Dan Flavin, Untitled, 1996

UCTAT Newsletter n.2 – giugno 2018

di Martino Mocchi

Secondo Tolstoj, lo scopo più alto dell’arte è quello di avvicinare «la gente alla perfezione e all’unione incitata dalla coscienza religiosa». Una visione che appare oggi forse un po’ radicale, ma che risulta certamente in grado di segnalare la priorità del linguaggio artistico rispetto alla comunicazione dei contenuti e del messaggio della fede. Le illustrazioni storiche di questa affinità sono talmente ampie da non meritare ulteriore argomentazione.

Tra gli elementi che sono stati utilizzati per favorire questa comunicazione, la luce ha assunto un’importanza particolare sia argomentativa che rappresentativa, facendosi espressione di un punto di contatto mistico-intellettuale tra l’uomo e Dio. Il tema dell’“illuminazione” divina assume in questo senso un significato iniziatico che non rimanda soltanto a un’assonanza verbale. Uno dei modi più significativi che hanno dato espressione a tale dialogo è quello della “vetrata”, che a partire dal XII secolo ha accompagnato la costruzione delle grandi cattedrali gotiche. La vetrata esprime il fatto che «il cielo è abitato di significati», per dirla con Sequeri, in cui la luce si fa espressione di una «forma di grembo e di energia che avvolge».

Nella nostra ottica, l’interesse del tema è legato alla possibilità di un dialogo che avviene in una dimensione “invisibile” e pervasiva, molto in sintonia con alcuni temi oggi alla base di concetti come quello di paesaggio. Una costruzione di senso che con un lessico recente definiremmo “atmosferica” invece che descrittiva, “emozionale” anziché illustrativa. E una conseguente lettura che implica un atteggiamento “estetico” da parte del visitatore, nel significato originario del termine (dal verbo greco aisthesis, percepire attraverso i sensi).

È in questa cornice che ho incontrato l’opera del 1996 Untitled dell’artista statunitense Dan Flavin, che consiste in un’installazione site specific all’interno della Chiesa di Santa Maria Annunciata in Chiesa Rossa, a Milano. Una rilettura in chiave contemporanea del tema della luce nella chiesa, che si pone in continuità con la ricerca avviata nel secolo scorso da autori come Matisse, Rothko o Chagall. La strategia prevede un’aggiunta alla luce solare, che filtra da vetri neutrali, attraverso la collocazione di tubi al neon colorati lungo la percorrenza della chiesa.

Al momento della mia visita, la suggestione all’interno dello spazio neoclassico moderno progettato da Muzio è certamente interessante. Fin dall’ingresso, il blu della navata rimanda a un’idea di armonia e di pace, invitando a un percorso di distensione rispetto al caos esterno. La riflessione del colore sulle lamine d’acciaio circolari poste sul pavimento d’entrata aumenta l’effetto immersivo di questo cambio di registro. Ciò sembra collocare i simboli cristiani, percepibili sullo sfondo all’interno delle più calde tonalità del transetto e dell’abside, in uno spazio pulsante e vivo, raggiungibile attraverso un percorso di purificazione. La tecnologia utilizzata, nell’era dello sviluppo dell’illuminazione a led, appare forse superata, pur distinguendosi ancora oggi per un minimalismo in grado di aumentare l’effetto ricercato.

L’installazione, e la chiesa nel suo complesso, si caratterizzano come un episodio di indubbia qualità, in grado di stabilire delle possibili relazioni con centri di eccellenza non distanti, tra cui il nuovo polo di Chiesa Rossa e la stessa Fondazione Prada, che nel 1997 è stata promotrice e finanziatrice dell’intervento. Che l’arte, allora, possa diventare uno dei punti di partenza per la riqualificazione di un quartiere in cui i segni della poca cura urbana e sociale appaiono ancora piuttosto percepibili?