UCTAT Newsletter n.83 – NOVEMBRE 2025
di Daniele Fanzini
Nel dibattito attuale sull’abitare – segnato da tensioni sociali, trasformazioni economiche e un diffuso senso di smarrimento rispetto alla qualità della città – tornare a osservare l’opera di alcuni architetti del secondo dopoguerra può offrire strumenti preziosi. Tra questi, la figura di Vittorio Gandolfi emerge per la capacità non comune di concepire l’architettura come un servizio pubblico, un’infrastruttura per la vita quotidiana, un dispositivo che combina tecnica, sensibilità umanistica e responsabilità sociale. La sua opera, spesso considerata per la coerenza formale e la qualità compositiva, rivela oggi una sorprendente attualità, soprattutto se letta nel contesto delle difficoltà contemporanee: crescita della domanda abitativa, trasformazione dei nuclei familiari, crescente pressione del mercato immobiliare, fragilità del patrimonio esistente e, più in generale, una diffusa perdita di visione strategica sulla città.
Rileggere Gandolfi non significa indulgere in un esercizio nostalgico, ma comprendere come la sua pratica progettuale possa offrire una bussola per orientarsi in un panorama che oscilla tra emergenza e casualità. L’abitare, nel suo lavoro, è innanzitutto una questione di dignità, legata al benessere delle persone e alla qualità del contesto urbano. Ogni progetto parte da un principio semplice e tuttavia rivoluzionario: la casa è un luogo dove si costruiscono relazioni, routine, educazione, futuro.
Questa visione si ritrova con particolare chiarezza nei progetti INA-Casa e INCIS, dove Gandolfi mette a punto un metodo progettuale capace di tenere insieme efficienza economica, qualità d’uso e responsabilità civile. Nel quartiere INA-Casa di Piacenza del 1949, realizzato con Magistretti, Pagani e Tevarotto, già emergono alcuni tratti della sua poetica: la cura per l’orientamento degli alloggi, la distribuzione interna pensata per il comfort quotidiano, la presenza di spazi di prossimità, la relazione calibrata tra edifici e verde. Non si tratta semplicemente della applicazione sapiente di regole funzionaliste, ma di soluzioni progettuali che concepiscono l’abitazione come un microsistema complesso, in cui luce, aria, materiali, distanze e percorsi contribuiscono alla qualità dell’esperienza.
Gandolfi non considera l’alloggio un contenitore neutro, ma un ambiente capace di incidere sulla formazione dei cittadini. Lo afferma già nel 1945 nel suo libro intitolato “Gli studi nella casa”, un piccolo testo che anticipa di decenni temi oggi centrali: la casa come luogo educativo, la necessità di spazi flessibili, l’importanza della luce naturale e della ventilazione, il ruolo degli arredi e delle tecnologie come dispositivi di benessere. La casa, per lui, è il primo tassello della città e la città è un’estensione della casa: una continuità che oggi sembra smarrita, soprattutto nelle periferie più recenti.
La grande forza dell’opera di Gandolfi sta nel metodo. Le sue piante non sono mai ripetizioni meccaniche, ma soluzioni calibrate che uniscono razionalità e sensibilità. Le tipologie duplex di via Negroli a Milano, per esempio, rispondono ad esigenze di densificazione, senza però sacrificare la qualità d’uso degli alloggi. Gli alloggi INA-Casa con piani sfalsati rivelano un’attenzione al comfort e alla ventilazione naturale. Parimenti, le case a ballatoio del complesso di Strada Garibaldi a Parma dimostrano come sia possibile costruire sistemi abitativi densamente popolati senza perdere la relazione con lo spazio pubblico. In tutte queste opere, le scelte tipologiche sono strumenti per modellare comportamenti e relazioni, e non meri esercizi di linguaggio.
La dimensione umana attraversa ogni dettaglio del suo lavoro: la posizione delle finestre, la sequenza degli affacci, la presenza di balconi come estensione delle abitazioni, la definizione dei percorsi pedonali, il rapporto tra pubblico e privato. È un’architettura che non cerca la spettacolarità, e proprio per questo resiste nel tempo. Molti degli edifici progettati da Gandolfi mantengono ancora oggi una sorprendente attualità, e spesso una buona qualità di conservazione, proprio perché concepiti con materiali semplici, geometrie chiare e soluzioni costruttive razionali.
Questa razionalità non è mai riduzionistica. Se Gandolfi ricorre alla prefabbricazione e alla modularità – influenzato anche dalla collaborazione con Giuseppe Ciribini, uno dei maggiori teorici italiani della progettazione razionale – lo fa per valorizzare la qualità del progetto, non per ridurne la complessità. L’industrializzazione del secondo dopoguerra non è per lui un vincolo, ma un’occasione per sperimentare soluzioni costruttive che garantiscano efficienza senza sacrificare l’estetica e il comfort. È un’idea di sostenibilità ante litteram, fondata sulla riduzione degli sprechi, il controllo dei costi e la durabilità delle opere.
Uno degli aspetti più rilevanti del suo lavoro è la capacità di pensare il quartiere come un pezzo di città. Nei progetti di Parma – dal quartiere Montanara al complesso “Al Cristo” – Gandolfi struttura sistemi complessi, dove tipologie, spazi verdi, percorsi pedonali e servizi si integrano in un disegno urbano coerente. Non si tratta di semplici lottizzazioni, ma di organismi vivi, in cui la gerarchia degli spazi pubblici contribuisce a costruire comunità. La varietà tipologica è guidata da una logica, mai da una ricerca di effetti speciali; la densità è calibrata; le relazioni tra il costruito e il non costruito sono misurate. Questo approccio, lontano dalle operazioni frammentate e dalla massimizzazione fondiaria che spesso caratterizzano gli interventi contemporanei, appare oggi quasi rivoluzionario.
La città che Gandolfi immagina è una città inclusiva, ordinata, capace di accogliere la diversità delle famiglie e dei modi di vivere. Non è un’utopia: è una costruzione concreta, fatta di dettagli e scelte tecniche. È sorprendente osservare come molte delle sue intuizioni coincidano con le questioni che oggi affollano il dibattito sull’abitare: densità equilibrata, spazi di prossimità, mix funzionale, facilità di manutenzione, attenzione alla luce e all’orientamento, necessità di soluzioni flessibili per nuclei familiari in trasformazione.
Nel momento in cui il settore edilizio si interroga su come ridurre i costi, accelerare i processi costruttivi e migliorare le prestazioni energetiche, l’eredità metodologica di Gandolfi offre una strada che combina innovazione e semplicità. Le sue soluzioni costruttive – pensiamo alle scale prefabbricate, ai blocchi modulari, agli elementi standardizzati ma variati – dimostrano che è possibile unire efficienza, qualità e bellezza. È una lezione che parla direttamente alle sfide del presente, dalla rigenerazione urbana alla progettazione dell’abitare sociale, fino alle politiche per la casa.
Ripensare Gandolfi significa anche riflettere sul ruolo dell’architetto come intellettuale tecnico: una figura capace di tradurre problemi sociali in soluzioni spaziali, di interpretare bisogni reali e di orientare le trasformazioni urbane con senso civico. La sua opera non è un catalogo di forme, ma un archivio di metodi. Straordinariamente attuale è la sua capacità di tenere insieme progetto, costruzione e uso, senza separare il gesto creativo dalla realtà operativa del cantiere e della vita quotidiana. In un’epoca in cui il dibattito sull’abitare rischia spesso di polarizzarsi tra emergenza e spettacolarizzazione, l’opera di Gandolfi invita a recuperare una cultura della sobrietà e della misura. Non per rinunciare all’innovazione, ma per fondarla su basi solide: qualità dello spazio, responsabilità sociale, attenzione alla vita delle persone. La lezione più importante che ci consegna è forse questa: l’architettura dell’abitare non deve stupire, ma funzionare. Non deve dominare, ma accogliere. Non deve durare una stagione, ma attraversare il tempo. E nel momento in cui la città contemporanea affronta sfide sempre più complesse – dalla trasformazione climatica alla pressione immobiliare, dalla crisi del welfare abitativo alle nuove forme della domesticità – la sua opera continua a indicarci una direzione chiara. Per progettare il futuro dell’abitare non serve inventare soluzioni straordinarie: serve tornare a far bene le cose ordinarie. Gandolfi lo aveva capito prima di molti. E oggi, più che mai, la sua architettura ci ricorda che la qualità non è un lusso, ma un diritto.

