UCTAT Newsletter n.81 – settembre 2025
di Carlo Lolla
“Il successo non è definitivo. Il fallimento non è fatale. È il coraggio di andare avanti che conta.” (Winston Churchill)
Il ripensare la città richiede un’urbanistica responsabile e civile, e non un affare tecnico, ma deve essere anche una sfida per il futuro tra potere e giustizia.
Le città non devono essere terreno di speculazione, ma luoghi di giustizia e convivenza.
Il futuro urbano non si costruisce solo con regole e piani, ma con il coraggio di ridurre disuguaglianze e restituire dignità agli spazi.
Progettare la città significa progettare la vita comune.
Un dato certo esiste, per chi si propone e opera in urbanistica. Abbiamo una infinità di leggi, di norme, di regole, di certificati: un labirinto colossale nel quale i vari addetti ai lavori spesso assumono comportamenti spregiudicati, mossi unicamente dal vile denaro. Così facendo non producono sviluppo, ma degrado, perché ignorano non solo le regole, ma soprattutto l’onestà mentale e il piacere di essere veri imprenditori, come ci avevano insegnato i nostri avi.
In questa perfidia mentale dobbiamo includere anche coloro che sono chiamati a vigilare, e che troppo spesso non assolvono al loro compito. Non si deve generalizzare: non tutti sono mele marce. Eppure il problema resta, profondo e diffuso.
L’urbanistica moderna conserva una sua dimensione culturale che non è svanita, ma che ci mette davanti a un interrogativo: siamo sicuri che abbia davvero risposto alle esigenze della comunità, se chi la governa la tradisce? L’urbanistica, in fondo, non è altro che la disciplina che dovrebbe generare armonia di vita per il cittadino. Eppure, guardando le nostre città, si può parlare davvero di armonia?
Ci si chiede se la città occidentale, quella che affonda le sue radici nel modello greco e romano fatto di piazze e spazi pubblici, abbia perso la sua direzione. Nei secoli è cresciuta fino alle metropoli odierne, ma oggi troppe voci discordanti, non di rado improvvisati urbanisti in pectore, frammentano il dibattito. Tuttavia, dal dialogo possono nascere idee nuove, purché ci sia volontà reale di confronto.
Vi è poi una questione centrale, troppo spesso trascurata: la disuguaglianza. Nelle città la forbice sociale si allarga: da una parte chi accumula ricchezze smisurate, l’1% possiede oltre un terzo della ricchezza mondiale, dall’altra chi vive nel disagio quotidiano, tra povertà, degrado, servizi carenti. Questa è ingiustizia sociale e insieme ingiustizia territoriale: l’accesso alle risorse materiali e simboliche non è mai equo. Nascono così due città che si guardano da lontano senza incontrarsi: la città dei ricchi e quella dei poveri. L’urbanistica, se vuole avere senso, deve ripartire da qui: dalla giustizia distributiva, dalla capacità concreta di ridistribuire beni, servizi e opportunità. Le periferie, troppo spesso dimenticate o stigmatizzate, sono la testimonianza più evidente di questa frattura: luoghi dove la povertà materiale si intreccia con quella culturale, dove paura e violenza diventano linguaggio quotidiano. Pensarle in chiave urbanistica significa non limitarsi a costruire muri o strade, ma progettare relazioni, immaginare spazi che restituiscano dignità e possibilità di vita comune.
L’urbanistica, allora, non può limitarsi a essere un insieme di tecniche neutre: è inevitabilmente politica. Analizzare le decisioni pubbliche diventa parte essenziale del lavoro, perché i piani urbanistici non sono mai meri strumenti tecnici: sono atti politici, che riflettono rapporti di forza, visioni di città, interessi contrapposti. Lo studio delle decisioni ci aiuta a collocare le pratiche urbanistiche all’interno di dinamiche più ampie, a riconoscere che dietro ogni scelta vi sono rapporti di sapere e potere, responsabilità civili oltre che tecniche. L’urbanista non può nascondersi dietro la neutralità: il suo sapere è sempre, inevitabilmente, anche un sapere politico.
Il cinema e la cronaca ce lo ricordano bene: già in “Le mani sulla città” di Rosi era chiaro chi deteneva il potere urbano, ovvero immobiliaristi avidi e politici compiacenti, capaci di piegare piani regolatori e varianti al servizio della speculazione. Tangentopoli ne fu un’altra, tragica conferma. Oggi la situazione appare ancora più complessa: le varianti, le deroghe, le scorciatoie amministrative – come la SCIA al posto dei piani attuativi – rendono il potere meno visibile, ma non meno forte. È un potere che controlla le agende pubbliche, spostando i temi scomodi lontano dall’attenzione collettiva, riducendoli a questioni secondarie, manipolandoli attraverso un discorso ideologico che orienta perfino le preferenze dei cittadini. Talvolta interviene la magistratura, ma essa non può sostituirsi alla politica.
Per questo è necessario riconoscere che il potere urbano non è un concetto astratto: è fatto di coalizioni, interessi, conflitti concreti che incidono sulle trasformazioni del territorio. Analizzare questi processi significa rendere l’azione urbanistica più realistica e robusta, capace di misurarsi con i rapporti di forza reali. Significa evitare la deriva del velleitarismo, buone intenzioni che non cambiano nulla, e quella del cinismo, piegarsi alle logiche dei più forti. Solo così l’urbanistica può tornare a essere non complice, ma strumento di democrazia, responsabilità e giustizia civile.




Via Fiamma incrocio via Archimede.
