tempo di ringraziare Carola e di depositare il bagaglio e imboccai la tortuosa e scoscesa via Garibaldi che mi portò in un luogo bellissimo: alla mia sinistra potevo vedere il paesaggio di Roma dalla terrazza del colle Gianicolo e alla destra, da una piccola porta voltata, l’incredibile tempietto di San Pietro in Montorio del Bramante, costruito nel centro di uno dei cortili dell’omonimo convento alle spalle della Reale Accademia di Spagna.

Era il primo pomeriggio e faceva molto caldo, era deserto e si sentiva solo il frinire delle cicale e un leggero venticello, una atmosfera quasi irreale che mi ha portato alla mente alcune pellicole cinematografiche ambientate a Roma durante il periodo estivo. In particolare, l’episodio di “Un sacco bello” in cui Mimmo (Carlo Verdone) accompagna la turista spagnola Marisol a visitare lo zoo in una Roma bollente e deserta, scandita dalla musica di Ennio Morricone.

Avevo in programma diversi incontri con alcuni colleghi, sia alla sera a cena che nei giorni successivi al Dipartimento di Pianificazione, Design, Tecnologia dell’Architettura della Sapienza, in via Flaminia, ed improvvisai anche un messaggio di saluto a Roberto Palumbo, all’epoca già in pensione, il quale mi rispose invitandomi a pranzo per il giorno successivo.

Passò a prendermi, con la sua Smart nera, in piazza Trilussa, davanti a Ponte Sisto, nella zona dove staziona il venditore di grattachecche.  Ricordo che mi aprì la portiera e fui investito da una nuvola di fumo, così bianca e densa da lasciarmi stupido, incredulo, evidentemente facendo trasparire anche un certo fastidio, tanto che mi disse – chi lo conosce può immaginare la battuta –: “Matte, nun me rompe er cazzo perchè tanto fumo lo stesso…”. E così salii sull’auto percorrendo, fortunatamente, un breve tragitto attraversando il Tevere fino a raggiungere il ghetto e l’osteria Da Giggetto al Portico di Ottavia.

Apparentemente il locale era chiuso per rispettare il turno, ma Palumbo mi chiese di seguirlo attraverso una passerella sospesa sulle emergenze archeologiche, fino ad arrivare in uno slargo ombroso dietro all’osteria, da cui si accedeva alle cucine, in cui erano preparati cinque o sei tavoli protetti da grandi ombrelloni bianchi di stoffa.

Abbiamo pranzato li, chiacchierando per più di due ore di tanti argomenti, soprattutto inerenti al mondo universitario. Mi ha parlato della necessità di investire sui giovani, prendendo decisioni chiare e nette indispensabili per la costruzione della nuova generazione, sottolineando i rischi dei tempi lunghi ed incerti del mondo universitario. Ritornava continuamente sull’importanza di formare la classe dirigente futura, composta da persone con forte senso politico, capaci di operare da dentro le istituzioni senza strappi inutili. Ha utilizzato l’espressione latina primus inter pares per rendere esplicito il senso del suo ragionamento.

Ripercorremmo poi la nascita dei cluster, da lui fortemente voluti e del gruppo di giovani collaboratori che riuniva a Roma nel suo ufficio presso il Dipartimento in via Flaminia: Carola Clemente, Teresa Villani, Cristina Conti, Francesca Giglio, Serena Viola, che non è più con noi, e il sottoscritto. Ricordo le lunghe telefonate serali che terminavano sempre con la richiesta di aggiornare le colleghe degli argomenti trattati e soprattutto, quasi distrattamente, di verificare anche il parere di Schiaffonati; o la telefonata che mi chiese di fare a Romano Del Nord e la sua risposta educatamente scettica sull’operazione. Era l’ultimo anno della sua presidenza della SITdA e investì molto nella nascita dei cluster, introdotti, sulla rivista Techne, da nostri contributi con il coinvolgimento delle diverse sedi universitarie: riteneva importante mandare avanti noi giovani su questo argomento.

Conoscevo la frequentazione politica di Palumbo e la sua cultura sostanzialmente di sinistra, vissuta con passione nella “città della politica” per antonomasia, non immaginavo però un ragionamento sull’università così esplicitamente riformista, di matrice socialista.

In quel periodo stavo collaborando con la Casa di reclusione di Bollate e con il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria della Lombardia, l’avevo informato di qualche difficoltà a operare in quel contesto così impermeabile e refrattario alle innovazioni, su cui stavo appunto lavorando nella sezione delle detenute madri con figli, e lui mi offri subito la sua collaborazione e la disponibilità a “muoversi” con i suoi contatti romani. Rimarcò l’importanza sia dei rapporti con le istituzioni, che delle sperimentazioni progettuali, indispensabili per noi architetti tecnologi. Mi spronò ad andare avanti, senza farmi influenzare dai temi mondani che a suo avviso stavano modificando il carattere della nostra area.

Poco prima di alzarci, improvvisamente, cambiò discorso e mi raccontò del periodo di vacanze che trascorreva, da bambino, a Varallo Pombia, piccolo comune del novarese ubicato tra il fiume Ticino e le colline di Divignano. Naturalmente sapeva delle mie origini novaresi. Durante quel periodo era stato coinvolto come modello per la realizzazione dell’affresco di un puttino, nella chiesa della Santissima Trinità, ricostruita e ampliata a partire dal 1929 e in fase di completamento in quegli anni. Non sono mai riuscito a visitare la chiesa, aperta solo durante alcuni periodi dell’anno in occasione di specifiche celebrazioni; mi ripropongo però di farlo non appena avrò terminato la scrittura di questi ricordi, ricercando il piccolo Roberto Palumbo.

Mi disse anche tante altre cose, esprimendo pareri personali che però rimarranno nei miei ricordi.

Mi salutò, dicendomi che avremmo dovuto vederci più spesso, dandomi una carezza e un bacio affettuoso sulla guancia.

Mi lasciò, a metà pomeriggio, in piazza Trilussa, dove mi aveva caricato.

Era già in pensione da diversi anni, e non stava più frequentando la SITdA e i colleghi dell’area.

Non abbiamo più avuto occasione di parlare in modo così franco.

Retro dell’osteria Da Giggetto al Portico di Ottavia, Roma.
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