UCTAT Newsletter n.12 – maggio 2019
di Eleonora Fiorani
Luce che dice e canta l’umana esistenza e il suo senso nel mondo è così che mi appare l’installazione di illuminotecnica di Dan Flavin Untitled, poco prima della morte, alla Chiesa Rossa a croce latina, progettata da Giovanni Muzio nel 1932 completata nel 1960 con il pronao, che è costituita da una navata centrale, una volta a botte, un soffitto in legno nel transetto. Così che essa è anche il suo testamento artistico e progettuale, esente da ogni possibile mistica visione, come è stato per tutta la vita il suo modo di operare con la luce in sintonia con le strutture architettoniche degli spazi in cui operava. È con la severità ed essenzialità architettonica, è con le sue pareti spoglie che dialoga la capacità delle sue installazioni di luce di ridisegnare e colorare lo spazio. Nella Chiesa Rossa i colori ne sottolineano le parti: i blu – che da intensi si fanno lievi e sfumano negli azzurri e che il verde annuncia e chiude – per la volta a botte della navata centrale, i rossi e i delicati rosa per il transetto, le tinte auree dei luminosi e solari gialli dorati per l’abside.
Mi appare allora che nella Chiesa Rossa Flavin abbia dipinto la luce del mondo e dei cieli nello scorrere del giorno. Così la luce sottolinea e dice l’esperienza umanissima estranea a ogni religione dello scorrere del tempo, quello di un giorno in cui alla notte segue la rosea alba, e poi l’accecante solarità del mezzogiorno, che è anche metafora dell’effimero e del trapassare della vita dalla nascita alla maturità, alla vecchiaia e poi la morte.
Ė allora la dimensione del colore, che crea da se stessa a se stessa, delle identità, ciò che determina con il suo movimento nello spazio la carica dinamica di energia delle curvature e delle differenze diventando essa stessa struttura. Così che ne è l’aspetto strutturale percettivo del tutto estraneo a quello espressivo.
Di qui la riduzione e semplificazione delle forme, il privilegiamento delle strutture primarie, del bianco o dei colori puri, del geometrismo come semplificazione massima delle strutture del reale, che non va oltre il dato istantaneo, alle caratteristiche del materiale, alla costruzione di una forma, all’aspetto esteriore delle cose.
Del resto la più lunga serie di lavori a luce bianca di Flavin, Monuments to V. Tatlin, è un esplicito riferimento al costruttivismo russo, al Monumento della III Internazionale, che è rinuncia al decorativismo e enfatizzazione dei materiali nella loro essenzialità cruda e visione dell’artista come “tecnico”. Ė ciò che fa anche il minimalismo con l’uso di materiali freddi, inespressivi, poveri, silenziosi. E tali sono i tubi al neon, freddi e perciò cerebrali. E lo sono l’elaborazione formale raffinata caratterizzata da forme ultime e dall’astrazione, l’essenzialità esecutiva, il generare un forte impatto iniziale e poi micropercezioni più attenuate, la rarefazione e la ridondanza nella ripetizione seriale, l’elevazione delle forme a struttura geometrica, la presenza muta dell’oggetto.
Ė un minimalismo quello di Flavin che è estraneo alle poetiche esistenzialistiche dell’espressionismo e anche a quelle del funzionalismo e dell’estetismo. L’opera in esso è sistema di segni e struttura. Le cose parlano per pura presenza e senza linguaggio in un silenzio, che chiede l’ascolto, e non esprime l’io, ma solo volumi tridimensionali, scarni, modulari e seriali.
Il riferimento di Flavin a Occam è assunzione di una visione empiristica e nominalista, estranea a ogni essenzialismo. Così ciò che esiste nei tubi al neon è la loro finalità, essere accesi o spenti, il loro provocare dei vissuti percettivi, la realtà tangibile. Il colore splende e vuole solo splendere. Ed esiste solo ciò che si può vedere e nulla porta a trascendere il puro atto percettivo. L’intensità luminosa dei tubi al neon determina una reazione di adattamento dopo l’iniziale stupore percettivo.
È per Flavin affermazione dell’esistenza provvisoria e tutta umana che ci costituisce.
