Il paesaggio estetico della città di Milano. Identità, ricerca e modelli nella capitale della rendita fondiaria

UCTAT Newsletter n.12 – maggio 2019

di Maurizio De Caro

È indubitabile la capacità che Milano ha di rinnovarsi, in continuazione, con una forza che spesso sembra incomprensibile, ogni decennio della sua storia cambia volto, e la trasformazione urbanistica degli anni Settanta o Ottanta, sembra lontana nel tempo, come una vecchia fotografia ingiallita. Ma all’alba del terzo millennio la città ha trovato un abbrivio diverso, una potente cinghia di trasmissione dove finanza, pianificazione e amministrazioni comunali hanno suonato all’unisono verso una visione condivisa di futuro, e lo dico prima di analizzare gli elementi positivi di questa condizione sociologica e politica e gli inevitabili risvolti negativi.

Tutto si gioca sulla definizione del centro direzionale, sogno inespresso già dagli anni Cinquanta, finalmente quell’ambito crea un “centro altro”, un vero luogo urbano rappresentato dalla piazza Gae Aulenti, segno molto più importante di quello che le gravita pesantemente intorno. 
L’asse Garibaldi-Repubblica diventa la costruzione simbolica di una mini-Manhattan meneghina, con risultati spesso controversi, e sostanzialmente lasciati all’espressione dei diversi operatori immobiliari.
La tanto agognata regia pubblica è assente, l’urbanistica dei poli catalizzatori cede il passo agli interventi di architetture più o meno interessanti ma troppo diversificate e poco dialoganti tra loro, prive di dialettiche.


Non è solo il caso di quella importante area, peraltro, di un’unica proprietà, ma anche dello sviluppo scomposto e frenetico di parti, e particelle. Il “telaio urbanistico”, lo scheletro politico e semantico della città non si riesce a leggere; ciò che è comune a tutte le capitali europee qui manca.
Mancando questo fondamentale aspetto, la città si riduce ad un campionario di architetture appetibili alla finanza mondiale, ma non riesce ad esprimere un carattere identitario, un’idea di città programmata, la Polis che nasce dall’ideale della politica ed è dunque pubblica: quegli spazi concatenati che rendono milanesi o londinesi il complesso dei volumi edificati.

Si dirà che la crisi della politica impedisce di creare le condizioni affinché gli “sviluppatori” possano, sottostare alla legge superiore del “Luogo Comune Condiviso”, quei tracciati che definiscono un particolare spazio come Milano, o Como o Mosca oppure Berlino.
Molti penseranno che l’influenza della politica ridotta alla mera funzione notarile sia un bene, noi pensiamo il contrario.
Ogni epoca ha espresso la sua idea di città, della stessa città, partendo da un pensiero pianificatorio dove le esigenze della rendita fondiaria interagivano con il contrappeso pubblico.

L’architettura ha vinto sull’urbanistica, l’immobiliare sulla visione, definendo il nuovo paesaggio estetico della città come sequenza di “bei condomini”, sempre più lussuosi sempre più scintillanti, frutto di accordi che poco hanno a che fare con la ricerca urbana contemporanea, e spesso purtroppo anche con la qualità architettonica diffusa nelle aree geopolitiche più avanzate.
Un paesaggio di facciate, ben progettate, una foresta di stilemi rassicuranti e spesso prevedibili, capaci di intercettare le esigenze dei potenziali acquirenti; e poi perché dovrebbe essere diverso?

Nella grande Milano del futuro la morsa finanziaria globale ha un ruolo imprescindibile anche nella scelta di un’estetica generale meno aggressiva e sperimentale, un “quartierone” dove il centro si allarga sempre di più, e costa sempre di più. Allora perché rischiare se il metro quadro vola, ma solo se ci togliamo alcuni grilli progettuali dalla testa?
E dunque il processo di spersonalizzazione passa dall’accesso di Milano al grande mercato globale, dove ogni intervento deve essere recepito, metabolizzato da un pubblico sempre più indifferenziato, perché variegato, dal manager del far-east asiatico, al dandy sudamericano, dal CEO nord-europeo, al tycoon arabo.

La città non ha gli anticorpi per reggere a questo processo di massificazione estetica ma anche ontologica, non può combattere contro i Fondi Medio Orientali che producono idee lontane dalla cultura progettuale del professionismo colto, quello che ha stampato nella memoria del mondo la Milano di Asnago e Vender, di Portaluppi, di Ponti, di Minoletti e altri lombardi straordinari.

Esattamente l’inverso della volontà di rendere la città, una città-mondo, enorme periferia di Shenzen, o di Dubai,o di altri posti esotici, dunque da una parte la città manifesta un’effervescenza addirittura sospetta, ma a scapito della volontà di preservare la propria meravigliosa identità.
Al denaro, e non al cuor, non si comanda, e forse è anche lo specchio di una certa semplificazione formale contemporanea, dove tutta l’architettura sembra straordinaria, ma poi se la analizziamo attentamente (ne avremo il tempo?) ci risulta banale e prevedibile.
Miracoli della Render-ville, è tutto magnifico, sorprendente ma solo prima di venderlo, poi diventa sciatto, casuale, innocuo.

Non vorrei rinunciare in questo breve scritto a cercare di individuare qualche straccio di soluzione all’irrinunciabile creazione di una identità urbana, contemporanea e condivisa; perciò bisogna costruire momenti e opportunità che consentano a quanti credono ancora nella densità simbolica del gesto architettonico di esistere.
Non è la guerra tra la matita e i super-elaboratori HAL 9000, ma il sano conflitto tra chi crede che un segno non sia semplicemente solo un segno e che una forma nasconda più quello che riusciamo a vedere, che trasformano l’edilizia in architettura, lo sviluppo sconnesso delle città contemporanee in urbanistica poetica ed ideale.
Milano potrebbe riuscire a creare un flusso semantico inverso, verso il centro delle idee, sempre attenta al portafoglio ma con qualche scampolo di sogno, di slancio, di azzardo, perché la ricerca non potrà mai essere rassicurante e l’avanguardia, come succede oggi, non può essere il lustrino elegante del potere finanziario interplanetario.

Centro Direzionale di Milano (1979), Vittorio Gregotti