Aree periferiche e Grandi Funzioni Urbane

UCTAT Newsletter n.4 – aprile 2019

di Elio Bosio

La variante al PGT di Milano, adottata il 5 marzo, è stata per alcuni mesi oggetto di interessanti discussioni e riflessioni che hanno riguardato tanto gli obiettivi strategici rappresentati dalle cosiddette Grandi Funzioni Urbane quanto gli aspetti tecnici e normativi. L’analisi di entrambi gli argomenti ha impegnato progettisti e giuristi oltre, ovviamente, i proprietari d’immobili e di aree, portando l’urbanistica cittadina all’attenzione della stampa non specialistica, tanto da suscitare un notevole interesse anche nei non addetti ai lavori. Nulla di cui stupirsi, considerato che i nuovi quartieri di Milano sono diventati un forte richiamo turistico e hanno contribuito non poco a consolidare l’immagine di un indiscusso primato di Milano, ormai collocata nel novero delle metropoli europee. Conseguenza quasi scontata è stato l’intensificarsi dell’attenzione nei confronti dell’investimento immobiliare, che ha visto gli operatori del settore, in attesa dell’avvio dei grandi interventi sugli scali ferroviari, impegnati a scoprire – o riscoprire – quegli ambiti urbani resi commercialmente interessanti non tanto per l’ubicazione centrale quanto per la loro posizione privilegiata rispetto alle stazioni della metropolitana di recente apertura e a quelle che si apriranno in un prossimo futuro, e per il loro trovarsi nel raggio di attrazione di nuovi spazi e strutture della cultura e del tempo libero. Valga l’esempio del campus della Fondazione Prada, che sta contribuendo alla fortuna immobiliare del suo contesto decisamente più delle tanto attese trasformazioni dello Scalo Romana.

Il catalogo dei soggetti interessati alle iniziative immobiliari nella città di Milano è vasto e comprende aziende ospedaliere, demanio militare, holding ferrovie, fondi d’investimento, compagnie d’assicurazione, banche nonché, naturalmente, società immobiliari e imprese di costruzione. Il Comune – che indirizza principalmente i suoi sforzi alla realizzazione delle Grandi Funzioni Urbane – indica obiettivi, detta regole, afferma principi, affidando agli operatori privati l’azione, comunque indifferibile, di rinnovamento e rigenerazione degli ambiti urbani non strategici. Consegnare l’attuazione di tanta parte dell’urbanistica milanese alle logiche del mercato comporta che, a fronte di un fermento d’iniziative in alcune parti della città, si assista a una totale stasi negli ambiti più marginali, condannati ad attendere futuribili interventi di riqualificazione. 

Potrebbe costituire interessante e utile esercizio la compilazione di una mappa cittadina destinata a segnalare, ricorrendo a diverse intensità di colore – sulla falsariga della modalità utilizzata dalle compagnie telefoniche sui siti internet per mostrare il livello di copertura dei servizi – quello che potremmo definire il grado di energia immobiliare del territorio, un indicatore fondamentale per tracciare una scala delle più appropriate modalità d’intervento, da quelle di esclusiva competenza dei privati a quelle che richiedono una qualche forma d’intervento pubblico, attuato anche ricalcando alcune delle antiche modalità della legge 167 del 1962.

Le zone “deboli” della geografia di Milano sono in primo luogo individuabili nei complessi dell’edilizia residenziale pubblica, alcuni dei quali, esemplare è il quartiere ex Iacp Naviglio Pavese, trovano citazione nella cronaca cittadina a motivo dei frequenti casi di conflitto con l’ordine pubblico. Poi, si trovano le tante aree produttive, parzialmente o totalmente dismesse, contraddistinte dalla presenza di edifici industriali inutilizzati. Molte di esse potrebbero, a condizione di un diretto impegno del Comune, essere integrate senza costi eccessivi in contesti già ottimamente definiti nelle funzioni e nella qualità ambientale complessiva. In numerose situazioni per restituire a queste aree un nuovo interesse immobiliare e un adeguato valore economico, sarebbe sufficiente riorganizzare brevi tratti della viabilità locale oppure rendere più agevole l’accesso a giardini e ai servizi pubblici. Sempre a condizione che si trovino il necessario sostegno e l’incoraggiamento dell’Amministrazione comunale. A fronte dell’assenza di adeguati programmi e strumenti d’intervento, non sono soltanto i piccoli brani di territorio marginale a essere condannati a un destino incerto. In condizione analoga troviamo ambiti di notevole importanza, tanto per la loro dimensione in termini di superficie e popolazione, quanto per la loro collocazione strategica all’interno del contesto metropolitano.

Un caso esemplare è quello del quartiere di Quinto Romano (NIL 62 del Piano dei Servizi), periferia ovest della città. Cresciuto rapidamente a partire dagli anni Ottanta con l’innesto sul vecchio borgo di grandi edifici di residenza sociale, presenta ancora, nonostante le non sempre felici addizioni, alcuni interessanti caratteri: un nucleo originale sufficientemente risparmiato da demolizioni e incongrue ricostruzioni e, soprattutto, la contiguità a due importanti episodi di verde urbano: il Bosco in città a nord e il Parco delle cave a sud. La rilevanza del luogo è avvalorata dalla previsione del PGT, vigente e adottato, relativa a una stazione della linea 5 della metropolitana. Tutto questo dovrebbe costituire forte incentivo ad avviare senza eccessivi indugi un programma di rigenerazione di questo territorio, che vede mortificato e scempiato il suo forte potenziale ambientale dalla presenza di attività incompatibili, se non addirittura inquinanti come il deposito comunale dei veicoli rimossi e l’accumulo a cielo aperto di vetture rottamate. Non induce all’ottimismo l’esclusione di Quinto Romano dalla sezione della Relazione Generale al Documento di Piano dedicata alla Milano Metropolitana, esclusione che suona davvero inspiegabile in quanto, almeno nella sezione dedicata alla Realizzazione del parco metropolitano, il quartiere avrebbe meritato una attenzione particolare, nutrendo reale interesse verso la costruzione di nuove centralità nella sorgente Città metropolitana.

La campitura ad ambito di rigenerazione che le tavole del PGT appongono senza risparmio su Quinto Romano e le relative norme (art. 14 delle Norme di attuazione del Piano delle Regole) non sono sufficienti per attivare i necessari processi di riqualificazione e rigenerazione, poiché con esse l’Amministrazione comunale riduce il suo ruolo a una funzione d’incoraggiamento, al più di agevolazione, rinunciando a impegnarsi nel coordinamento di programmi e progetti ed escludendo, infine, una diretta partecipazione economica, non foss’altro sotto con la riduzione degli oneri di urbanizzazione. 

Eppure, al fine di uno sviluppo armonioso della città, un concreto programma di riqualificazione di queste aree periferiche, attuato tramite una molteplicità di progetti di abbellimento strutturale e sovrastrutturale, assumerebbe una valenza strategica probabilmente superiore a quella del progetto di riapertura dei Navigli, cui l’Amministrazione comunale, pur senza promettere denaro, presta costante e benevola attenzione. Dobbiamo dunque concludere che la rigenerazione di questi ambiti sia un impegno difficilmente affrontabile esclusivamente con gli strumenti messi a disposizione dal PGT, che si richiamano all’incerto modello dell’Housing sociale, celebrato fino a non molto tempo fa come il felice superamento dell’ormai stantia pratica dell’edilizia economica e popolare della legge 167. Purtroppo, le recenti esperienze ci mostrano come un significativo stock di abitazioni in affitto o in vendita a costo moderato non possa essere realizzato in assenza di un forte impegno del Comune, necessario per l’acquisizione delle aree edificabili – non ricorrendo necessariamente all’esproprio ma nemmeno escludendolo – e per attuare un efficace coordinamento di tutti i soggetti coinvolti, pubblici e privati, al fine di stabilire tempi certi per l’attuazione dei progetti formulati.

È possibile che si sia rinunciato troppo frettolosamente, anche nelle Scuole di Architettura, a studiare le vicende di quel mezzo secolo di edilizia residenziale sociale che ebbe inizio con il Piano INA Casa del 1949, esperienza sostenuta da una importante produzione di studi e progetti riferiti a un modello abitativo che spaziava dalla cellula elementare (l’alloggio) al quartiere. La pressoché totale consegna della realizzazione della residenza sociale al settore privato con l’imposizione di quote di edilizia convenzionata negli interventi di maggiore dimensione, affievolisce l’interesse verso uno studio approfondito di questo modello residenziale come avvenuto, invece, nelle stagioni dove meglio si svilupparono le sinergie dell’iniziativa pubblica e privata.

Milano, che una fondamentale ricerca di geografia urbana condotta negli anni del miracolo economico definì la “capitale economica d’Italia” (Etienne Dalmasso, Milano capitale economica d’Italia, Franco Angeli, Milano 1972), ha retto senza subire danni irreparabili alle ultime crisi del mercato edilizio e questo ha indotto il mondo della politica e gli operatori economici a considerare superata l’utilità di un vigoroso intervento pubblico, sulla falsariga di quello attuato durante gli anni Ottanta con il Piano decennale per la casa. Questa valutazione, forse troppo frettolosa, ha ingenerato anche nei soggetti storici dell’edilizia popolare, come le cooperative milanesi a proprietà indivisa – le più importanti d’Italia – l’erronea convinzione, costata un duro prezzo, che la loro attività potesse proseguire, svilupparsi e innovarsi rinunciando all’aiuto pubblico. 

Per tali ragioni non sarebbe tempo sprecato compiere una ricognizione tra le leggi, le procedure, gli strumenti di progetto ormai dismessi anche se ancora formalmente vigenti, materiali, questi, che per alcuni decenni, con un bilancio finale indubbiamente positivo, hanno portato alla realizzazione di un consistente patrimonio di residenza sociale, permettendo di fornire concreta risposta all’emergenza abitativa e avviando nel frattempo esemplari processi di riqualificazioni d’importanti ambiti dell’area metropolitana milanese. Lontana l’idea di riesumare il modello, improponibile per ragioni troppo lunghe da illustrare in queste brevi note, del Consorzio intercomunale milanese per l’edilizia popolare, il Cimep, resta l’utilità di recuperare della storia di questo organismo, custodita non tanto negli archivi quanto nella realtà di tanti edifici e quartieri, l’esperienza di una pratica progettuale che è stata capace di armonizzare il contenimento dei costi con la qualità del prodotto e la certezza dei tempi di realizzazione. Un impegno del genere potrebbe oggi sembrare anacronistico se confrontato con le grandi trasformazioni che Milano sta affrontando e con le innovazioni proposte a ritmo accelerato dalle start-up. Ma proprio per la sua eccentricità rispetto ai modi correnti di leggere i processi di trasformazione, potrebbe rivelarsi prezioso per comprendere meglio la natura profonda della metropoli.

Il successo internazionale di manifestazioni e progetti – Expo 2015, i quartieri Porta Nuova e City Life –  e la costante attenzione d’importanti investitori stranieri, non devono fare dimenticare tanti piccoli elementi che rischiano di produrre fratture e dissonanze dentro la città. In particolare non dobbiamo sottovalutare l’allarme lanciato da Paolo Dezza, esperto del Sole 24 ore, che scrive: “ma gli investitori valuteranno mai di scommettere sull’estrema periferia?”.

La variante del PGT, protesa a disegnare le magnifiche sorti e progressive di Milano, rischia di riprodurre, negli ambiti più marginali (ed emarginati), quella situazione d’immobilità che nei piani di vecchia generazione era determinata dalla reiterazione dei vincoli d’inedificabilità, con la sola differenza che non si tratta più di aree classificate come inedificabili, bensì di ambiti la cui edificabilità è nei fatti resa estremamente difficile, con il risultato di consegnarle a un destino di incuria e di abbandono. Nella newsletter UCTAT dello scorso febbraio, Arturo Majocchi richiama opportunamente all’attenzione il tema, tanto centrale quanto trascurato, del governo della città metropolitana e del ruolo che compete ai Municipi nei processi di costruzione della grande Milano. Perché, dunque, non affidare loro il compito d’individuare, all’interno del loro territorio, gli ambiti critici? Perché, non riconoscere loro pieno titolo per formulare programmi e curarne l’attuazione anche attraverso la delega di alcune competenze urbanistiche. Finalmente, i Municipi cesserebbero di essere soggetti affidatari di un ruolo quasi esclusivamente consultivo per trasformarsi, invece, in organismi in grado di dare concretezza a quei principi di sussidiarietà e partecipazione continuamente enunciati ma timidamente applicati.