UCTAT Newsletter n.82 – ottobre 2025
di Gerardo Ghioni
Evitiamo qui di addentrarci nel terreno minato delle indagini e dei reati penali, e concentriamoci invece sul “pacifico” mondo dei procedimenti amministrativi — pacifico per modo di dire. Sorvoliamo anche sulla cogenza di normative che odorano più di archivio che di contemporaneità, come la legge 1150 del 1942, ancora pronta a ricordarci che l’altezza superiore a 25 metri e che superare l’indice edificatorio di 1 mq/mq comporta l’obbligo di Piano attuativo. Aggiungiamo poi il tema del cambio d’uso con aumento dei residenti, su comparti allargati (i “lotti funzionali” del PGT), anch’essi destinati al medesimo destino: Piano attuativo obbligatorio.
Partiamo da un primo assunto: i contenuti dei Piani attuativi sono del tutto simili alle convenzioni, di cui infatti sono corredati. Verrebbe da chiedersi, dunque, perché non basti un semplice permesso di costruire convenzionato. La differenza, come da PGT vigente, risiede nell’obbligo di cessione di aree per attrezzature pubbliche o di uso pubblico — i noti “standard”, nel linguaggio, diciamo così, più colorito dell’urbanistica.
Col tempo, l’obbligo di cedere standard si è trasformato in una sorta di consuetudine utile a far quadrare bilanci comunali già sofferenti. Le riforme regionali e quella costituzionale del 2001 — che ha affidato alle Regioni un ruolo da protagoniste in materia urbanistica — hanno solo consolidato questa prassi. In sostanza: la monetizzazione degli standard è diventata, in molti casi, una sorta di salvadanaio emergenziale per Comuni in affanno.
Il risultato? Quasi nessun Comune (specie in Lombardia) utilizza realmente i proventi della monetizzazione per acquisire nuove aree pubbliche. Motivo duplice: da un lato, la cronica carenza di fondi; dall’altro, il timore che acquisire aree significhi poi doversi sobbarcare l’onere — ben più concreto — di realizzare servizi.
Secondo la normativa vigente, la redazione del Piano di Governo del Territorio deve comunque essere verificata rispetto alle norme regionali, soprattutto per quanto riguarda la quantificazione degli standard e dei servizi correlati al numero di abitanti. Dunque, almeno sulla carta, il tema dei servizi risulta “coperto”. E Milano, va detto, ha dimostrato una certa coerenza tra l’offerta di servizi e l’aumento degli abitanti previsto dagli indici, compresa la trasformazione degli edifici esistenti.
Un’altra ragione del limitato ricorso ai Piani attuativi è ben nota: i tempi. Oggi, ottenere un permesso di costruire richiede almeno un anno e mezzo; per un Piano attuativo, due anni sono un traguardo insperato. Quando le normative prevedrebbero un massimo rispettivamente per Permesso di costruire 150 giorni e per Piano Attuativo 165 giorni. Ecco perché la Segnalazione Certificata di Inizio Attività (SCIA) è diventata tanto popolare: il tempo, si sa, è denaro, e in urbanistica questa massima assume contorni quasi esistenziali. L’investitore, dopotutto, ha bisogno di certezze sui tempi di ritorno, mentre lo Stato — non proprio in un periodo aureo per la spesa pubblica — non può più permettersi operazioni immobiliari dall’esito incerto e dai ritmi biblici.
Tornando al tema della cessione di aree per attrezzature pubbliche, le lamentele di comitati, procure e consulenti sulla presunta carenza di servizi non sembrano avere solide basi legali. Forse, però, un fondamento più “percettivo” esiste: la sensazione diffusa che grandi interventi privati non restituiscano alla collettività un adeguato controvalore pubblico.
Va ricordato, però, che qualsiasi intervento paga la sua parte di tributi: oneri di urbanizzazione per nuove costruzioni o ristrutturazioni (anche se ridotti del 50%), costo di costruzione e monetizzazione
degli standard per cambi d’uso o aree vergini quando si supera l’indice di 0,35 mq/mq. Tutte somme non trascurabili, che finiscono nelle casse comunali. Se qualcuno le ritiene insufficienti, sappia che aumentare tali valori non ridurrebbe i margini di profitto dei costruttori: come insegna il mercato, i costi vengono sempre ribaltati sugli utenti finali.
Quanto agli oneri di urbanizzazione per interventi di ristrutturazione, il motivo della loro riduzione del 50% è persino banale: favorire la rigenerazione dell’esistente rispetto all’urbanizzazione del suolo vergine — una battaglia che piace a tutti, almeno a parole.
Resta, infine, il nodo della percezione dei servizi. Alcuni interventi recenti — come le torri Park di Crescenzago o la Torre Milano — hanno mostrato lacune nel prevedere o potenziare servizi per i nuovi abitanti, in sostituzione delle attività industriali dismesse. È vero che il PGT considera già gli abitanti futuri, suddivisi per zone (i cosiddetti NIL, Nuclei di Identità Locale), ma questi ambiti sono spesso più ampi del singolo quartiere. Così, in contesti specifici, la mancanza di un servizio locale si può notare. Tutto questo alla luce del fatto che l’analisi dei servizi di zona dovrebbe essere effettuato dai Municipi, opportunamente potenziati. E cosi valorizzati finalmente per la loro conoscenza specifica del territorio.
Chi dovrebbe verificare questi aspetti? Gli operatori immobiliari? I progettisti? Con quali modalità? E con quale norma di riferimento? Le domande si moltiplicano, ma la risposta è più semplice di quanto sembri: la responsabilità ultima spetta a chi governa la città, ossia all’assessorato competente. È lì che dovrebbe nascere la capacità di valutare le ricadute degli interventi e di richiedere, quando necessario, un adeguamento dei servizi.
Come? Ad esempio, destinando una quota di oneri di urbanizzazione o delle monetizzazioni non ad altre voci di bilancio, ma ad interventi concreti sul territorio — magari realizzati “a scomputo” dagli stessi operatori. Un meccanismo tanto logico quanto poco praticato.
Il tema dei servizi da restituire alla collettività, così come quello del “diritto alla casa”, non può essere affrontato senza un ripensamento complessivo del territorio e delle sue regole. È indispensabile adottare una visione politica di lungo periodo, capace di guidare una revisione profonda dell’impianto normativo che oggi disciplina la pianificazione urbanistica e lo sviluppo edilizio.
Gli ultimi anni hanno messo in luce, con sempre maggiore evidenza, le criticità di un sistema normativo frammentato, spesso anacronistico e non coerente. Il quadro legislativo, continuamente messo in discussione, risulta oggi inadeguato a rispondere alle esigenze di una città in continua trasformazione. Non è più tollerabile l’esistenza di sovrapposizioni e contraddizioni tra normative nazionali, regionali e comunali, così come non è accettabile che i regolamenti igienico-sanitari rimangano ancorati a parametri obsoleti, senza evolversi in linea con i cambiamenti della società urbana e con l’innovazione tecnologica.
Altro nodo centrale è rappresentato dalle infrastrutture, che devono accompagnare – e idealmente anticipare – le trasformazioni urbane. In questo senso, è fondamentale superare i confini amministrativi attuali, ampliando lo sguardo almeno all’intero territorio della Città Metropolitana.
Una pianificazione lungimirante dovrebbe incentivare la decentralizzazione dei servizi, la riqualificazione dei quartieri esistenti e il recupero del patrimonio edilizio e territoriale oggi in disuso o compromesso.
Solo un approccio integrato, capace di tenere insieme regole chiare, visione politica, innovazione tecnica e giustizia sociale, potrà restituire a Milano il ruolo di città inclusiva, moderna e sostenibile, in grado di rispondere ai bisogni dei cittadini di oggi e di domani.”
Per fare tutto questo servono, però, due ingredienti rari: lungimiranza e preparazione. E, a giudicare dai casi recenti, non si direbbe che il Comune di Milano ne abbia dato prova.

