UCTAT Newsletter n.13 – giugno 2019
di Alessandro Ubertazzi
Credo sia legittimo, anche con qualche arbitrio, attribuire alle città caratteri tipici della natura umana. In questo senso una città può essere definita “maleducata” non già perché le strutture che essa mostra sono dotate di un’anima e quindi di una comportamentalità esplicita, quanto piuttosto perché esse mancano di un progetto consapevole ovvero sono male usate dai loro destinatari.
Il termine “città maleducata” oggi richiama alla mente di tutti un livello non più sopportabile di scadimento della qualità urbana percepibile. Non so dire se questo fenomeno sia la conseguenza di quella convulsione politico-sociale, in atto su scala planetaria, che sta minando alla radice la stessa cultura occidentale e comunque determina migrazioni di popoli, fame e terribili malattie. Non so neanche stabilire con precisione se concausa dello scadimento ricordato sia una sorta di “abbassamento della guardia” da parte della Pubblica Amministrazione nel perseguire la più desiderabile qualità prestazionale della città, che dovrebbe rappresentare coraggiosamente gli interessi collettivi. Fatto sta che in questo particolare momento storico assistiamo sempre più preoccupati a situazioni che devono essere stigmatizzate anche perché, al di là della rimozione delle loro cause, esse possono essere facilmente superate.
La maleducazione dell’ambiente nel quale viviamo si manifesta effettivamente attraverso la scadente qualità globale degli insediamenti e, soprattutto, la mancanza di un progetto di completamento degli stessi. Come altre ma non certo come tutte le città del mondo, quelle del nostro Paese sono notoriamente sprovviste di adeguati servizi e le loro parti più recenti sono state malamente “conurbate”. Non intendo comunque soffermarmi su questi particolari aspetti urbani ormai noti e ampiamente dibattuti dal dopoguerra ad oggi: su di essi esistono infatti molteplici testi acuti, autorevoli ed esaurienti.
Poiché la maleducazione della città si esprime in modo particolare nella qualità percepibile delle finiture dell’ambiente, tratterò qui soprattutto questo argomento, e cioè il comportamento umano nei confronti della cosa pubblica, sia per quanto concerne la sfera politico-amministrativa, sia per quanto attiene all’uso delle attrezzature collocate negli spazi collettivi da parte dei singoli.
Se infatti riflettiamo sulle finiture degli spazi pubblici e, comunque, sulle “quinte edificate” prospicienti la pubblica via (che sono a contatto diretto con la incontenibile pressione esercitata dagli esseri umani che vi si spostano), possiamo evidenziare una indefinita quantità di situazioni censurabili della città: dalle strade (che rimangono sconnesse per anni) alla cattiva illuminazione delle sue parti frequentabili e soprattutto di quelle distanti dal centro, quasi che essa non debba esprimere una costante ricerca di qualità.
Le diverse attrezzature che gli enti pubblici riversano sul suolo urbano raramente dispongono di un progetto appropriato che stabilisca esplicite qualità nel sistema di risposte alle esigenze che si manifestano in modo capillare e ripetitivo. Alludo alla cattiva gestione della raccolta dei rifiuti e, comunque, anche alla mancanza di norme in grado, ad esempio, di disciplinare l’uso dello spazio pubblico da parte di persone e di cani.
L’elenco delle negatività espresse dalla parte pubblica dell’ambiente urbano sarebbe amplissimo: tutte dipendono in qualche modo da una malaccorta gestione della cosa pubblica che troppo spesso non presta servizio alla collettività.
Ci sono, però, aspetti della realtà che sono anche più sottili: come teorico della progettualità riferita all’ambiente urbano non posso ignorarle. Mi riferisco agli eccessi della pubblicità (anche se la sua qualità formale può sembrare accettabile) come, ad esempio, l’incontrollabile diffusione e l’ossessiva ripetizione e, perfino, la violenza di certi messaggi finalizzati unicamente ad utilità private. Essi non sono adeguatamente rispettosi dell’opinione altrui ovvero del pensiero comune; spesso le insegne pubblicitarie soverchiano le linee architettoniche degli edifici, mentre certe attrezzature mancano di coerenza stilistica, materica ed espressiva con le consolidate presenze architettoniche, monumentali e paesistiche dell’ambiente urbano.
Ci sono infine talune manifestazioni di aggressività urbana che riflettono una esplicita disattenzione per la cosa pubblica.
Tra i fenomeni si possono ricordare casi particolarmente spiacevoli come la deturpazione dei graffiti su tutto ciò che si affaccia sulla pubblica via.
Personalmente non capisco come il balbettío, maleducato perché insulso, di coloro che insozzano tutte le superfici a disposizione con messaggi che non hanno nessuna valenza di carattere comunicativo possa essere accettato senza ribellione. Tempo addietro ho giustificato certi messaggi prorompenti sulla scena pubblica proprio perché privi di altra sede per manifestarsi: il grido dei diseredati, le istanze politiche delle vere minoranze coartate dai “vincenti”, gli slogans anche eversivi e beffardi finalizzati a modificare la sensibilità collettiva che ufficialmente non può non ostacolare l’emergere di un pensiero contrapposto a quello più diffuso e stabilizzato.
Con grande rammarico di tutti coloro che si occupano della qualità prestazionale della scena urbana, oggi assistiamo al dilagare di forme espressive sostanzialmente solipsistiche, incapaci di trasmettere emozioni irrinunciabili o, quantomeno, partecipabili: infatti esse degradano il paesaggio umano e inficiano la qualità estetica di manufatti e ambiente urbano.
I cosiddetti murales erano per lo più applicati su muri o pareti derelitte e insignificanti e hanno svolto spesso il ruolo di sensibilizzare la collettività attraverso tematiche ideologiche, politiche o culturali. Simili precedenti non giustificano l’imbrattamento organizzato della proprietà pubblica o privata. Al di là della loro intrinseca qualità grafica e linguistica, essi sono infatti da considerarsi del tutto illegittimi e perfino fuorvianti rispetto a una corretta comportamentalità sociale. Alcuni giudici del nostro Paese hanno difeso troppo esplicitamente quel tipo di manifestazioni classificandole di carattere artistico. Essi hanno perciò assolto gli autori di quelle sistematiche ed arbitrarie manipolazioni del paesaggio urbano.
Mi chiedo oggi se quei magistrati fossero deputati o, quantomeno, abilitati a formulare giudizi estetici laddove essi non hanno neppure equamente deliberato sulla liceità di espressioni soggettive che non sono richieste né accettate dalla collettività e, nella più parte dei casi, costituiscono un sensibile danno per la cosa pubblica.
L’autorevolezza delle istituzioni pubbliche e dei servizi viene così sostanzialmente inficiata da quelle sistematiche prevaricazioni: al di là di qualsiasi estetica piacevolezza, esse espropriano la cosa pubblica per motivi del tutto privati senza che qualcuno possa validamente obiettare.
Non si può trascurare anche il caso di soggetti pubblici, come ad esempio le società di trasporto pubblico, che, aspirando a qualche evidente vantaggio economico, da qualche tempo, applicano messaggi pubblicitari, gigantografici e spesso neppure gradevoli, ai mezzi di trasporto. Essi contribuiscono così direttamente alla mortificazione dell’immagine istituzionale del servizio di interesse comune; questa recente consuetudine contribuisce infatti a scalfire l’autorevolezza e la credibilità della Amministrazione.
L’espropriazione dell’immagine della cosa pubblica e il costo sociale di queste operazioni allontanano la formazione di una reale cultura della libertà individuale e vanificano il raggiungimento di una cultura dei valori collettivi e intaccano il ruolo dell’Amministrazione: sempre più vulnerabile, questo diviene così oggetto di successive erosioni e di ulteriori scadimenti.
