Verde e multisensorialità

UCTAT Newsletter n.6 – novembre 2018

di Martino Mocchi

Per l’uomo contemporaneo, immerso nei ritmi frenetici della metropoli, il richiamo del “verde” è espressione della ricerca di una condizione originaria. Una spogliazione ideologica dai consumi e il recupero di pause della vita quotidiana. La gita domenicale al parco è un momento per “riequilibrare le energie”, per “rilassarsi”.

C’è da chiedersi dove stia la verità di questa esperienza. Dove stia la vera attrattività di un “verde” che appare la traduzione perfetta di una natura sempre più plasmata alle nostre esigenze, ormai del tutto addomesticata e “sentimentalizzata” – come direbbe Jane Jacobs. Una tinta da usare in qualsiasi momento, in base ai gusti e alle necessità.

Da un lato un’ovvia considerazione fisico-spaziale, per cui gli ambiti naturali sono prodotto di un’attività umana che li perimetra, ne organizza la struttura interna, ne modifica e orienta la crescita. Dall’altro le non meno importanti ragioni etiche, che portano a interpretare l’evento naturale secondo le logiche della “giustizia” umana. Il leone che massacra il cucciolo di antilope, il cane più forte che soggioga il più debole. La cimice che imprudentemente si avventura sul nostro balcone… Intollerabili.

Al di fuori di questa duplice dimensione di controllo fisico e morale, il fattore naturale risulta incomprensibile, spesso biasimevole, portatore di un significato sbagliato e non integrabile con i modelli del vivere umano. Una tendenza che tra le altre cose sta producendo un’“evoluzione artificiale” – raccapricciante, mi sia concesso – nel comportamento di molte specie animali e vegetali adattatesi a forme ibride di convivenza con l’umano.

È chiaro che la verità dell’esperienza della “gita al parco” sia allora da ricercare in un’altra direzione, che non punta alla qualità degli elementi che ci circondano, ma al modo che abbiamo di fruirli. È il ritrovamento di un orizzonte percettivo e multisensoriale che nella vita di tutti i giorni risulta schiacciato dalla predominanza del visivo come strumento di ricerca e di comunicazione.

Il “verde” diventa in questo senso custode di un “patrimonio sensoriale” altrove perduto. Il canto degli uccelli, il frusciare delle foglie nel vento, lo scorrere dell’acqua, l’odore dell’erba e delle pigne… Una naturalità che ben lungi dal rappresentare una cosa “altra” rispetto al mondo artificiale, pone il problema della qualità dei paesaggi sonori, olfattivi, tattili delle nostre città. Una situazione allertante e preoccupante, che va di pari passo con la progressiva incapacità di stabilire un contatto con queste aree sensoriali. Producendo la rassegnata accettazione di un’evoluzione ormai apparentemente senza alternativa.

Temi ormai da molto tempo all’ordine del giorno, che raramente trovano accoglimento nelle prassi del progetto e nei percorsi della ricerca accademica. Diventando al contrario il contenzioso di atteggiamenti legislativi quantomai miopi e limitati, incapaci di far fronte alla complessità del fenomeno.

La presa di coscienza di questo scenario risulta allora imprescindibile, implicando una profonda revisione di alcuni concetti alla base del dibattito architettonico (ma non solo) come in primis quello di “sostenibilità”. La mitigazione del problema attraverso la spensieratezza della scampagnata settimanale non pare sufficiente. Così come l’abbellimento degli ambienti urbani con del “verde” che sembra spesso pensato per garantire gli standard richiesti dai regolamenti, al di fuori di una considerazione specifica della sua necessità e delle possibilità della sua fruizione.

Per Junger era il “passaggio al bosco” ad esprimere metaforicamente l’alternativa alla società contemporanea. Per Thoreau il lago Walden, “ovvero la vita nei boschi”. Anche noi oggi viviamo un “pellegrinaggio al bosco”. Verticale, però. E al di fuori di una urgente presa di consapevolezza della situazione, questo rischia di essere troppo poco.