Il paesaggio sonoro di Milano

UCTAT Newsletter n.12 – maggio 2019

di Martino Mocchi

L’inserto “7” del Corriere della Sera dell’11 aprile 2019 titola la propria storia di copertina “Qual è il suono delle città?”, dedicando un approfondimento specifico al tema della relazione tra suono urbano, musica e architettura.
Una tematica che ha cominciato ad assumere larga diffusione oltre quarant’anni fa, a seguito alla pubblicazione del celebre testo “Il paesaggio sonoro” del compositore canadese Murray Schafer. La cui nascita sarebbe però forse più giusto riportare al 1969, quando l’allora allievo di Kevin Lynch, Michael Southworth, scrisse un articolo intitolato significativamente “The sonic environment of the cities”.

A distanza di cinquant’anni, dunque, lo speciale del Corriere – pur nella sua ambizione divulgativa – dimostra la necessità di rilevare il fallimento di una certa impostazione degli studi in questo settore, che di fatto non sono riusciti a produrre un reale cambiamento negli scenari della nostra vita. Il paesaggio sonoro continua a essere considerato un elemento attraverso cui favorire una “sensibilizzazione” del pubblico, spesso legata alla sopravvivenza e alla conservazione di elementi vernacolari. Un atteggiamento generalmente accompagnato da una semplicistica retorica romantico-sentimentale, per cui naturale è meglio di artificiale, l’equilibrio del passato meglio della confusione contemporanea ecc.
Dall’altra parte, il concetto di paesaggio sonoro è stato più volte utilizzato per interpretare le suggestioni esercitate dal mondo dei suoni su chi ha il compito di progettare la città. Una vicinanza compositiva del resto non nuova, recentemente confermata da architetti come Liebeskind, Gregotti, Zumthor, che hanno segnalato l’importanza della musica nel percorso del progetto dell’architettura. O come dimostra – sempre per rimanere allo speciale di “7” – la testimonianza di Cino Zucchi, che evidenzia la vicinanza tra il proprio trascorso da musicista e l’attività di architetto.

Seguendo tali suggestioni, ecco che la città dovrebbe essere considerata come una grande orchestra, il tema della sua composizione assimilato alla scrittura di una immaginaria sinfonia, la cui qualità dipende dal ritmo e dall’armonia prodotta dall’interazione di tutti i suoi abitanti. Un approccio certamente affascinante, che non riesce però a rendere evidenti le conseguenze che dovrebbero scaturire al di là di una dimensione meramente evocativa in cui “silenzio”, “musica” e “rumore” giocano un ruolo prettamente emotivo e individuale.

Fuor di metafora, di fatto, la questione del suono delle nostre città continua a essere regolata da un approccio giuridico, basato su vincoli, zonizzazioni, soglie acustiche, per le quali il problema non è tanto “quale sia il suono della città”, ma “quanto sia alto il suo volume”. Un approccio storicamente condannato dagli studiosi del paesaggio sonoro, a causa dell’incapacità di tener conto delle complesse relazioni tra il contenuto del suono e la comunità locale. Critica senza dubbio condivisibile, che ha però aperto un solco al momento incolmabile tra questi due approcci disciplinari, producendo un impoverimento di entrambi. Da un lato una disciplina che in nome di una pretesa oggettività riesce a regolamentare il fenomeno, rimanendo però “cieca” rispetto alle sue dinamiche qualitative. Dall’altro un sofisticato approccio al tema, che rimane però confinato in una dimensione soggettivo-esperienziale senza imporsi come strumento operativo.

Una chiave di volta per l’imprescindibile riavvicinamento tra questi orizzonti dovrebbe essere individuata proprio nel progetto dell’architettura, la cui stessa possibilità risulta intrinsecamente dipendente dal soddisfacimento dei vincoli normativi, ma al contempo dalla qualità delle suggestioni individuali del progettista e dalle esigenze collettive che rendono necessario il suo prodotto. Uno scenario all’interno del quale il sonoro dovrebbe giocare un ruolo ben più rilevante rispetto a quello attuale, andando oltre i semplici problemi di contenimento del rumore, barriere acustiche, isolamento degli edifici, ponendosi invece come uno dei punti cardine per un discorso “sostenibile”, effettivamente attento alla qualità dei luoghi.

Un approccio che dovrebbe essere sostenuto soprattutto dalle politiche urbane, diventando un fattore nelle agende degli amministratori. È evidente che l’avvicinamento a una soluzione debba essere avviata a scala urbana, attraverso strategie che sappiano comprendere il fenomeno nel suo ampio spettro di significati. Si tratta di affiancare agli strumenti attualmente disponibili – zonizzazioni acustiche, individuazione delle aree di quiete ecc. – degli studi e degli approfondimenti mirati a favorire la comprensione delle complesse relazioni che il suono instaura con le comunità locali, elemento fondamentale per la convivenza sociale e per l’organizzazione civica.
Una dimensione rispetto alla quale Milano sconta una certa arretratezza, non solo in relazione alle più avanzate sperimentazioni europee – tra cui spiccano i casi ormai decennali di Stoccolma, Londra, Grenoble – ma anche rispetto ad altri contesti italiani come Firenze e Bologna.

Interrogarsi con consapevolezza sul paesaggio sonoro di Milano significa cogliere una grossa opportunità, ridefinendo l’irrisolto “problema della riduzione dell’inquinamento acustico” in una occasione per rafforzare il senso di appartenenza e di identità delle comunità al territorio. Una dimensione che deve al più presto essere integrata all’interno delle logiche del progetto della città.