UCTAT Newsletter n.81 – settembre 2025
di Marino Ferrari
In qualche luogo si è condivisa l’opinione che l’Urbanistica fosse morta; assieme all’Architettura. Le due discipline pur con valenze diverse, si occupano degli spazi umani; l’una, l’urbanistica, nella sua “astrazione utopica” (da Mileto passando dai Romani il tempo è trascorso) riesce a mobilitare luoghi e territori assegnando loro compiti fondamentali quali, ad esempio, gli aspetti concreti del rispettivo governo; ciò inevitabilmente si trasforma in processo democratico (si dica pure partecipativo) qualunque aspetto questo assuma nella realtà. L’Architettura dal canto suo, si rimette alle interpretazioni creative dei soggetti che la praticano seguendo gli istinti che l’utopia (anche qui) pervade le loro menti con una conseguente ma limitata visione del mondo. Morendo cioè, abbandonando l’utopia, l’architettura ha lasciato il posto alla pura edilizia, rispettabile manifestazione creativa, ma pur sempre edilizia: materiali assemblati con un ordine precostituito e seguendo regole imposte dalla ricerca e dalla esperimentazione empirica; la produzione si caratterizza quindi con forme accattivanti così come lo sono agli oggetti quotidiani prodotti per soddisfare i nostri bisogni. Il fascino del prodotto di serie, la materia dai contenuti tecnologici significativi, i processi costruttivi improntati alla razionalità, tutto concorre a dare qualità alla città. Almeno così sembrerebbe, osservando le sue parti unite da una logica apparentemente nascosta e nonostante l’osservazione si attenga ad un rigore scientifico; ma corre l’obbligo domandarsi se l’urbanistica abbia in sé un rigore scientifico, così come da tempo si afferma. L’architettura, è risaputo, suscita un particolare interesse negli edifici realizzati con sapienza sovente leziosa, ma indubbiamente realizzati in quel luogo secondo quel criterio preciso che alla fine corrisponde alla funzione ed alla bellezza. L’architettura, prima della sua morte, aveva una valenza culturale che è difficile ritrovare nell’urbanistica: le regole delle discipline e delle arti, va da sé, hanno la loro interpretazione. Per contro, là dove si trovava una piazza, le stesse discipline perdono il significato e la funzione “storica” per diventare “altro”, ad esempio un parcheggio. Gli spazi della città corrispondono ad una molteplicità di bisogni e, se i bisogni sono molteplici e confusi tra di loro, lo sono anche gli spazi. Ma la piazza con la chiesa o altro tempio, con un palazzo della giustizia ed anche un mercato coperto non sembrano più distinguersi, non appaiono come una logica destinazione di un piano urbanistico. Sembra essere invece l’architettura con i suoi oggetti a determinare di volta in volta il carattere della città. L’urbanistica intesa come disciplina oggi non trova più il naturale compendio, non si manifesta. Si ha l’impressione che abbia intrapresa un’altra strada, non certamente quella di rispondere ai bisogni della collettività pur godendo del privilegio di poter coinvolgere la collettività in un processo decisionale democratico. La sua strada, come il suo destino, è stata manipolata e resa impervia dalla politica amministrativa. La partecipazione invece dovrebbe necessariamente venire costruita e l’urbanistica potrebbe svolgere questo compito. Se l’urbanistica “progetta” il governo del territorio deve necessariamente conoscerne i bisogni. Vanno conosciuti i bisogni della collettività prima ancora di interpretarli. Occorrerebbe uscire dall’ambiguità con la architettura a maggior ragione se essa si traduce nella forma edilizia; l’architettura, nei momenti migliori di vita, interpreta i bisogni che gli vengono proposti indipendentemente dalla loro valenza urbana. L’architettura si formalizza, osserva nei dettagli le reazioni immediate dei cittadini, non sottilizza, produce l’oggetto dell’abitare confortandolo di impressioni filosofiche, accompagnandolo anzi promuovendolo con la comunicazione. L’urbanistica invece costruisce gli indirizzi, individua i bisogni nella loro generalità, assegnando loro una precisa organizzazione nello spazio ma, purtroppo, correndo il pericolo di non comprenderne il reale significato, la corrispondenza cioè di tutti gli altri spazi urbani. L’architettura segue le regole produttive e si adegua alle richieste del cosiddetto mercato restituendo forme compatibili con la contemporaneità, la quale non è più” un confronto tra spiritualismo e materialismo”, bensì l’adeguamento economicamente rispettoso delle semplici richieste delle committenze. Ma, ciò nonostante e forse per questo, gli spazi assegnati devono avere una organizzazione precisa e realistica nei quali collocare tutte le risposte materiali ai bisogni individuali e collettivi; che poi è il senso della Città. La forma degli spazi vincola la forma dei bisogni e purtroppo diventa complesso selezionare e comunque distinguere i bisogni reali da quelli indotti dal sistema produttivo; non tutti i bisogni posso convivere così come tutte le loro destinazioni. La complessità urbana rispecchia la complessità dei bisogni e la loro forma rispecchia la “risposta” materiale; la complessità sociale non trova la sua forma negli spazi di relazione pertanto diventa arduo, di conseguenza, attribuire una forma alla complessità. L’urbanistica può assumere il compito di formare la città mediante la forma dei bisogni. Qui l’urbanistica dovrebbe “riformarsi”, dovrebbe scendere realmente a “patti con sé stessa “individuando un “vero e realistico quadro teorico di riferimento”. La città ed il suo contesto territoriale sono in costante metamorfosi come pure le relazioni economiche e sociali sottese dai processi produttivi oramai confusi ed esterni alla loro logica storica; dentro questi processi il lavoro e le conoscenze perdono i caratteri originali, come ha perso drammaticamente il suo carattere originale il rapporto della città con la campagna: la relazione fondativa dei processi urbani e delle sue forme di governo. I bisogni nel loro divenire mantengono il “carattere “originario: oggetti di transizione, secondo la formulazione di Deleuze in una intervista su capitalismo e schizofrenia (macchine desideranti, ombre corte), nella quale, appunto si definisce il capitalismo una formidabile macchina desiderante. Tutti i prodotti di questa macchina sono prodotti del desiderio per il desiderio. Il bisogno è un desiderio. qualunque esso sia.
Il bisogno ha una forma? Ogni bisogno ha una forma, si forma, prende materialità ed occupa uno spazio; la dimensione dello spazio non corrisponde necessariamente alla “dimensione del bisogno “e non necessariamente un bisogno si manifesta in uno spazio piccolo: non vi è proporzione tra la natura del bisogno e la sua materialità. Il bisogno reale è quello legato strettamente alla propria esistenza, come il cibo, il mantenimento della propria specie e conseguentemente il luogo ove unire tutto ciò che serve alla realizzazione ed al mantenimento di quel bisogno. Il bisogno reale trova unitarietà come bisogno collettivo indicando con precisione la sua forma e il suo spazio. I bisogni indotti sono quelli suggeriti dal contesto sociale, dalle mode, dalla rappresentazione dell’immaginario collettivo che il sistema produttivo accetta come suggerimenti immettendoli nella produzione e diffondendoli nel mercato: è il sostegno al consumismo, alla riproduzione seriale. Il bisogno indotto comporta la costruzione di spazi supplementari al limite dell’effimero. Per questo la città, diventando oggettivamente il luogo dei bisogni diventa fondamentalmente l’espressione materiale delle sue forme; la città in definitiva è la forma dei bisogni. Progettare l’organizzazione della città e del suo territorio e dare un carattere al suo controllo ed ai processi organizzativi, significa individuare e progettare gli spazi destinati ai bisogni, conoscere la loro materialità, stabilire quali relazioni tra le differenti funzioni possono favorire i processi sociali in un corretto equilibrio. Ma l’equilibrio non può estraniarsi dai processi democratici la cui forma reale, nel sistema capitalistico, sarebbe la produzione individuale di tutti i bisogni: una Utopia che andrebbe strumentalmente agita per generare un “ragionevole conflitto”. L’urbanistica come forma dei bisogni rientrerebbe nel quadro teorico di riferimento per la costruzione della città e delle sue parti con una strumentazione innovativa.




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