Partecipazione e sicurezza urbana. Un commento

UCTAT Newsletter n.1 – gennaio 2019

di Martino Mocchi

In “Essere e tempo”, Heidegger introduce i concetti di “paura” e “angoscia” come termini fondamentali per comprendere il nostro “essere-nel-mondo”. Mentre la paura è conseguenza di un oggetto specifico e localizzabile, l’angoscia fa riferimento a una causa indeterminata, non associabile a nulla di concreto. In ultima istanza, la condizione dell’Essere nei confronti della morte.

Tale contrapposizione mi pare interessante per iniziare un commento sul tema della sicurezza urbana, i cui presupposti, nella contemporaneità, tendono ad allontanarsi dalle forme specifiche dei luoghi per assumere la risonanza di slogan globali. In termini heideggeriani, dunque, la questione della sicurezza risponde sempre più alle esigenze di “angosce di massa” piuttosto che a “paure” riconducibili ai tratti specifici del territorio e della comunità che lo abita.

Anche la soluzione del problema, di conseguenza, diventa funzionale alla costruzione di ambienti “sicuri” sulla base di parametri e standard universalmente quantificabili, piuttosto che in relazione all’assetto inevitabilmente temporaneo e variabile del locale. La proliferazione di sistemi tecnologici di sorveglianza e di controllo sempre più invisibili, delocalizzati – e al contempo più anonimi – risponde chiaramente a questa esigenza.

Dare per scontata l’efficacia di tale processo, senza considerare le conseguenze sociali e simboliche implicate nel passaggio, rischia di essere pericoloso. Se è vero, da un lato, che vivere nella paura porta a non essere consapevoli delle proprie potenzialità – per continuare a parafrasare Heidegger – dall’altro non bisogna trascurare che “l’ossessione per la sicurezza sta oggi assumendo un ruolo sempre più importante nel condizionare la nostra libertà”. È questa la tesi al centro di un interessante libro del 2010, scritto dal filosofo norvegese Lars Svendsen, intitolato “Filosofia della paura: come, quando e perché la sicurezza è diventata nemica della libertà”.

I molti gli esempi citati dall’autore dimostrano come l’affermarsi di una paura delocalizzata sia in grado di condizionare e limitare le scelte del singolo, determinando dei costi sociali di ampia portata, comprensibili attraverso chiavi di lettura piuttosto sofisticate. “Si stima che circa 1.200 americani morirono dopo l’11 settembre perché avevano paura di prendere l’aereo e sceglievano quindi di prendere la macchina”.

Applicata all’ambito urbano, la tesi evidenzia l’analogo costo sociale implicato nel cambiamento delle forme e dei modi del vivere collettivo, che stanno progressivamente minando la libertà alla base dell’esperienza della città. La tendenza alla chiusura in enclave protette può essere interpretata proprio come la conseguenza della ricerca di una “sicurezza” a tutti i costi. Una risposta globale e indifferenziata, quantificabile sulla carta nella riduzione del numero delle violenze, dei furti o delle rapine, che esclude ogni ricerca di confronto e di accoglienza del vicino. Il caso milanese di City Life risulta significativo: quanto il nuovo quartiere sia realmente in grado di affermarsi come luogo di socializzazione e di scambio collettivo è sotto gli occhi di tutti. La chiusura a mezzanotte dei cancelli di quella che è definita “piazza” Elsa Morante la dice lunga…

Resta da chiedersi se la sicurezza così prodotta sia in assoluto un fattore di qualità per la vita urbana. O se non implichi, al contempo, una rinuncia alla costruzione di quelle relazioni che hanno tradizionalmente sostenuto e fondato regolamenti locali interiorizzati e condivisi. Il riferimento a una giustizia indifferenziata, garantita dalla sorveglianza impersonale dei sensori e degli “occhi” digitali, sembra infatti in contraddizione con quelle piccole ingiustizie che da sempre permettono la pacifica coesistenza locale, come prodotto di collaborazione, scambio, mutua assistenza tra i cittadini. Ciò pone, in definitiva, il problema della relazione tra una morale sempre più “eteronoma” – per dirla con Kant – e la percezione della sicurezza individuale, che non può che misurarsi nel momento di “girare l’angolo di casa”: una dimensione in cui la sorveglianza del Grande Fratello tecnologico non potrà mai sostituire il sorriso gentile del vicino di casa.

I brevi spunti introdotti vorrebbero segnalare l’esigenza di ricollocare il tema della sicurezza all’interno dei compiti imprescindibili del progetto, e non semplicemente all’interno dei costi di cui esso si deve fare carico a posteriori, spesso per colmare i propri limiti. Come affermano Bolici e Gambaro, nel commentare il nuovo Decreto 14/17, deve tornare a emergere l’“importanza della progettazione fisica dello spazio pubblico e dei manufatti edilizi come fattori determinanti sui comportamenti, sulle abitudini e sui modi con cui gli abitanti vivono la città”.

Un tema certamente non semplice, che esclude soluzioni preconfezionate, implicando dei percorsi articolati e innovativi di comprensione del locale. Favorendo al contempo nuove forme di progetto, in grado di dare senso compiuto ai temi della partecipazione e della consultazione popolare. Una strada su cui si è avviata da qualche tempo la ricerca di UCTAT. Alcuni spunti in questa direzione mi sono arrivati dalla lettura dell’ultimo lavoro di Richard Sennett, intitolato significativamente “Costruire e abitare”. Un testo che forse apre più interrogativi di quanti non ne riesca a risolvere, ma che pone alla nostra riflessione la convinzione decisiva del fatto che la sicurezza non può derivare da un lavoro tecnicistico, ma dal tentativo consapevole di costruire una nuova “etica della città”.