Progettare il paesaggio

UCTAT Newsletter n.12 – maggio 2019

di Elio Bosio

Sono ormai anni che il paesaggio è stato assunto come oggetto primario del progetto del territorio, tanto da persuadere la Regione Lombardia a disporre nella legge per il governo del territorio del 2005 la sostituzione della Commissione edilizia comunale con la Commissione per il paesaggio. Non rimaneva indifferente all’esigenza di attrezzarsi in funzione di nuove sensibilità l’Ordine degli Architetti di Milano, che integrava l’elenco delle competenze dell’architettura con quella di paesaggista. Dopo un congruo periodo di rodaggio dobbiamo prendere atto che nella pratica del progetto della città e del territorio il tema del paesaggio sia stato affrontato quasi esclusivamente sotto l’aspetto percettivo, anziché attraverso quello strutturale, rinunciando a una radicale revisione dei criteri di analisi del fenomeno urbano.

La figura del landscape gardeneer ha prevalso su quella dell’antropologo e se la lunga e faticosa battaglia di Pietro Porcinai per introdurre la cultura paesaggistica nelle università e nelle professioni ha ottenuto nel tempo risultati positivi così non è stato per quelle discipline economiche e sociali il cui apporto è indispensabile per operare su un paesaggio inteso come rappresentazione unitaria di spazi, forme, strutture economiche, modelli sociali. Non sono pochi, anche tra gli urbanisti, a pensare che la metropoli contemporanea sia una somma di paesaggi tra loro diversi e negati al dialogo, parti di un tessuto urbano le cui antiche e logore trame sono sempre meno utilizzabili per sostenere e alimentare un progetto organico. Nel migliore dei casi la città è intesa non come paesaggio, bensì come museo di paesaggi, dimenticando che anche gli spazi museali necessitano di un filo rosso che colleghi tra loro le diverse sale. 

Il compito di progettare il paesaggio della città contemporanea è oggi cosa assai più difficile rispetto ad alcuni decenni fa. Negli anni Sessanta il paesaggio della Milano del miracolo economico poteva essere emblematicamente rappresentato da due edifici: la Torre Velasca dei BBPR e il Grattacielo Pirelli di Gio Ponti. La prima, espressione di una modernità che s’impone pur conservando indissolubili radici nella storia cittadina; il secondo, come sintesi perfetta di rigore formale e perfezione tecnica e icona di una irripetibile stagione dell’architettura e del disegno industriale; immagine di torre faro per un paesaggio urbano in via di ricostruzione, la cui importanza di architettura autenticamente milanese viene messa in risalto dall’incongrua e germanofila monumentalità dell’antistante Stazione Centrale.

Nei nuovi spazi che stanno ridisegnando Milano è difficile scorgere il desiderio, e il piacere, di un lavoro volto alla realizzazione di un paesaggio urbano che, come una composizione musicale, si sviluppa attraverso la successione e la ripetizione di temi fra loro diversi. Grattacieli che crescono torcendosi o inclinandosi sotto il loro peso, edifici che si inviluppano in spirali verso il cielo sono le nuove icone urbane, che mirano a imporsi senza accennare a un dialogo o a una conciliazione con le trame e le forme preesistenti. Più che annodare fili interrotti, i nuovi grandi complessi residenziali-commerciali-direzionali rischiano di recidere quelli esistenti. Invece di rinsaldare l’impalcatura degli spazi e delle funzioni con progetti attenti alla costruzione di un paesaggio non autoreferenziale, si privilegiano forme che destano stupore, concepite soltanto per conquistare un effimero indice di gradimento, con il risultato di appannare anziché illuminare lo skyline urbano. Sfortunatamente, sono pochi gli interventi edilizi che, frutto di una attenta e meditata riflessione sul progetto della città, cercano di rappresentarne tensioni e contraddizioni e mirano all’invenzione di un nuovo spazio urbano non distruttivo del valore iconico dei simboli di un passato non necessariamente remoto. Riesce preziosa la lettura degli scritti di Walter Benjamin sulla città di Parigi per comprendere il ruolo fondamentale svolto nella organizzazione della struttura spaziale e sociale della grande città da una sequenza di luoghi privi di monumentalità ma ricchi di fascinazione e unicità estetica. Nel caso studiato dal filosofo i passages, le gallerie commerciali che raccordano gli edifici e raccontano dell’influenza della tecnica sull’arte e dello sconvolgimento delle mentalità e dei comportamenti degli abitanti provocati dal passaggio da un’epoca all’altra. Oggi, Milano, che si trova di fronte alla contraddizione ben descritta da Benjamin, per la quale un’epoca tende nello stesso tempo a conservare e a sbarazzarsi di quella precedente, non possiede un archetipo come i passages del quale avvalersi per il ridefinire il suo paesaggio. 

Più che di archetipi, tuttavia, questo tempo necessita di buone pratiche e d’impegnata e diffusa partecipazione, così da incoraggiare amministratori pubblici, progettisti e operatori privati a non occuparsi esclusivamente di ciò che è grande e straordinario, ma anche dell’ordinario e a persuadersi che lo spazio urbano è costituito non soltanto da edifici, ma anche da un graticcio di strade, filari alberati, slarghi e incroci e altro ancora. Occorre che essi si convincano che la popolazione della città è fatta principalmente da persone che si muovono a piedi, su marciapiedi che sono troppe volte un indecoroso deposito di biciclette e scooter, automobili e furgoni, bidoni per le immondizie nonché, nei casi più fortunati, gazebo commerciali e che, anche se nessuno pensa a risuscitare la figura del “flaeneur”, sarebbe importante che donne e uomini di tutte le età potessero attraversare e scoprire una città resa affabile non tanto dagli acuti di architetti più o meno famosi, quanto dal piacere generato da un succedersi di luoghi la cui diversità sia generatrice di bellezza e non di conflitto. Il paesaggio è un tema che interessa molteplici aspetti del sapere e non soltanto quello della progettazione. Ne è dimostrazione il fatto che la difesa del paesaggio e della bellezza delle città italiane abbia avuto per tanti anni come alfiere l’archeologo Antonio Cederna e che archeologo sia anche Salvatore Settis i cui scritti su paesaggio e città sono ben conosciuti dagli studenti delle scuole di architettura. Non è casuale che gli scritti di un antropologo come Marc Augé, che hanno diffuso nuove modalità interpretative del paesaggio, abbiano riscosso nel nostro paese un notevole interesse, forse superiore al loro valore scientifico.

Giudicata non più accettabile la definizione contenuta nella legge 1497 del 1939, Protezione delle bellezze naturali, che descriveva il paesaggio come un complesso di “quadri naturali” e “punti di vista o di belvedere” e che di conseguenza lo faceva oggetto d’interesse riservato alle Soprintendenze, la Regione Lombardia nel 2005, con la legge 12 del 2005 per il governo del territorio, stabiliva che la tutela del paesaggio costituisse compito primario dei Comuni; ne discendeva, coerentemente, la sostituzione della Commissione edilizia comunale con la Commissione per il paesaggio. Il potenziale innovativo di questo organismo, che avrebbe dovuto introdurre una svolta radicale nelle modalità di esame dei progetti e nella valutazione dei piani urbanistici, è stato vanificato dal comportamento delle amministrazioni che, cambiato il nome non hanno cambiato nulla, lasciando intatte le vecchie attribuzioni delle commissioni edilizie senza introdurne di nuove. Di questa situazione è prova la composizione delle commissioni per il paesaggio costituite quasi esclusivamente da architetti i quali, pur sorretti dalla loro formazione generalista, accetterebbero volentieri d’interagire con specialisti di altre discipline particolarmente qualificati ed esperti sul tema della tutela del paesaggio, come indicato dalla legge regionale. Tutto ciò ha portato inevitabilmente a restringere l’esame dei progetti da parte delle commissioni quasi esclusivamente agli aspetti estetici, al più verificandone l’influenza sull’immediato contesto e rinunciando, in assenza di una qualsiasi traccia elaborata dall’amministrazione, a trattare ogni nuovo progetto come il tassello di un puzzle urbano in via di composizione. È, quella presente, una stagione dell’architettura in cui la complessità e la profusione di messaggi, di forme, di segni rende ardua ogni valutazione, consegnandola inevitabilmente a giudizi che rischiano di peccare di soggettività quando non sostenuti dalla visione di un modello di territorio proposto da chi è stato eletto a governare. In presenza di un’idea di città con la quale confrontarsi, i membri delle commissioni per il paesaggio sarebbero affrancati dall’esclusivo compito di sottolineare con matita rossa o blu quelli che loro considerano errori di progettazione e assumerebbero, invece, un ben più importante ruolo, dialettico e critico, di filtro e catalizzatore tra il modello di città dell’amministrazione comunale e l’immaginazione creativa dei tecnici-intellettuali impegnati a progettare il paesaggio urbano a tutte le scale.

Milano, Citylife