Una voce fuori dal coro: elogio dell’urbanistica

UCTAT Newsletter n.81 – settembre 2025

di Fulvia Delfino

Ripubblichiamo questo articolo del 1995 di Fulvia Delfino, allora dirigente del Settore urbanistico del Comune di Milano, per la sua sconcertante attualità (NdR).

Nella babele del senso civico che stiamo vivendo da tempo gli intellettuali, gli amministratori, gli accademici, gli imprenditori, i professionisti della politica o di arti e mestieri, i commentatori a mezzo stampa o video, i sondaggisti, i comitati di quartiere, i tassisti, le casalinghe, … sembrano aver trovato una consolatoria auto assoluzione nell’identificazione del grande responsabile dello scempio del territorio e dell’invivibilità delle città:  L’URBANISTICA E LA SUA PIÙ’ DIABOLICA EMANAZIONE, IL P.R.G.!

Calma! Le responsabilità non possono essere attribuite a corpi disciplinari in toto o agli strumenti che ne sono parte. Le responsabilità vanno sempre ricondotte alle persone e ai comportamenti individuali o di gruppi.

Bisogna distinguere tra strumenti e l’uso che se n’è fatto; tra teorizzazioni e pratica; tra enunciazioni e risultati; tra principi e comportamenti…

In questa lapidazione dell’urbanistica, gli urbanisti (gli accademici, i professionisti, i detentori del sapere tecnico, i cultori della materia …) sembra che non vogliano interrogarsi sul loro essere più o meno senza peccato e, nel dubbio, hanno scelto il ruolo di procacciatori di pietre.

Perché gli urbanisti soffrono di un complesso di inferiorità tale da auto censurarsi sulla propria dignità professionale? Questo imbarazzo è sintomo di debolezza (crisi epocale che attraversa con minor imbarazzo altri mestieri o discipline) o è invece la misura della cattiva coscienza collettiva su complicità, connivenze, coperture …?

 Ma chi sono gli urbanisti? L’urbanista non ha una patente, un riconoscimento giuridico; può avere una formazione varia; per firmare un piano occorre avere una laurea in ingegneria o architettura (ma ci hanno provato anche i geometri); può professarsi urbanista anche chi si occupa di economia, di sociologia, …

Il continuo richiamo all’interdisciplinarità nella formazione del piano degli anni settanta ha rappresentato l’esigenza subliminale di una figura professionale che compendiasse competenze diverse che continuano ad arricchirsi nel tempo  in relazione a nuove problematiche, a nuove esigenze o sensibilità. L’ordinamento scolastico ha continuato ad ignorare la necessità di formazione di una figura professionale e l’urbanistica ha continuato ad essere una materia del corso di laurea in architettura e gli architetti liberi di scorrazzare nei due diversi campi disciplinari della progettazione edilizia e della pianificazione territoriale.

Così gli urbanisti sono per lo più figli di una passione diventata mestiere attraverso l’autodidattismo e la pratica sul campo o, peggio, nelle cattive scuole della pubblica amministrazione e dei partiti.

L’emancipazione dalla originaria matrice dell’architettura di certi urbanisti è avvenuta con un atto di superbia dell’essersi per generazioni posti al di sopra in una scala gerarchica e temporale, nonché di impegno civile. PANZANE!

L’urbanistica non “viene prima” o “vale di più”. È SEMPLICEMENTE ALTRO.

La rivalsa sullo strapotere presunto o reale di certi urbanisti avviene oggi con l’affermazione di un altro strapotere o extra potere: quello del PROGETTO.

Il progetto diventa lo strumento non convenzionale della trasformazione del territorio contrapposto al piano, screditato strumento dell’urbanistica tradizionale.

Nella scellerata, falsa contrapposizione tra piano e progetto (diatriba che consuma energie solo degli addetti ai lavori e che passa sulla tasta della città) si è arrivati al paradosso di confondere il progetto di architettura con le “politiche amministrative” proponendone l’intercambiabilità. E così vengono usati incomprensibili slogan come: “pianificare per progetti” o, peggio, “governare per progetti”. Ignoranza o miopia?

Da dieci anni ci andiamo ripetendo che le aree dismesse da industria o impianti sono l’occasione storica e la risorsa per la riorganizzazione della città imposta dalla deindustrializzazione delle aree metropolitane conseguente alla globalizzazione della divisione del lavoro e dei mercati.

La scelta di trasformare queste aree con modesti e casuali contenuti funzionali è stata fantasiosamente chiamata “urbanistica delle responsabilità”. Ma che cosa è l’urbanistica delle responsabilità?

Se la responsabilità è la qualità di chi sa valutare le conseguenze delle proprie azioni ed è tenuto ad assumersene l’onere, pare ovvio che l’urbanistica delle responsabilità, o per meglio dire una politica urbanistica responsabile, debba articolarsi in azioni di governo responsabili, cioè di cui siano verificabili gli effetti.

Ma prima ancora una politica urbanistica responsabile deve percorrere la strada della conoscenza dei bisogni, dei desideri, delle aspettative, delle risorse fisiche, economiche, culturali, umane, …; deve saper tessere una rete di compatibilità tra interessi anche diversi purché legittimi.

Può il progetto di architettura essere lo strumento di questo processo?

Può sostituire gli screditati strumenti dell’urbanistica?

In questo clima culturale e politico rissoso e dilettantesco è sempre più difficile e improbabile ritrovare una possibilità di sereno confronto su: modi, tempi, speranze, competenze, soggetti, responsabilità – sia tecniche che politiche – della gestione del territorio in generale e in particolare delle concentrazioni urbane.

La demonizzazione del piano non è altro che la sublimazione di una assenza di dibattito sul futuro delle città che non c’è prima di tutto perché non ci sono idee o un minimo di certezza che le idee siano praticabili. Demonizzazione sostenuta da chi non ha argomenti o immaginazione per sostenere un dibattito sul futuro della città.

Si sta andando verso un minimalismo pericoloso se non è una consapevole riduzione di tensioni ideali in rapporto alla incertezza dei destini politici ed economici dell’intero paese; minimalismo che contrabbanda l’arredo urbano per riqualificazione urbana, che asseconda particolarismi ed egoismi scambiandoli per partecipazione, che scopre la manutenzione urbana non come prassi costante ma come panacea alla crisi dell’edilizia. Questo torpore delle idee, questa atrofizzazione del senso civico sono irreversibili?

Certamente è necessario progettare e riprogettare con progetti di qualità parti di territorio obsolete o degradate o semplicemente brutte; certamente è necessario mantenere e integrare le reti infrastrutturali; certamente è utile riempire le buche delle strade o piantare qualche albero.

Ma prima ancora va dichiarata la finalità e quindi anche alcuni contenuti dei progetti, cioè i requisiti irrinunciabili di BENEFICI COLLETTIVI.

Solo in presenza di una strategia dichiarata si potranno confrontare e valutare la compatibilità e la coerenza di ciascun progetto con il progetto complessivo di città, della sua forma del suo ruolo, delle relazioni interne ed esterne, economiche, culturali, sociali. Ed è indubbio che questo debba essere un progetto civile, culturale e politico, prima ancora che un progetto di assetto territoriale in funzione di un ruolo possibile e sostenibile.

Non si tratta né di una questione di scala – territoriale, urbana, d’area, di quartiere o più semplicemente di lotto – né di una questione di metodo. Si tratta di una diversa logica, di un diverso approccio disciplinare al tema della città.

La differenza è tra: “logica addizionale” per cui i progetti aggiungono, sostituiscono o trasformano manufatti della città costruita e “visione complessiva” non solo di parti di territorio, ma anche e soprattutto di componenti, risorse, problematiche, attori, …

Il progettista deve poter contare sul fatto che motivazioni e dimensionamenti di ogni singolo progetto siano stabiliti e verificati da altri soggetti e altre discipline che, cioè, sia garantita attraverso una CHIARA COMMITTENZA la coerenza e la compatibilità con il complesso dell’organismo urbano.

Chi non vuole o non è capace di chiamare “pianificazione” il processo di definizione di una strategia organizzativa del territorio, al di là di mistificatori giochi di parole, dimostra scarso senso di responsabilità e di consapevolezza del ruolo politico e civile dell’amministrare.

Un’ultima considerazione: chi ha inventato “l’urbanistica per progetti”?  C’è una responsabilità disciplinare nell’averla proposta e sostenuta e una responsabilità politica nell’averla fatta propria?

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