Abitare la periferia

UCTAT Newsletter n.14 – luglio 2019

di Elio Bosio

Dopo il 2000 Milano, ancora nella seconda metà del secolo scorso città di abitanti e pendolari, si è progressivamente caratterizzata come habitat privilegiato dei city users. Esito, questo, dell’impegno delle amministrazioni comunali, degli investitori, delle istituzioni culturali che sono riusciti a elevarla al rango di metropoli europea, così che quartieri storici come Brera e il Ticinese, e quartieri di recente costruzione come Porta Nuova e City Life, sono adesso meta prediletta di utilizzatori nostrani e forestieri.

Senza considerare i luoghi monumentali come Piazza Duomo e il Castello Sforzesco; ed escludendo il Quadrilatero della moda, sorta di città proibita di cui possiamo percorrere le vie, ma che con rare eccezioni concede bellezze soltanto a un ristretto numero di persone: che potremmo denominare world users, abituali frequentatori di una metropoli speciale i cui quartieri esclusivi si trovano a New York, Londra, Dubai.

La recente aggiudicazione a Milano e Cortina delle Olimpiadi invernali del 2026 impegna i promotori alla realizzazione d’importanti opere, fra cui il Palazzetto per le gare di hockey nel quartiere Santa Giulia. Un risarcimento dovuto e atteso da questa parte di città, orfana dell’ambizioso progetto di Norman Foster dei primi anni Duemila e menzionata nelle cronache degli ultimi anni soprattutto per il famigerato bosco dello spaccio di Rogoredo. La presenza di un impianto sportivo, per quanto bello e importante sarà sufficiente per risolvere i problemi d’isolamento denunciati dagli abitanti? 

Abitanti che della città sono corpo e anima, suoi utilizzatori ma, diversamente dai city users, anche custodi dei luoghi e delle memorie. Quando la città si mostra meno affabile verso chi la abita si riducono le energie indispensabili per assicurare la coesistenza d’interessi, bisogni, istanze, desideri tra loro talvolta contrastanti.

Nel non porre gli abitanti al centro di ogni iniziativa – piccola o grande – di trasformazione urbana, scorgiamo i limiti di una politica urbanistica che affronta il tema delle relazioni all’interno della città più come problema di mobilità che come occasione per consolidare la qualità di luoghi che, proprio per la loro cordiale e decorosa ordinarietà, meritano di essere scoperti e frequentati.

Non abbiamo motivo di dubitare che le qualità architettoniche del Palazzetto dell’hockey di Santa Giulia e del Villaggio Olimpico dello Scalo Romana saranno all’altezza delle grandi opere che nel corso dell’ultimo decennio hanno ridisegnato l’immagine di alcuni quartieri milanesi. Assieme alle celebrate architetture della sede della Fondazione Prada i nuovi interventi concorreranno a ridisegnare il panorama del Municipio 4. Non solamente di nuovi panorami, tuttavia, l’asse di Corso Lodi necessita, ma anche (soprattutto) di una concreta, assidua e possibilmente rapida rigenerazione (riscoperta, reinvenzione) dei luoghi, ottenuta arricchendolo di funzioni e servizi e trattando ogni incrocio stradale e ogni piccolo spazio pubblico come il tassello di un puzzle urbano che una volta completato non mancherà di sorprendere.

L’accessibilità a tanta parte della città per mezzo della metropolitana non deve comportare la rinuncia a spostarsi a piedi, soprattutto se questo aiuterà a scoprire luoghi e ambienti belli e accoglienti. In una città dove la riscoperta della flânerie fosse considerata quella positiva occasione che solo l’ambiente urbano può offrire – e che per favorirla ci si attrezzasse di conseguenza – sarebbe cosa normale rinunciare all’automobile o al mezzo pubblico per una passeggiata lungo un percorso amico.

Il modello che si va affermando delle nuove cattedrali laiche – monumenti indifferenti, se non ostili, verso i loro contesti – rischia di trasformare sempre più velocemente gli abitanti in city users, mentre l’obiettivo dovrebbe essere quello di fare sentire questi ultimi, almeno un po’, abitanti. La maleducazione dell’ambiente nel quale viviamo, la disattenzione per la cosa pubblica, la vanificazione dei valori collettivi, impietosamente raccontate da Alessandro Ubertazzi in un suo recente scritto, sembrano frutto di un adattamento degli abitanti al cambiamento della natura della città; un’involuzione della specie, come teorizza lo psichiatra Vittorino Andreoli quando afferma che la definizione darwiniana di Homo sapiens sapiens si dimostra oggi inadeguata, rendendo più appropriato il termine antinomico di Homo stupidus stupidus.

Corso Lodi, Milano